IL VINCOLO ESTERNO E LE RAGIONI DELLA DEBOLEZZA DELL’ITALIA
Un saggio politico di Emilio Diodato
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1* Emilio Diodato è un giovane e brillante professore associato dell’Università degli Stranieri di Perugia, corso di Relazioni Internazionali, docente di Scienza politica. Ha pubblicato molti articoli e saggi, tra cui: Introduzione alla comunicazione internazionale (2003); Lessico politico (2007); Che cos’é la Geopolitica (Editore Carocci 2011). Più recente Il vincolo esterno – Le ragioni delladebolezza italiana, saggio di 156 pagine di testo e ricca bibliografia, Mimesis Edizioni, Milano 2014, Collana diretta da Salvatore Vaccaro e Pierre Dalla Vigna. Ed è un dotto e acuto “studio sui fattori esterni che influenzano la politica in Italia”.
Tema di grande attualità, e di interesse immediato, giacché quest’ultimo lavoro di Diodato si pone l’obiettivo di spiegare le ragioni della debolezza del Paese, quindi farsene una ragione.
La ‘scienza politica’, risalente a Machiavelli, si nutre anche di geopolitica, sebbene si discuta se quest’ultima sia vera scienza, oppure una disciplina o un paradigma.
Gli interessi scientifici di Diodato vanno dalla politica vera e propria alla geopolitica, dalle relazioni internazionali allo studio dei fattori interni della politica nazionale in ambito storico. Il “caso Italia” avrebbe un carattere leopardiano, il cui pessimismorappresenterebbe una categoria ancora valida per capire il Paese e le influenze che subisce dall’esterno.
Fra le teorie disponibili – aggiunge Diodato – c’è quella del “vincolo esterno”. Politica nazionale, geopolitica e vincoli internazionali sono i punti di riferimento per lo studio delledisfunzioni economiche del sistema politico italiano, oggi quanto mai evidenti.
Il vincoloeuropeo, che ha rilevato il posto del precedente vincolo atlantico, è quel legame che obbliga oggil’Italia a rispettare i parametri europei della moneta unica (l’Euro). Diodato si rifà nell’Introduzione alle parole di Guido Carli, già Governatore della Banca Italia, e poi Ministro del Tesoro nell’ultimo Governo Andreotti (1992). In un suo libro, Cinquant’anni di politica italiana, pubblicato poco prima della sua morte, avvenuta a Spoleto il 23 aprile 1993, Carli aveva spiegato che la scelta politica del vincolo esterno, derivante dal Trattato di Maastricht del 7 febbraio 1992, era stata fatta “sul ceppo di un pessimismo basato sulla convinzione che gli istinti animali della società italiana, lasciati a loro naturale sviluppo, avrebbero portato altrove questo Paese”. Tale giudizio negativo rifletteva il clima di Mani Pulite, che fra il settembre 1992 e l’aprile del 1993 stava travolgendo, come un fiume in piena, il sistema politico italiano.
Carli era stato uno dei massimi fautori di Maastricht. Nel dicembre del 1990 fu costretto – obtorto collo – ad accettare le dimissioni di Mario Sarcinelli, che non era d’accordo, dalla Direzione generale del Tesoro, per via di un prestito all’Algeria e all’Unione Sovietica imposto dal socialista Gianni De Michelis, allora Ministro degli Esteri.
Il Fondo Monetario Internazionale considerava a rischio questi due paesi. Il prestito economico era una forzatura di carattere politico. Questo esempio pone in luce la divergenza tra dati tecnici e valutazioni di ordine politico. Nel 1991 Carli cercò invano di dimettersi. La Democrazia Cristiana di Andreotti si opponeva apertamente alla sua politica di rigore nei bilanci pubblici. E nonostante il tema, arduo e scottante, della riforma delle pensioni a ragione di nuove esigenze di contenimento della spesa, culminato nel 1995 con la legge Dini, Carli rimase al suo posto.
La politica di bilancio avrebbe però trovato un robusto freno nella prospettiva in itinere dei vincoli esterni che stava maturando al tavolo dei negoziati per l’Unione monetaria europea. Insomma, il vincolo europeo, anche per Guido Carli, sarebbe stato l’unico strumento per poter imbrigliare gli istinti animali della società italiana e del ceto politico che la rappresentava.
