UNA CONGIURA DI PALAZZO
(STORIA DELLA FAMIGLIA BOSCHETTI A FERRARA)
1* I fatti di questa vicenda si svolsero a Ferrara agli inizi del cinquecento, presso la Corte Estense. Fu un’autentica congiura, in regola con i tempi, alimentata da odi, fazioni, gelosie d’amore e intrighi politici.
Era morto da poco Ercole I d’Este (1431-1505), figlio del marchese Niccolò III, che nel 1471 era succeduto al fratello primogenito, Borso d’Este, come Duca di Ferrara, Modena e Reggio. Il ducato era poi passato al figlio primogenito del duca Ercole, Alfonso I, che nel 1501 aveva sposato (anche per ragioni politiche) la bellissima Lucrezia Borgia, figlia carnale di Alessandro VI, lo spagnolo Rodrigo Borgia (salito al soglio pontificio nel 1492, anno della scoperta dell’America, e morto nel 1503, due anni dopo quel fastoso sposalizio). Lucrezia era la sorella del Duca Valentino. Quel Papa spagnolo, pagano e principesco, aveva avuto almeno tre figli famosi. Parleremo di Lucrezia e del fratello, perché fanno parte del racconto. Un racconto, che appartiene alla storia di Ferrara, ma che non ha alcun’altra pretesa particolare, se non quella di riportare in qualche modo i fatti, che dapprima invischiarono e infine compromisero anche il conte Alberto Boschetti, in quell’epoca personaggio politico di spicco, sotto gli Estensi a Ferrara, capostipite di una famiglia che fu costretta a fuggire e a rifugiarsi in Umbria, che dopo cinque secoli ancora esiste, godendo ancora di un buon nome.
Munifico e magnifico, Ercole I d’Este aveva speso somme favolose per perpetuare la tradizione gaudente e festaiola degli Estensi. Colto, brillante e raffinato, non lesinò sovvenzioniad artisti e letterati, ai quali amava mescolarsi. Così Indro Montanelli: L’Italia dei secoli d’oro.
Questo dinasta rinascimentale, Ercole I, aveva consolidato le già notevoli fortune del casato. Rinsaldò le finanze, tracciò un nuovo piano regolatore di Ferrara, allargò la cinta muraria della città, creò nuovi quartieri, edificò grandi palazzi, svolse un’accorta politica di rapporti e d’alleanze politiche: sicché Ferrara divenne – in pochi anni – una delle città piùmoderne, funzionali e razionali d’Europa.
Il popolo continuava come sempre a darsi convegno sulla piazza grande del Duomo medievale. I nobili invece si ritrovavano nel Castello che era stato fatto costruire da Niccolò I. Erano i due più insigni monumenti di Ferrara, caratterizzata nella parte antica da viuzze e vicoli tortuosi, con case ordinarie o dimore notevoli, mentre l’Addizione Erculea si allargava in belle arterie rettilinee e sontuosi palazzi, il palazzo Schifanoia, che era la residenza estiva di corte, il Romei, detto anche di Ludovico il Moro, e il famoso palazzo dei Diamanti, esibivano – con opulenza e nuovi fasti – l’eccellenza di una corte rinascimentale.
Ferrara era sorta nell’epoca delle invasioni barbariche con le popolazioni fuggiasche del Friuli. Fu occupata dai Longobardi e dai Franchi, e donata, infine, da Carlo Magno alla terre della Chiesa. Nel X secolo si reggeva con un governo autonomo, disputato tra Guelfi e Ghibellini.
Nel 1240 finì in possesso della casa d’Este che v’instaurò la prima signoria italiana e ne fece in seguito la capitale del Ducato e la sede di una delle più splendide e munifiche corti d’Italia, alla quale convennero artisti, umanisti, e letterati insigni, fra i quali – nelle lettere e nella poesia – trionfarono grandi autori come Ludovico Ariosto e Torquato Tasso.
Dopo tre secoli e mezzo il dominio estense tramontò e, nel 1598, la città passò sotto il potere della Chiesa. Nel 1796 la occuparono i Francesi, nel 1799 fu appannaggio dell’Austria, nel 1801 tornò di nuovo alla Francia, che prima la aggregò alla Repubblica Cisalpina, poi al Regno italico.
Ritornò in seguito sotto il dominio pontificio, dopo il congresso di Vienna (1815), e vi rimase fino al 1859, quando venne a congiungersi col Regno d’Italia.
Este era una minuscola contea, data in feudo – verso la fine dell’anno 900 – dall’imperatore Ottone I ad Azzo conte di Canossa, un antenato ‘matildino’. Quando gli Estensi divennero signori di Ferrara, si trattava poco più di un borgo, ma la geografia la favoriva, e la dinastia estense seppe profittare con accortezza di questo notevole vantaggio.
Il signore che meglio incarnò i caratteri della casata fu Niccolò III, che governò per quasi cinquant’anni, dal 1393 al 1441, guerreggiando, spendendo e sposando con identicagenerosità. Forse fu grazie a lui che Ferrara conquistò il primatonazionale dei figlibastardi che ha mantenuto fino ai nostrigiorni’ (così Indro Montanelli e Roberto Gervaso).
Niccolò aveva impalmato la bella Parisina Malatesta, di quasi vent’anni più giovane di lui, che però s’innamorò perdutamente del figliastro Ugo, suo coetaneo. Niccolò – per vendetta – fece decapitare i due amanti, promulgando una legge contro gli adulteri. Ma l’antico vizio delle “corna” era destinato a ripetersi, nei modi che vedremo.
Niccolò non era colto, ma riaprì l’Università, che era stata chiusa per mancanza di fondi. Ebbe tre figli, uno migliore dell’altro, sebbene illegittimi. Lionello, che gli successe per primo, era una rara combinazione d’intelligenza speculativa e di saggezza: sapeva maneggiare anche il greco e il latino, tanto che il Filelfo l’ammirava.Alla sua morte, che fu precoce, gli successe il fratello Borso; quindi, come abbiamo già detto, venne il turno di Ercole, il terzogenito, al quale succedette, appunto, Alfonso, in base al principio feudale del maggiorasco.
Borso, nel 1452, non riuscendo a ottenere dall’allora Papa Niccolò V la promozione a Duca, se la comprò dall’Imperatore, insieme alle città di Modena e di Reggio. Nel 1471 gli successe Ercole, che non fu da meno, quanto a figli bastardi. Infatti, mentre Alfonso, il primogenito, e Ippolito, fatto cardinale a soli quattordici anni, erano figli legittimi di Alfonso d’Este, insieme all’insignificante Ferrante, invece Giulio – un giovane dai bellissimi occhi azzurri e dal volto fiero – era un bastardo. La quarta figlia, Isabella, andò in moglie a un Gonzaga, duca Mantova, quel Federico II che fu il generalissimo della Lega Santa, per la quale combatté, a Fornovo, nel 1495, contro Carlo VIII.
A palazzo si svolgeva la vita di corte in un vortice di feste, banchetti, balli mascherati, concerti. I generali si mescolavano ai nani, gli ufficiali diStato ai buffoni, gli artisti ai cantastorie. Le dame, nelle loro stanze, ricevevano i cavalieri, e si facevano declamare le chansons de geste.
Eleonora, moglie di Ercole e figlia del re di Napoli, teneva salotto, e intorno a lei ruotava tutta la vita mondana di Ferrara. L’intellighenzia si raccoglieva nelle aule dell’Università, e nello studio del Guarino, uno degli uomini più colti del tempo. Grazie anche al Guarino, Ferrara divenne una delle grandi capitali del Rinascimento, centro di richiamo per intellettuali ed artisti di spicco: dal Boiardo al Turà, dal Cossa a de’ Roberti.
L’Orlando innamorato del Boiardo fu qui composto nel 1486. Il poema narrava l’amore tormentato e contrastato per “Angelica”, con una trama anticipatrice della futura congiura di cui si dirà. Questo poema servirà da modello a Ludovico Ariosto per il suo Orando Furioso.
Nato a Reggio Emilia nel 1474, Ariosto iniziò a comporre a Ferrara, nel 1506, in una corte signorilmente equilibrata e ricca d’esperienza, il suo capolavoro. Anche Pietro Bembo, che era il dittatore del gusto letterario del secolo, si trovava a Ferrara: egli compare, peraltro, fra gli interlocutori nel Cortegiano del Castiglione, e a lui si rivolge l’Ariosto, coi suoi versi: << …Pietro / Bembo che ‘l puro e dolce idioma nostro, / Levato fuor dal volgar tetro, / qualeesser dee, ci ha col suo esempio mostro..>> (Orlando Furioso XLVI 15 ).
L’ottimo Cosmè Tura fu il pittore di Corte dal 1458 al 1495. Ritrasse intere generazioni di estensi e decorò lo splendido palazzo Schifanoia, residenza estiva dei Duchi. Suo allievo fu il Cossa, e a questi maestri, faceva da contorno una folla di minori – arazzieri, miniaturisti, orefici – che lasciarono l’impronta della loro arte nelle chiese e nei palazzi di una città, che sembrava costruita apposta per fare da cornice e da palcoscenico a una festa che raggiungeva l’acme a carnevale, ma che nemmeno la Quaresima interrompeva.
Il clima festaiolo non impedì certamente il grande sviluppo dell’arte e della cultura. La Galleria estense, trasferita a Modena dopo il 1598, rigurgitava di capolavori. Ricchissima, la Biblioteca, formata dal 1436 in poi, ed infine trasferita – sempre a Modena – con i suoi manoscritti miniati (tra questi, ad esempio, la famosa Bibbia di Borso d’Este, il Breviario di Ercole, e il Messale di Anna Sforza). Tanti i codici preziosi, d’ogni genere. 400.000 circa, tra volumi e opuscoli; almeno 13.000 manoscritti; 1.161 incunaboli; 165.000 ‘autografi’; e, quindi, i 120.000 volumi dell’Università. E molte carte geografiche di grande interesse scientifico. Il Rinascimento lasciava il suo segno anche in queste immense ricchezze.