Nel libro di memorie di Carli, raccolte da Paolo Peluffo poco prima della sua morte, si spiegava che il “vincolo esterno” aveva già salvato l’Italia almeno tre volte: nel 1947, con l’adesione al sistema monetario internazionale a seguito degli accordi di Bretton Woods; quindi con l’adesione al sistema monetario europeo nel 1979; infine, nel 1992, col trattato di Maastricht.
Diodato apre il suo saggio su questo singolare scenario storico: dal pessimismo leopardiano (il Discorso sopra lo stato presente dei costumi italiani – anno 1824), a quello di Guido Carli.
In modo affine, se “gli usi e i costumi in Italia” (1824) oppure “gli istinti animalidella società italiana” (correndo, invece, l’anno 1993).
E’ da vedere se, in effetti, le due firme d’autore, Giacomo Leopardi e Guido Carli, si riferiscano, invero, al medesimo fenomeno: l’Italia preunitaria, poco dopo il Congresso di Vienna, ma già carbonara; e l’Italia moderna di fine millennio, quella della “Partitocrazia” e di “Tangentopoli”. Di sicuro, il “fattore K” di Alberto Ronchey (in Chi vincerà in Italia? – La democrazia bloccata, i comunisti e il fattore K – Mondadori 1982) non poteva essere indovinato, circa un secolo e mezzo prima, da Giacomo Leopardi. Pare, inoltre, che Carli non vi abbia mai fatto cenno. Eppure le ragioni della debolezza italiana non dipenderebbero da ritardi storici e culturali, da “usi e costumi” storici perniciosi, ma piuttosto da quanto è accaduto, continuando nel tempo, dalla fine del 1943 a oggi. Va però chiarito a dovere che non è questa la tesi di Diodato, altre le cause, ed è bensì la nostra personale opinione, stimolata dalla lettura critica del saggio in questione.
2* Il Discorso di Leopardi del 1824 presentava già la geniale intuizione in nuce dell’importanza della geopolitica. La geopolitica è lo studio delle motivazioni geografiche che influenzano l’azione politica (dizionario Devoto-Oli). E’ una scienza che studia i rapporti tra la geografia degli Stati e la loro politica, ed è lo studio dei rapporti tra i dati naturali della geografia e la politica degli Stati. Come sia, uno dei massimi cultori di geopolitica nel primo Novecento è stato Karl Ernst Haushofer (1869 – 1946), il cui pensiero influenzò assai il nazismo.
Diodato non lo cita, ma si rifà a Carl Schmitt, famoso giurista cattolico nazista, dall’ottobre del 1933 professore di diritto pubblico a Berlino. L’Ottocento è stato essenzialmente il secolo liberale, mentre il Novecento, “Ilsecolo breve” (la definizione è di Eric Hobsbawm), è l’epoca del duplice disastro bellico mondiale, ma anche della modernità più avanzata (caratterizzata dall’atomo e dal progresso di tutte le scienze). L’industrializzazione ottocentesca produsse ex se il marxismo, il “secolo breve” ne costatò il fallimento storico e morale, con Stalin e con il crollo dell’Unione Sovietica. In Italia il “fattore K” esteso (K sta qui per Kommunizm in lingua russa), ha condizionato quasi tutto l’arco del Novecento italiano, prima col fascismo e poi, in età repubblicana, con l’impraticabilità di ogni forma di “compromesso storico” (da Togliatti a Berlinguer, fino alla svolta nominale della “Bolognina”). Fu quindi la sorpresa della discesa in campo di Berlusconi, e, oggigiorno, Napolitano e Renzi, attualmente il nuovo Presidente ‘triste’, ai massimi vertici dello Stato.
Non si addiceva, al clima mediterraneo, il gelo siberiano. Cadde il muro di Berlino, crollò l’Unione delle Repubbliche Sovietiche (il colpo di piccozza che in Messico eliminò Trotsky, lasciò una macchia rossa indelebile sul cranio di Gorbaciov). Le due “Germanie” si riunirono. Domanda: chi ne ha pagato il costo economico? Prima del crollo del regime sovietico c’erano due “Europe”: quella dell’ovest e quella dell’est. Oggi c’è una sola Europa, anche se la Russia di Putin non ne fa parte. Il trattato di Roma del 1957 istituiva la Comunità Europea, sotto l’ombrello americano della Nato (1949). Dovrebbe essere questo il “vincolo atlantico”cui si riferisce Diodato, oggi aggiornato nel “vincolo esterno” dell’Unione Europea, il cui formarsi ed evolversi in una certa maniera, è derivato da un lungo processo. Dapprima in un modo che potremmo definire condizionato, poi in maggiore libertà di scelte.