2* Alle sogliedel cinquecento,l’Italia, esauritesi le libertà comunali,è divisa in reami, principati e signorie, che contendono alla Chiesa città e territori; ed è, dunque, stretta nella morsa politica delle monarchie europee.
A Carlo VIII, in Francia, era succeduto il cugino Luigi di Valois-Orléans, cioè Luigi XII (1498 -1515), il quale non solo rivendicò le Due Sicilie, ma anche il Milanese come discendente di Valentina Visconti.
Accordandosi con la Spagna, con Venezia e il Papa, gli riuscì di poter sciogliere la Lega Santa. Il Ducato milanese fu occupato, quasi senza resistenze (nel 1499, Ludovico il Moro fuggì in Germania: ritornato nel 1501 in Italia, morì prigioniero, in Francia, nel 1508). Per il possesso di Napoli, Luigi XII concluse, invece, una spartizione coll’altro pretendente, Ferdinando il Cattolico.
Lo spagnolo Alessandro VI Borgia aveva cinto la tiara pontificia nel 1492, l’anno stesso della scoperta dell’America, succedendo, quasi all’unanimità, (soltanto il Cardinale della Rovere, futuro Papa Giulio II, non lo voterà in conclave), a Papa Innocenzo VIII (1484-1492), Giovan Battista Cibo, la cui vicenda pontificia è importantissima, anche nei riguardi di Cristoforo Colombo.
Con l’elezione di Papa Borgia (1492-1503), la cui discutibilissima figura umana fu annacquata dal giudizio un po’ meno severo del Pastor, s’iniziò la rapidissima ascesa del Duca Valentino, al quale Machiavelli s’ispirò per il Principe.Con gli aiuti francesi, il duca Valentino (suo fratello Giovanni, duca di Gandia, era stato assassinato in circostanze misteriose la notte del 14 giugno 1497, e il suo cadavere fu ripescato nel Tevere), si accinse alle imprese, da lui programmate e meditate in Romagna, giacché suo padre, Alessandro VI, aveva dichiarato decaduti dai loro feudi alcuni Signori, col pretesto che non avevano pagato il censo dovuto alla Chiesa.
Cesare, così volle chiamarsi il Valentino, occupò (1499-1501) Imola, Forlì, Faenza, Rimini, Pesaro. Le mire restauratrici del Valentino erano spietate, ed anche per questa ragione fu nominato Duca, cioè Dux. Fra i Borgia ed Ercole d’Este fu invece stipulata un’alleanza matrimoniale che tornava molto comoda politicamente.
La bellissima Lucrezia Borgia – immortalata dal Punturicchio – e che da uno storico dell’epoca sarà definita, a un tempo, figlia, nuora e moglie del Papa, andò in sposa ad Alfonso d’Este, il 30 dicembre del 1501.
Lucrezia che era nata il 18 aprile 1480 era già reduce da due matrimoni: il primo (12 giugno 1493), appena tredicenne, con Giovanni Sforza, detto lo Sforzino, signore di Pesaro; il secondo (21 luglio 1498), con Alfonso di Bisceglie. Lasciamo ai saggisti (Roberto Gervaso per I Borgia – Maria Bellonci, Massimo Grillandi, Genèviève Chastenetper Lucrezia Borgia) il difficile compito della narrazione dei fatti biograficie del clima d’epoca.
Qui interessa che Lucrezia giunse a Ferrara come moglie di Alfonso, il primogenito di Ercole d’Este, e che ebbe al suo seguito l’altrettanto affascinante cugina Angela Borgia, già promessa sposa di Francesco della Rovere. Ma, con la morte di Alessandro VI (18 ottobre 1503), il promesso fidanzamento di Angela Borgia, la cugina di Lucrezia, altrettanto bella e affascinante, con Francesco Rovere s’era ormai rotto, anche perché Isabella Gonzaga, figlia del duca Ercole, aveva proposto al giovane Della Rovere la candidatura della propria figlia Eleonora, che Francesco, nipote del nuovo pontefice Giulio II (1503-1513) – Pio III era morto dopo pochi giorni di pontificato, e gli successe, appunto, il cardinale Della Rovere, che in conclave aveva negato il suo voto al Borgia – difatti sposerà cinque anni dopo. Per addolcirne la delusione, Lucrezia Borgia aveva accolto con sé, a Ferrara, la cugina Angela Borgia, descritta come un’incantevole fanciulla diciottenne, traboccante di malizia, noncurante degli obblighi protocollari, decisa a godere di tutti piaceri della vita’ (così la Chastenet).
La presenza di Angela Borgia alla Corte Estense scatenò un dramma di cui stiamo spiegando i fatti.
3* Nell’estate del 1502 Cesare Borgia, il Duca Valentino, si volse contro il tradimento di Guidobaldo da Montefeltro, togliendogli il ducato d’Urbino. Prese poi Camerino a Giulio Cesare Varano, facendo strangolare lui e i due figli. A questo punto, i condottieri del Duca Valentino, in parte piccoli signori dell’Italia centrale, tra i quali Giampaolo Baglioni di Perugia, compresero con chiarezza il rischio che loro stessi stavano correndo, e dunque, riunitisi a Magione, presso Perugia, dove si trovava un castello templare, s’intesero con i Bentivoglio, signori di Bologna, col Petrucci e col duca Guidobaldo, facendo divampare una ribellione a Urbino e a Camerino, che furono rioccupate.