Il trattato di Maastricht risale al 7 febbraio 1992. Potremmo dunque dire, con una perfetta tempistica. Torniamo pure al saggio di Emidio Diodato, che attiene, in bene o in male, al “vincolo esterno”condizionante. “Vincolo europeo” con la moneta unica, l’Euro, e vincolo forte sui bilanci nazionali e sulla politica economica di ciascun Paese membro (ma con l’Inghilterra monarchica, a governo laburista oppure liberale alla Adam Smith, che ha preferito conservare la sua sterlina). La nuova Europa degli Stati Membri è un bel pasticcio, ha un suo volto economico, ma il suo aspetto politico è ambiguo, variegato e multiforme (dipende da ciò che definiremmo “politico”: un’ecumene organizzata e stabile, con tratti comuni marcati, oppure un insieme estemporaneo, accozzato alla bella e meglio?).
Leopardi teneva in conto le grandi nazioni d’Europa – Francia, Spagna, Inghilterra, Russia, Germania, Paesi Bassi – per un’Italia che ancora non c’era: tutti sanno con Orazio (Odi, III, 24, 35-36) che leggisenza i costumi non bastano. Una nazione, l’Italia, ma ancora non uno Stato: lo divenne soltanto nel 1861. Leopardi si riferiva alla Nazione, ai costumi strani e radicati di un popolo parlante quasi la stessa lingua. La Costituzione Repubblicana del 1947 parlerà, poi, di Nazione, di Stato, di Patria, di Repubblica democratica - virgola - fondata sullavoro, di ordinamento giuridico, di rapporti civili e di rapporti etico-sociali, di rapporti economici, di famiglia casa e risparmio, di scuola, di libertà, di sicurezza sociale e istruzione pubblica, solidarietà sociale ed eguaglianza, di rapporti politici, di assetto bilanciato dei poteri, di organi di giustizia e di controllo, di autonomie locali (sciagurata riforma costituzionale D’Alema nel 1999), di tasse e tributi.
Di tutto la Costituzione ha detto, e ha prescritto, meno che sul principio della “parità del bilancio”. Sono dunque 139 articoli inutili, perché il mostruoso buco di bilancio – il debito pubblico enorme – ha compromesso l’Italia del presente e quella del futuro. L’arte della politica non ha altro spazio, oggi, che per tentare di governare l’enorme “buco nero” ingoia- tutto, sotto i dettami di “Bruxelles” e di “Straburgo”, direttive e regolamenti, e i rigidi vincoli della Banca Centrale Europea (Bce). Sul tavolo verde della politica dell’Unione a Bruxelles la posta e parimenti le fiches è il monte del risparmio degli italiani, ma con un sistema bancario forse disfatto oppure traballante e aleatorio.
Il “vincolo europeo” è consistito, anzitutto, nella conversione della lira in euro: le pensioni già assegnate si ridussero in Italia del 50% nel loro potere di acquisto, questa la più grande tassa occulta storicamente pagata dagli italiani, a ragione del valore di cambio. Circa 1937 lire per un euro: il tasso di cambio già inglobava lo stato precario dell’economia Italia e il peso del debito pubblico.
L’Unione europea è il frutto della seconda guerra mondiale che fu la prosecuzione della prima.
Il trattato istitutivo del 1957 – Trattato di Roma – insieme con altri accordi internazionali, aspirava alla Comunità Europea, oggi formalmente Unione di Stati Europei. Ma in una forma politica ibrida e incerta, di natura economica e monetaria, e con 21 lingue diverse: una Babele, un artificio costruito sulle esigenze economiche di un preteso mercato unico europeo – cioè il crollo delle barriere doganali e delle frontiere nazionali, con libera circolazione di uomini e di merci – e una formula giuridico istituzionale innovativa che lascia in sospeso la sovranità nazionale dei singoli Stati membri.