Il Valentino fu quasi messo alle corde. Chiusosi a Imola, riuscì però a ottenere l’aiuto di Luigi XII, re di Francia; trattò quindi con Firenze e s’accordò infine con i Bentivoglio, indicendo, poi, un pacifico convegno a Senigallia (31 dicembre 1502). Avuti così con l’inganno, nelle sue mani, i ribelli (Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, Paolo e Francesco Orsini), li mandò a morte. A quest’annunzio, gli altri tirannelli dell’Italia centrale fuggirono, mentre Città di Castello e Perugia furono occupate da Cesare. Gli Orsini furono invece costretti a un armistizio.
Intanto, Francia e Spagna, per contrasti nella spartizione del napoletano, erano venute a guerra tra di loro (giugno 1502). Ed è in tale ‘contesto’ storico che si colloca la famosa disfida di Barletta (13 febbraio 1502), episodio mitico e romanzesco, che vide prevalere i tredici campioni italiani, arruolati dagli spagnoli, sui tredici cavalieri francesi, che col suo romanzo il D’Azeglio prese – nel Risorgimento – ad esempio e a simbolo della resurrezione dello spirito e dell’orgoglio nazionale.
Con Papa Giulio II Della Rovere, che odiava gli Estensi, tramontò alla fine anche l’astro cupo del Valentino, che fu mandato prigioniero in Spagna. Riparato presso il re di Navarra, morì in battaglia, nel 1507, combattendo per lui contro un feudatario ribelle, sotto il castello di Viana.
A Perugia, intanto, faceva il bello e il cattivo tempo Gianpaolo Baglioni, signorotto locale. Costui, come ci racconta il Gurrieri nella Storia di Perugia, era soprattutto un soldato di ventura, che guerreggiò da molte parti. Suoi nemici interni erano gli Oddi, gli Armanni, e i Della Cornia.
Il Baglioni aveva continuato a combattere dalla parte di Cesare Borgia; ravvedutosi, prese parte – pure lui – al patto di Magione. Fu però così furbo da non recarsi al convegno di Senigallia. Anzi, fuggito da Perugia, riuscì a salvarsi.
Gian Paolo Baglioni, scriveva il Machiavelli, non era troppo affidabile, e nemmeno schietto. Mancava spesso alla parola ‘data’ e conservava sempre un animo doppio.
Papa Giulio II, il famoso Papa di Michelangelo, riconquistate le città della Romagna, fece intendere, nel Concistoro del giugno del 1506, di volere per sé anche Bologna e Perugia. E, in qualche modo, le ottenne.
La dinastia Baglioni fu domata da Paolo III Farnese (1534-1549), che fece costruire la “Rocca Paolina” sulle case della famiglia Baglioni, che impegnavano un intero quartiere posto al confine estremo del Colle del Landone (in fondo all’attuale Corso Vannucci e al capo opposto di Porta Sole), sancendone così il definitivo tramonto. (Quello dei Baglioni è un cognome abbastanza diffuso tra Assisi e Perugia. Ciò significa un antico radicamento territoriale e un’origine popolare del ceppo familiare).
Dopo il convegno di Senigallia, e i fatti successivi, compresa la morte del Valentino, rispettivamente, i Bentivoglio e i Baglioni si erano di nuovo istallati, a Bologna e a Perugia. Giulio II si rivolse alla Francia per un aiuto militare, e con l’esercito papalino, guidato dal Duca di Urbino, al cuifianco si mosse il papa stesso a cavallo, munito di corazzae di lancia, si fece contro Perugia. All’avvicinarsi delle truppe della lega, Giampaolo Baglioni fu colto dal panico: andò incontro al Ponteficee, dopo esserglisisottomesso, gli chiese perdono (vedi Montanelli – Gervaso, L’Italia della controriforma).
Con la resa del Baglioni, il Papa occupò la città di Perugia, quindi puntò su Bologna, ricostituendo lo Stato Pontificio. Sono questi gli anni in cui Alfonso d’Este diviene Duca di Ferrara (1505), e Ariosto inizia a comporre l’Orlando Furioso (1506). Muore anche il Valentino (1506).
Michelangelo comincia a dipingere la Cappella Sistina e Raffaello le Stanze della Segnatura (1508). Viene eletto imperatore del Sacro Romano Impero Massimiliano I d’Asburgo, e si costituisce la Lega di Cambrai contro Venezia (1508), che sarà battuta nella sanguinosa battaglia di Agnadello (1509)
Quanto a Perugia, e in particolare Assisi, alle loro lotte interne tra parti e fazioni, i Nepis contro i Fiumi, e la Parte di Sopra contro la Parte di Sotto, è il Maturanzio che ci dà alcuni ragguagli, almeno per gli anni precedenti (dal 1488 in poi), facendoci sapere che i Baglioni erano alleati degli uomini di Parte di Sopra (cioè i Nepis ), contro i Fiumi di Parte di Sotto. Manco a dirlo, rimangono oggi ad Assisi i loro palazzi, e i loro discendenti.
A grandi vicende corrispondevano, su scala ridotta, delle vicende minori. Jacopo ed Alessandro Fiumi, raccolti i cittadini, si affrontano coll’oste de’ Baglioni, la quale tenevasi già sicura della vittoria, e dopo un aspro e lungocombattimento, riuscirono a ricacciarla disordinata e malconcia fuor delle mura, dandolela caccia per non picciol tratto del contado con danno e vergogna grande dei Baglioni. E come ciò fosse poco, tempestarono i dintorni di Casa Castalda, di Castel d’Arno e diCivitella, traendone prede e prigioni, il che fu causa dell’inasprirsi dei Baglioni, i quali, come a suo luogo vedremo, non mancarono di pigliarnevendetta (così Pompeo Pellini, storico perugino, ed anche il Cristofani, ottocentesco storico assisiate).
Viene nominato Castel d’Arno, piccolo feudo rurale posto tra Perugia e Assisi, già oggetto di accordo territoriale tra i due Comuni, ai primi del duecento (Antonio Cristofani, Delle storie di Assisi,1897). Il territorio era anticamente posto al confine tra Etruschi e Umbri, divisi dal corso del Tevere. Ma torniamo ai fatti della nostra “congiura” di palazzo, a Ferrara, sotto il duca Alfonso d’Este.
5* Il matrimonio di Lucrezia Borgia conAlfonso d’Este fu assai sfarzoso. Tuttavia l’accoglienza tributatale dai nuovi sudditi, quando il 2 febbraio 1502 la bellissima Lucrezia varcò le mura della capitale estense, fu piuttosto tiepida, anche se quei festeggiamenti si svolsero all’insegna dell’opulenza e del fasto, così come si conveniva a principi di una prosapia tanto gloriosa. Con questo matrimonio Ercole non solo vanificava le mire della Chiesa su Ferrara, ma neutralizzava anche quelle della Serenissima Venezia. Si erano svolte lunghe e spossanti trattative, ma alla fine aveva prevalso il reciproco interesse. Ferrara non aveva più nulla da temere dalla potentissima vicina.
In realtà, Alfonso e Lucrezia avevano poco in comune. Lui era rude, tutto d’un pezzo, ma pieno di buon senso. E continuò a contornarsi di belle donne. Le scappatelle coniugali, per quanto frequenti, non turbavano la pace familiare. A Ferrara Lucrezia si buttò invece alle spalle il suo tragico e torbido passato.
Quando, il 25 gennaio 1505, dopo la morte del duca Ercole, Alfonso ne raccolse la successione, e lei, Lucrezia, divenne duchessa, il suo salotto si trasformò in un selezionato eraffinato Parnaso.
Fra i più assidui frequentatori c’erano poeti come Tito Vespasiano Strozzi e suo figlio Ercole, Aldo Manunzio, il famoso stampatore veneto, e, di tanto in tanto, anche il Bembo.
Qualcuno, allora, parlò di una segreta tresca tra Ercole Strozzi, novello Orfeo, e Lucrezia. Il 6 giugno, il poeta, che era appena trentacinquenne, fu assassinato, in circostanze misteriose: il suo corpo, trafitto da ventidue colpi, fu trovato a pochi passi dal palazzo ducale. Come per il Duca di Gandia, anche per Ercole, non si venne, o non si volle giungere, a capo di nulla. Fu un duro colpo; ma la presenza di altri poeti, in particolare il Bembo, tenne viva la fiamma, non soltanto letteraria. Le corti giocavano e trescavano. L’Amore e le Armi discendevano dal grande poema virgiliano, l’Eneide.
Il nuovo colpo di fulmine tra i due – Lucrezia e il Bembo – dovette essere reciproco, come appunto dimostra la loro lunga corrispondenza, durata una quindicina d’anni (fino al 1517). Con Lucrezia che intanto continuava a mettere al mondo figli per il duca Alfonso. Lucrezia morirà il 24 giugno 1519, a trentanove anni, colpita da una setticemia da parto, per la sesta gravidanza, una bambina, che nata prematura, non sopravvisse.
La vita ferrarese di Lucrezia era ormai diventata più tranquilla, molto meno agitata di quella romana, ma nemmeno a Ferrara mancarono lutti e drammi.
Il più sanguinoso di questi fu, appunto, la congiura di palazzo montata dal cognato Giulio, il fratellastro bastardo del duca Alfonso, contro il suo ducato. A scatenarla fu la rivalità amorosa fra Giulio, figlio naturale di Ercole d’Este, e l’altro fratellastro, il cardinale Ippolito, che era il figlio secondogenito, ambedue innamorati della bellissima Angela Borgia, la cugina di Lucrezia, che era stata l’ex fidanzata di Francesco Maria della Rovere, e che, come già detto, si era aggregata al seguito di Lucrezia, a Ferrara.