Dal Sacro Romano Impero sotto Carlo Magno – all’Unione (mercantile) europea dopo il crollo del blocco sovietico e la fine della guerra fredda. Dalla crisi di Berlino Ovest nel 1948 – al Patto Nato. Dal Trattato di Roma – 1957 – al Patto di Maastricht nel 1992. Tempi moderni che si rincorrono: si può forse ignorare o passare sotto silenzio il “fattore K”, esteso all’Europa intera? Quanto valeva per l’Europa geografica divisa in due blocchi, ha continuato a valere fino a oggi per l’Italia, nonostante l’abiura al marxismo. Da noi l’ex P.c.i. non si è mai dissolto, come in Francia e in Spagna, ha soltanto cercato di mutare etichetta. Integre ne sono rimaste la mentalità, l’antropologia, il sistema. Ed è la sostanza che conta, mentre l’ideologia tradizionalmente consolidata, aliena da effettive rotture col passato e da veri ‘mea culpa’, può trovare altri ripari, puramente nominali, proseguendone indenni ilcostume e gli usi, realtà antropologicamente radicate nel ceto di classe. I fatti lo indicano, chi benedisse i carri armati sovietici, legittimi apportatori di libertà in Ungheria, nel 1956, è “Presidente della Repubblica”. E’ lecito dunque presupporre una ‘repubblica popolare’, oggi che si respira un’aria avvilita e un clima paradossale. Certe regole si conservano nei loro effetti materiali che appunto le dichiarano. Povertà di massa, in Italia, e crisi di sistema. Tutta colpa di Berlusconi, che avrebbe confuso l’azienda con lo Stato, oppure il danno veniva da lontano, remote le sue cause?
3* L’Unione Europea si basa sul mercato, e su direttive e regolamenti per materia. Ed è, in pratica, un sistema neo feudale, dove il ruolo dell’Imperatore è dato – al centro del sistema – dall’Unione, mentre i vari Regni conservano una loro sovranità, essenzialmente limitata al prelievo fiscale e all’ordine pubblico interno, ripartendosi – com’è avvenuto dal 1970 in Italia – in espressioni territoriali minori, come le Regioni, oppure i Land, i Dipartimenti o le Contee. In Italia, il sistema a piramide rovesciata delle c.d. autonomie locali, incontrollati centri di spesa, non dotati di risorse fiscali proprie, entrate necessarie per l’asserita “autonomia”, ma con disparità di trattamento tributario, che oggi varia da chilometro a chilometro di superficie nazionale, è stata aldilà di ogni dubbio una delle cause preponderanti di spesa pubblica incontrollata e improduttiva, di abusi sistematici e di enormi sperperi, rappresentando tale assetto, garantito dalla Costituzione, ma attuato con molto ritardo, la localizzazione e il radicamento del sistema politico spartitorio, e, per quanto concerneva un granitico partito d’antan, non ancora rimasto orfano di padre e di madre, anche la base necessaria per il consolidamento, ovviamente condizionate nel suo esercizio, del potere in ambito politico ed economico, oltre che sociale e sindacale. Il sistema feudale europeo, in queste amare parole, ed è probabilmente la verità, ha in Italia la corrispondenza perfetta in scala discendente: da Bruxelles si arriva alle Regioni (con ‘ambasciate’ in Europa: questa la prassi concreta), e dalle Regioni si passa agli ordini minori. Lo “Stato” è all’ultimo posto, in fondo: nell’art. 114 della Carta Costituzionale riformata nel 1999 prima vengono i Comuni (e le Comunità montane per sottinteso), poi le Province, le Città metropolitane, e le Regioni (ora le Province dovrebbero essere eliminate). Questa è la “Repubblica Italiana” fondata sulle autonomie locali. In modo affine, l’Italia – dal 1999 – si presentava su misura: da ‘Bruxelles’ a ‘Matera’. Che sarebbe mai accaduto con l’Eurocomunismo di Berlinguer? Se stiamo ai giri di parole e alle utopie, i fatti scompaiono. Se analizziamo i fatti, sono le parole a rivelare, adesso, altre intenzioni: quelle del partito unico, quelle dell’illusione tramontata.
L’euro è la moneta condivisa, governata dal mercato comune, e dal mercato internazionale: il mercato interno di ciascuno Stato membro ne è condizionato, e mentre l’Europa unita consiste nell’euro, è ovvio che i vari Stati vi si siano vincolati (con la resistenza accanita di alcuni paesi nord europei). Il controllo dell’Euro e della stabilità monetaria è affidato alla Bce. Assegnata la moneta unica, è stata così definita, precisata e commisurata la ‘ricchezza’ comparabile di ciascuno Stato membro, e con ciò anche il suo rango economico. Non varia, tra Sato e Stato, il valore e il potere di acquisto dell’Euro, varia invece la ricchezza e la disponibilità monetaria: gli Stati membri meno floridi hanno minori disponibilità e salari più bassi. Gli Stati membri con un forte debito pubblico calcolato oggi in Euro sono i più esposti: tra l’altro, non possedendo più una loro moneta nazionale, non sono più in grado di svolgere manovre economiche ricorrendo alla svalutazione o alla rivalutazione. Il “vincolo esterno” costringe gli Stati membri europei alla virtù unitaria, all’emulazione positiva. Mentre l’enorme debito pubblico dell’Italia (ma anche di altri Stati), li confina alla periferia, e li impaccia nelle loro politiche interne. Lo standard economico italiano era di tipo europeo, paragonabili i salari e i livelli della produzione. Ciò significava, dovendo ormai parlare al passato, che l’economia in sé dell’Italia – trasformatrice per sua natura – reggeva bene la competizione dei mercati, rispetto ai costi di produzione, sia per qualità che per il margine di valore aggiunto, mentre gli apparati pubblici nazionali e locali, centri di spesa incontrollata, derogavano rispetto ai compiti istituzionali, gravando pesantemente sul sistema produttivo, sperperando risorse e creando progressivamente nel tempo un debito pubblico immane, a fronte del quale non c’è mai stata un’adeguata risposta economica di tipo keynesiano nei moltiplicatori di reddito. Finché non è avvenuto ciò che era inevitabile: il risveglio nel mercato dei titoli del debito pubblico e lo spread. Il “vincolo esterno” non è un correttivo ortopedico, per l’Italia, ma una sanzione. L’Europa dei mercati ha decretato ufficialmente lo stato di debolezza e di non ‘credibilità’ del sistema italiano, e il rigore imposto da Bruxelles nei conti pubblici italiani (da qui il Governo tecnico di Mario Monti), era una sanzione (rispetto alla quale i governi politici trovano utile temporeggiare e non esporsi direttamente: da qui la misura o impronta d’unità formale del Governo Letta, che non ha tenuto, anche politicamente, e attualmente, col nuovo Governo Renzi, il duplice problema, aggravato della crisi istituzionale, che è anche costituzionale, dei conti pubblici e dell’economia interna. La crisi è totale, la sua lunga scia temporale comprende il “sistema Italia” nella sua interezza. Riguarda tutta la Nazione, non è risolvibile, se non con drastiche riforme globali e il massimo impegno a tutti i livelli, riconoscendo i segni concreti della realtà quale è, spogliandosi una volta per sempre del condizionamento ideologico e di inveterate abitudini di potere, di pessima prassi burocratica, atteggiamenti anchilosati, costumi corrotti, calcoli elettorali sconcertanti: il sistema politico italiano è tarlato e fradicio, il sistema economico è stato gravemente indebolito e compromesso da una sequenza storica errori politici madornali, la cui causa prima si radicava nella demagogia e nelle illusioni, nella loro alternanza di contrasti e nel mantenimento dello status quo. Le opposizioni di recente formazione, non ancora inserite al potere e dedite alla protesta sistematica, sono nate e cresciute come reazione di sentimenti comuni e diffusi rispetto al fallimento organico di certi sistemi partitocratici, che pretendevano di sopravvivere a se stessi. “Tangentopoli” è stata la fase iniziale di questo malessere, innescata con malizia e per necessità, che a più di venti anni di distanza, aldilà dei misfatti personali, si è finalmente rivelato per ciò che era sempre stato: la crisi generale della politica italiana, dovuta al “fattore K”, la sua instabile stabilità forzata tra utopie universalistiche e reazioni di equilibrio interno e internazionale. Lacerazioni, contrasti, errori reciproci. Forzature, doppi giochi, consociativismo, bipolarismo. Ha vinto col nuovo Millennio il Mercato europeo, la cattiva politica interna italiana ha pagato il suo conto in sospeso, troppo a lungo rinviato, con l’oste esigente della Storia.
Macerie e dissoluzione. Il “governo del territorio” (indigeribile formula verbale per i puristi della democrazia), si è ridotto ai continui disastri ricorrenti: bastava ripulire gli argini di fiumi, secondo le sane leggi d’inizio del secolo scorso.