Ippolito d’Este (1479-1520), secondogenito del Duca Ercole – da non confondere con Ippolito II (1509-1572 ), figlio di Alfonso I e di Lucrezia Borgia – fatto porporato fin da ragazzo, fu poi cardinale di Milano per oltre dieci anni e fu assai legato alla Francia. Di gusti raffinati, munifico e dispendioso, fu in seguito il costruttore della meravigliosa Villa d’Este a Tivoli. Ippolito, cardinale a 14 anni, poi diventato un astuto diplomatico, fu sempre molto vicino al fratello Alfonso, il Duca, essendo anche il dedicatario del capolavoro dell’Ariosto, l’Orlando furioso.
Angelica Borgia, bellissima, capricciosa ed eccentrica, aveva fatto girare la testa a molti uomini di corte, e da uno di costoro, molto probabilmente Giulio, il bastardo di casa d’Este, era stata messa incinta. Il gelosissimo cardinale Ippolito, che si era innamorato di Angelica, non si dava pace.
L’idea che Angela Borgia gli preferisse il fratellastro, lo sconvolgeva. Quando poi la donna, o per provocarlo o per liberarsene, osò vantare i bellissimi occhi di Giulio, il suo livore diventò furore.
Il primo novembre del 1505, verso mezzogiorno, Ippolito, seguito dai propri scherani, incontrò il fratellastro Giulio, e vedendolo solo, dette ordine d’aggredirlo, disarcionarlo, e crudelmente di strappargli gli occhi.
Colto di sorpresa, Giulio non fece in tempo a difendersi. Sopraffatto, fu pestato a sangue, brutalmente sfigurato nel volto, così rimettendoci (quantomeno) un occhio.
Lo soccorsero alcuni cavalieri, che non dovevano trovarsi lontano (si era trattato di un vero e proprio agguato premeditato), i quali lo trasportarono a Belriguardo, dove gli furono apprestate le prime cure.
Le sue condizioni apparvero subito gravi: le ferite agli occhi erano profonde e i medici temevano che li perdesse entrambi. Uno,invece, riuscìa salvarlo, ma orribilmente sfigurato (stiamo seguendo la narrazione di Roberto Gervaso, integrandola con altri particolari, tratti dalle biografie di Lucrezia Borgia, che si rifanno – tutte quante – all’episodio dell’agguato, ed anche alla congiura di palazzo contro Alfonso d’Este, che ne derivò come estrema conseguenza politica).
Saputo dell’agguato, il duca Alfonso – che per Ippolito, suo consigliere di fiducia, aveva un debole, e non ne faceva mistero – rifiutò di dargli la caccia e di infliggergli quella condanna che l’infame attentato invocava. Si limitò a deplorarlo, ma non adottò alcun provvedimento contro il cardinale fratello, che un mese dopo il crimine poté rientrare indisturbato a Ferrara.
Alfonso pretese, addirittura, che i due fratelli si rappacificassero.
Li chiamò al suo cospetto e invitò Ippolito a chiedere perdono. Obtorto collo Ippolito obbedì e Giulio sembrò concederglielo.
Ma la cosa non finì lì. Giulio, mostruosamente sfigurato nel volto (gli mancava un occhio e l’altro era bello che sconciato della palpebra), non poteva dimenticare l’odio feroce che in lui covava sempre di più; né, Ippolito, si era ravveduto del suo misfatto. L’unico mezzo per riscattare il proprio onore era, per Giulio, la vendetta: e a questo volse la mente e l’animo suo, esacerbato anche dal comportamento tenuto dal duca Alfonso.
Siamo nel 1506. Papa Borgia è morto da tre anni. Il nuovo Papa, Giulio II, non solo non vede con favore gli Estensi, ma è addirittura contro.
A Ferrara si registrano malumori di corte e di popolo nei riguardi del duca. Tra questi dissenzienti spiccano, per l’importanza a corte, l’anziano conte Albertino Boschetti di San Cesario, il cui feudo era stato però revocato da Alfonso, che voleva riappropriarsene, e il di lui genero, Gherardo de Roberti, capitano della guardia di palazzo, nonché alcuni servi infedeli del Duca, come quel Gian Cantore di Guascogna, un gigante biondo e corpulento, che già godette dei favori di Alfonso d’Este, non solo per via della bella voce, ma anche perché sapeva fargli da mezzano.
Secondo la Chastenet, un primo attentato ebbe luogo, perciò, in una situazione piuttosto piccante: Alfonso si trovava a convegno con una cortigiana, che, sotto il pretesto di renderpiù stimolante il gioco erotico, lo aveva legato al letto… ma appena dileguata l’ebbrezza amorosa, il duca si era trovato mani e piedi legati alle colonne di quel letto, alla mercé di Gian cantore, che stava per tagliarli la gola, e aveva urlato, chiamando aiuto: a quel punto il sicario, evidentemente più incline all’ossequio che alla violenza nei confronti del suo signore, usò il pugnale per liberalo dai lacci e non gli fece alcun male (analoga versione, nella biografia ‘lucreziana’ della Bellonci, oltre che in Grillandi, nel capitolo della biografia di Lucrezia Borgia, intitolato – appunto – Una congiura da operetta).