Ma fiumi di parole, sempre quel il politichese nostalgico, sperperi d’ogni genere. Corruzione, criminalità organizzata, improvvisazione, follia, incompetenza e inefficienza, deresponsabilizzazione e collegialità. Anche il bel Paese, l’Italia antica robusta e paziente, s’è schiantato come la “Quercia” del Pascoli: pur eragrande. Il male interno, che però veniva da lontano, agì in modi differenti: ci furono un ‘prima’ e un ‘dopo’. Da che cosa fummo ‘liberati’, se gli stessi ‘liberatori’ non erano uomini ‘liberi’, immuni da affini errori? Che la storia d’Italia nel “Novecento”, quello vero, non il film di Bertolucci, si riduce a un contrasto che non ha eliminato il progresso, bensì l’ha favorito, salvo lo strazio bellico, ma quando si passò alla sua disciplina costituzionale, in forma di democrazia di numero, anziché di scelta migliore per tutti, fu allora l’inizio della fine. Il ciclo si è ormai compiuto, il declino dell’Italia è un dato di fatto. Le Repubbliche popolari dell’Est si sono affacciate all’Europa, assetate di libertà, meno cariche di vizi e di triste obsolescenza: le attende un tempo nuovo. A scoppio ritardato qui ha agito lentamente il medesimo virus non debellato. Non c’è molto altro da capire. Un excursus più ampio di storia patria è francamente inutile giacché dal 1945 in poi l’Italia è rinata, si è poi addormentata, ed è morta nel sonno della ragione. Magari, è stata pure avvelenata. E’ superfluo e inutile cercare spiegazioni là dove difettano, trascurando i dati reali dl declino. La ragione del debito pubblico italiano è la spiegazione vera degli usi e dei costumi avariati, delle colpe e dei responsabili. La Costituzione del 1947 non prevedeva il principio della parità di bilancio, lo Stato non è un’impresa commerciale, ci si può indebitare, ma chi paga? Pagano sempre i più poveri. Mentre “la ricchezza delle nazioni” è o sarebbe Stato più Mercato, ed è ordine nei conti pubblici, equità fiscale, promozione economica, ed è rispetto vero e assoluto dei singoli cittadini e solidarietà sociale anche nei termini oggettivi del diritto dovere al lavoro e alla partecipazione. Non è utopia parolaia, oppure violenza, ma è prassi virtuosa. Finalmente gli Italiani l’hanno capito, ma potrebbe ormai essere troppo tardi. Non sono in discussione le persone, i cui sforzi d’azione e d’impegno politico dopotutto appaiono sinceri, ma i criteri di riferimento e i modelli d’ispirazione. L’arte del buon governo si fonda sulla conoscenza effettiva della natura intrinseca dei problemi nazionali e sulla capacità di risolverli con efficienza persuasiva e capacità d’esempio. Occorrono capacità autentiche e somma onestà, ma si potrebbe seriamente dubitare, a buona ragione, che la ‘democrazia’ italiana sia strutturalmente capace di operare selezioni di merito circa la propria classe politica di mestiere, retribuita con denaro pubblico, e facilmente portata ad abusi di potere. L’infezione dei ‘partiti’ ha a propria volta una causa, e non è cosa di ieri. Il rivoluzionario o il conservatore professionista è divenuto un burocrate nella sua struttura d’appartenenza, quindi un politico preselezionato, imposto ed eletto su basi demagogiche. La società civile è rimasta pressoché estranea, la politica è divenuta un mestiere, anche se non sempre a lungo metraggio, come in passato, in specie in questi ultimi periodi d’instabilità e di cambiamenti illusori d’apparato.
Le ragioni della debolezza italiana in politica estera (filo-mediterranea per via del petrolio e di taluni sbocchi di mercato) e in politica interna sono prese in esame da Diodato negli ultimi due capitoli del saggio.
L’analisi tocca molti aspetti e si conclude nel dato ormai certo che la stagione del vincolo atlantico è tramontata (un riferimento all’epoca della Democrazia Cristiana e della doppia Europa), nonostante permanga ancora il Patto atlantico ( concepito nel 1949 in funzione anticomunista rispetto all’ex blocco sovietico).