L’insuccesso iniziale avrebbe potuto dissuadere i congiurati; invece fu subito elaborato un nuovo piano: avvelenare Ippolito, e poi uccidere Alfonso, questa volta durante un ballo in maschera. In tal modo don Giulio avrebbe avuto la sua vendetta, e don Ferrante, l’altro figlio legittimo di Ercole d’Este, sarebbe subentrato come duca. Ippolito rimaneva cardinale, ma sarebbe stato emarginato. Però i congiurati non avevano fatto i conti col sospettoso e avvedutissimo Ippolito che nel frattempo era venuto a conoscenza della macchinazione tramite una spia.
(In realtà il retroscena della congiura è molto più complesso e variegato e i vari particolari sono ben riportati dalla Bellonci. Furono fatti molti altri tentativi, per uccidere Alfonso, però tutti abortiti).
Nel mese di aprile del 1506 il duca si era recato a Bari, in compagnia di Isabella di Mantova, sua sorella, lasciando il governo di Ferrara in mano a Lucrezia e a Ippolito. Il Prosperi, uno storico dell’epoca, aveva ben chiaro che tra Giulio e il cardinale non vi sarà mai più nulla di buono e lo andava ripetendo in giro.
Ippolito, dotato d’accortezza e ottimo fiuto, aveva messo vicino ai congiurati un assai tristouomo, certo Gerolamo Tuttobono, che a congiura scoperta, non si ebbe che poca punizione, il che dimostra che era davvero una spia.
Non sembra, però, che la congiura ebbe mai luogo durante una festa in maschera. Fu invece scoperta per tempo, in via preventiva, nelle seguenti circostanze.
Alfonso, avvertito del pericolo a Bari, rinunziò a un viaggio per San Giacomo di Compostella, in Galizia, e, il 2 di luglio, giunse a Lugo di Romagna, trovando qui Ippolito, che sotto mostra di andare a Vigogna, era venuto ad incontrarlo.
Il 3 luglio Alfonso arrivò a Ferrara, facendo notare atutti il suo pallore e il suo smarrimento. Don Giulio, il fratellastro che era rimasto sconciato nel viso e semi accecato da Ippolito per gelosia della bella Angela, intuito qualche cosa, si era in quel momento rifugiato a Mantova, dalla sorellastra, la duchessa Isabella. All’improvviso la molla in mano al cardinale Ippolito scattò, gli schermi e i ripari caddero. I congiurati furono arrestati.
Albertino Boschetti, l’anziano e autorevole conte di San Cesario, col Roberti e con don Ferrante, furono presi. Erano loro i capi di quella congiura.
Don Giulio, riparato a Mantova, fu infine consegnato, tuttavia contro la promessa formale di lasciarli la vita e di metterlo in prigionia.
Gian Cantore, che era riuscito a fuggire più lontano, a Roma, e a farsi ben volere per le sue arti istrioniche dalla favorita di un cardinale, fu preso anche lui, ma più tardi.
Confessata dai complici la congiura, il processo si svolse fulmineo e regolare, concludendosi con inevitabili condanne. Il conte Boschetti e il Roberti furono decapitati e squartati in piazza, alla presenza di don Giulio e di don Ferrante, ai quali era stata letta la stessa sentenza. Solo quando i due estensi stavano a loro volta per salire sul palco del supplizio, sentirono annunciarsi che la magnanimità del duca donava loro la vita, da trascorrere in perpetua prigionia.
Don Ferrante morì dopo quarantatre anni di prigionia, e don Giulio ne usci dopo cinquantatre, liberato da Alfonso II, il duca del Tasso.
Chi fa male, il danno è suo: così aveva detto Niccolò da Correggio, riassumendo il pensiero del popolo ferrarese e della corte.
I beni di don Giulio e di don Ferrante furono distribuiti ai cortigiani, amici di Alfonso: Niccolò da Correggio, Andrea Ponteggino, detto il barone; e a Masino del Forno, con Riccio Taruffo. Il Ponteggino, che aveva sputato in faccia al conte Boschetti, capo dei congiurati, ebbe un’osteria. Le spie di Ippolito erano stati loro.
Come fa presente la Bellonci, Lucreziasembra abitare di questi tempi in una zona di silenzio. E Così terminava un’altra storia d’amore, piena di rivalità, di odi, di brutalità e di contrasti. Da qui le conseguenze per i Boschetti, una volta condannato a morte il loro capostipite, il coraggioso conte Albertino.
6* I Boschetti – figli e nipoti di Alberto Boschetti conte di San Cesario – , fuggiti da Ferrara con l’esecuzione capitale del vecchio conte, sono ancora oggi attestati nella zona di Perugia e Castel d’Arno, a partire dai primi del Cinquecento.
Castel d’Arno, di cui parlano già le cronache medievali d’Assisi e di Perugia – un piccolo feudo rurale, cinto da mura, con case a schiera, situato nei dintorni di Pianello e di Tarchiagina, tra Assisi e Perugia – era un villaggio, posto negli stretti dintorni di un’antica città etrusca, che si chiamava Arnia, data da Ottaviano, dopo la guerra di Perugia nell’anno 41-40° a.C., in colonia ai veterani di Filippi, insieme a tante altre terre nella Valle Spoletana, che così si chiamava all’epoca di San Francesco: bellissima pianura centrale dell’Umbria, posta ai piedi di Assisi.