“In Europa ha preso forma una diversa linea di tendenza imperiale: un’unione politico-monetaria fra nazioni imparentate”. Altro panorama e poi una politica nuova. Se Pasolini aveva potuto scrivere – Alla mia nazione – questi versi: Sprofonda in questo bel mare, libera il mondo…, l’Italia odierna ha a che fare – oggi – su due versanti politici e geografici differenti: quello europeo e quello mediterraneo. Presa d’assalto dai barconi degli emigranti a causa della perenne crisi politico-economica mediorientale, deve guardare all’andamento delle Borse, ai mercati internazionali, alla globalizzazione, alla propria obsolescenza interna con disoccupazione crescente e malessere endemico dell’economia. Le ragioni di queste gravi difficoltà derivano da una lunga somma di errori e di traviamenti. La crisi nazionale è anche politica, consistente nel fallimento istituzionale. L’opinione pubblica ne è consapevole, con un giudizio sintetico intuitivo, più che attraverso un’analisi capillare e documentata, rispetto agli innumerevoli buchi di memoria che hanno caratterizzato il Paese dal 1970 in poi. Gli anni del piombo e gli anni del fango, tanto per indicare alcuni decenni, non sono stati una bizzarria meteorologica del clima politico, bensì il portato di una serie di aberrazioni progressive inevitabilmente maturate in un dato arco storico. Le premesse di questa lacerazione distruttiva erano presenti già dal 1945, subito dopo la liberazione dell’Italia dal fascismo.
4* Le nostre critiche sull’Unione Europa sono grossolane. Appartengono al senso comune, non a un’analisi capillare. Il governo europeo legifera mediante direttive e regolamenti, su oggetti di competenza esclusiva oppure concorrente, mediati dal Trattato, con forme bizantine la cui capillarità è talvolta ridicola. Ogni Stato membro cerca di arrangiarsi come può (le truffe comunitarie sono all’ordine del giorno). Mentre l’euro ha la sua Banca Centrale con sede in Germania a Francoforte – potere reale sommo perché rivolto al controllo dell’euro e alla stabilità dei prezzi – la politica economica dell’Unione Europea segue i rapporti di forza del momento: ed è l’economia monetaria dell’Unione, più che la primazia dell’arte della politica, nell’indistinto democratico dove convivono e coesistono anche degli antichi e pericolosi germi politici o virus del passato. La Costituzione europea è incolore e insapore: atea come il suo mercato. Deus exmachina l’Euro, con i simboli nazionali: ognuno degli Stati membri lo ha ‘rivestito’ con i suoi propri ‘miti’.
Quanto potrà durare l’unione monetaria europea? E quali sarebbero gli aspetti salienti, e le conseguenze negative, della rottura dell’Unione o di una misura a due velocità dell’euro, con paesi virtuosi da un lato e i paesi poveri dall’altro, perché fortemente indebitati? L’Europa politica è convenzionale, ed è persino innaturale: l’Europa del mercato unico è una realtà razionale, tuttavia minata dalla presenza di Stati deboli perché fortemente indebitati e con economie interne in crisi, di cui l’Italia è l’espressione più rilevante.
Tanto più rilevante e accentuato il pericolo generato dal caso italiano nel momento presente, quando la crisi mondiale del 2008 si era già manifestata con riflessi europei durante la prima presidenza della Repubblica di Giorgio Napolitano ed è stata oggi ereditata in termini europei legati allo spread con i bond tedeschi dall’attuale Governo Renzi (con Presidenti di Camera e Senato provenienti dal Pd, erede post comunista del Pci): vale a dire al culmine delle aspirazioni di potere nazionale, finalmente raggiunto d’un partito politico un tempo governato da Mosca, nonostante le esperienze alterne e per certi versi assai discutibili dell’alternanza bipolare, che sarebbe un errore definire come “seconda Repubblica” con la discesa in campo di Berlusconi (in tal senso Diodato, da cui dissentiamo).
La cartina ‘politica’ di tornasole ha fornito la sua risposta cromatica: che lo si voglia accettare o meno dipende dalla capacità di illusione, e di elusione, ‘sui’ e ‘dai’ dati storici. La storia come proclama ad alta voce e la vicenda reale non coincidono. Le ragioni vere del contrasto interno nella politica italiana dal dopoguerra ad oggi dipendono ancora dalla lotta di classe almeno nel senso di una sostituzione di ceti e di soggetti di potere. L’allontanamento ovvero la latitanza delle c.d. “teste d’uovo” dall’agone politico nazionale, salvo i governi tecnici di breve durata che tuttavia non hanno mai saputo esprimere una vera qualità all’altezza del compito, dà la misura esatta dei mali della “democrazia” in Italia: il numero non è diretta manifestazione di scelte ottimali, i partiti – oggi pressoché scomparsi – hanno preferito la demagogia alla serietà, nei partiti politici o loro rimasugli dopo una certa epoca che possiamo dire esaurita dal 1970 in poi, non hanno trovato collocazione gli esponenti migliori della cultura e della società civile avanzata (Oriana Fallaci mise il dito nella piaga infetta nei suoi ultimi libri all’inizio del nuovo millennio).