Le grandi proprietà terriere della Gens Propertia, tra Assisi e Bevagna, furono falcidiate dalla “triste pertica” di Ottaviano e “centuriate” come ricorda Igino Gromatico. Mille e cinquecento anni dopo, altre terre, poste a destra di Assisi, ai piedi del versante collinare verso Perugia, furono il rifugio dei discendenti del conte Boschetti, costretti a fuggire da Ferrara.
Per ininterrotta tradizione orale i Boschetti si sono tramandati nei secoli il ricordo della loro provenienza e dell’esecuzione del loro capostipite di probabili discendenze longobarde. Trovarono un rifugio in Umbria, nelle terre di Giulio II, nei pressi della sicura Perugia, dove ricevettero buona accoglienza. Il conte Alberto Boschetti, che era stato un influente personaggio di corte, sotto Ercole d’Este fu uno dei suoi ministri.
Il Dizionario araldico Hoepli ne riporta il motto distintivo, che si rifà alla forza dell’amore, sotto l’egida virgiliana della decima bucolica: Omnia vincit amor.
Mia madre, Isolina Rosignoli, coniugata Papi, che era una Boschetti per parte materna, nata a Torchiagina, anche da vecchia teneva ancora il conto del parentado, con le varie diramazioni, compresi i più noti Boschetti-Palombaro.
Dopo la fuga da Ferrara, con i loro liquidi – denaro, oro e preziosi salvati dal disastro – i discendenti del conte Boschetti acquistarono il feudo di Castel d’Arno, appartenuto a mia nonna materna, Elisa Boschetti, fino ai primi del ‘900.
Quella dei Boschetti, in questi cinque secoli, è stata una famiglia molto ben radicatasi in Umbria, i cui vari rami sono rimasti legati alla possidenza terriera e poi ad attività professionali e industriali.
Candido Boschetti, il decano novecentesco di Pianello, amava comporre ‘satire’ di genere ‘ariostesco’. La casa padronale del sor Candido sorgeva nella piazza del paese e la sua discendenza è piuttosto numerosa.
Rodolfo Boschetti di Perugia possedeva, ancora nel secolo scorso, arredi cinquecenteschi, di rilevante pregio, che erano stati portati via da Ferrara.
Il ramo collaterale dei Boschetti-Palombaro vantava – e vanta ancora oggi – ragguardevoli proprietà, con un castello medievale, trasformato in villa, che non si può non notare lungo il tragitto viario che da Perugia porta al lago Trasimeno, lungo la parte destra della carrozzata. I Boschetti hanno sempre goduto di ottima reputazione, con allacci di parentele con le migliori famiglie perugine, da cui vennero alcuni professori universitari (facoltà di medicina).
Dal conte Boschetti, e da una congiura di palazzo, finita male, a Ferrara, con una condanna al patibolo nel 1506, derivano altri cinque secoli di piccola storia famigliare nell’ospitale ex territorio pontificio della verde Umbria, sulle rive del fiume Chiascio, e in fertili terre oggi coltivate a tabacco.
Questa è un’altra storia, che potranno raccontarsi, tra di loro, i Boschetti, secondo assai articolate linee di parentela. Da parte nostra ci siamo limitati a un piccolo racconto, sull’unico filo conduttore delle origini ferraresi.
Mia nonna materna, Elisa Boschetti in Rosignoli, che non ho potuto conoscere, perché tragicamente morta in un incidente domestico, poco prima della seconda guerra mondiale, era ricordata, ad Assisi, nel quartiere di San Pietro, dove abitava e viveva con numerosa figliolanza, per la sua generosità, dai più vecchi abitanti del quartiere, posto nella parte più bassa, dove si trova il palazzo Rosignoli, che oggi mi appartiene.
Il mio modesto racconto vorrebbe essere di aiuto ai Boschetti-Palombaro per ricucire i loro rispettivi ricordi novecenteschi, quando negli anni ’20, da bambina, mia madre trascorreva, come mi raccontava, le sue vacanze estive nel castello Palombaro – Boschetti, un ramo allargatosi a Roma.
Ci sono saranno mille piccole storie familiari, disperse qua e là, ma i Boschetti di Perugia e di Assisi hanno sempre conservato un lembo di memoria sulle loro origini, come narrava anche una sorella di mia madre, a me bambino, incapace di trattenere i dettagli. Mia madre mi ha confermato le origini ferraresi dei Boschetti, nobile famiglia del ‘400, sicuramente di origine longobarda, il cui ‘nome’ sembra derivare da una voce gallica o germanica: busk o Busch (col significato di “legna” o “bosco”).
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(Avv. Arcangelo Papi, figlio di Isolina Rosignoli, figlia di Elisa Boschetti in Rosignoli, nata il 7 febbraio del 1914 a Torchiagina, frazione di Assisi, e morta a Siena il 28 febbraio 2008).