La società civile, che sorse dalla polis greca, è comunque un frutto mercantile del greco mare Mediterraneo. Sua immagine, secondo Diodato è il cerchio. La civitas romana si fondava, invece, sulle virtù stesse dei cives, ma poi calarono i barbari in Occidente, e in seguito furono i liberi comuni (e i banchieri fiorentini durante e dopo le Repubbliche marinare). Il fiorino del giglio, e l’aquila imperiale, che era una “Emme” prodigiosa per Dante Alighieri.
Ma lasciamo il lettore direttamente alle prese col saggio di Emidio Diodato che contiene un excursus storico su stato e democrazia in Italia. Siamo quasi a un passo dall’età liberale dopo le lunghe doglie della Storia e il pericolo del dominio islamico prima di Lepanto. Con la pace di Westfalia (24 ottobre 1648), si concludeva la guerra europea dei trent’anni, tra cattolici e protestanti.
Il Leviatano di Hobbes, teorico del potere assoluto, risale al 1651. In Inghilterra era in atto una rivoluzione che opponeva il parlamento al re. Hobbes, filosofo inglese, ritornò in Inghilterra dall’esilio volontario a Parigi, sotto Cromwell.
Semplici evocazioni nei meandri della storia d’Europa. In Italia, da Dante a Machiavelli (Diodato fa volentieri a meno di Dante). Dal sogno dell’impero universale, al Principe. Alla conservazione e durata di uno Stato presiede la virtù collettiva, per la sua fondazione occorre la virtù di un singolo. “Virtù,” per Machiavelli, non ha nulla dell’omonima nozione cristiana. Sempre la Chiesa Cattolica, fondata da Pietro e radicata a Roma, la Chiesa che fu l’erede ideale dell’impero romano (un impero ‘criminale’?): ovvero la pax Augusti (ma gran falsario il Papato, con la pretesa donazione di Costantino, imperatore a metà tra Oriente e Occidente, mezzo cristiano e mezzo assassino).
La storia moderna è questa. In specie, se rivisitata dal lato nostrano, il “Paese dei Vitelli”, col famoso ‘digamma omerico’. Dall’Italia antica dei municipia romani, alle terribili calate dei barbari. E l’Italia dei Comuni. Poi le Signorie e le Dominazioni straniere. Finalmente l’Italia unitaria sabauda, con i “Fratelli-coltelli” d’Italia. Dal “Va pensiero” all’Inno di Mameli, passando per l’Internazionale: “Viva ilcomunismo e la libertà”, entità tra loro non conciliabili, contrabbandate per il paradiso in terra dei lavoratori. La storia si vendica, gli errori si sommano. Passano i decenni e si consumano invano le occasioni di crescita e di progresso. Del resto il dramma storico della democrazia in Italia è quello dei servi storici della gleba e dei nuovi consoli.
5* Leopardi era conscio che il principio sommo delle Nazioni è la stessa società civile. Le dette nazioni – oltre il convitto degli uomini per provvedere scambievolmente ai propri bisogni – hanno quel genere più particolare di società che consiste nel commercio più intimo degli individui – insomma la cultura, il sapere, la società civile depositaria delle migliori esperienze e delle più nobili aspirazioni (per il marxismo-leninismo stalinista la civiltà borghese da abbattere e da sostituire con la dittatura del proletariato). Negli italiani Leopardi notava sopratutto la mancanza di società. Eppure il movimento ideale “carbonaro” che portò infine all’Unità d’Italia sotto la provinciale e subalpina monarchia sabauda, seppe nutrirsi di elevati valori: i teatri lirici raccoglievano, nel bel canto, ogni aspirazione civica.
Gli italiani hanno piuttosto usanze e abitudini che costumi.Poche usanze che possano dirsi nazionali, bensì provinciali o municipali, insomma locali, seguite soltanto per assuefazione. Lo spirito pubblico in Italia è tale, che, salvo il prescritto delle leggi e ordinanze de’ principi, lascia a ciascuno quasi intera libertà di condursi in tutto il resto come gli aggrada…
Secondo Leopardigli usi e i costumi in Italia si riducono generalmente a questo, che ciascuno segua l’uso e il costume proprio, qual che egli si sia.
Il che equivarrebbe secondo Diodato al pessimismo politico di un Guido Carli già Governatore della Banca d’Italia sugli appetiti animali della società italiana lasciati al loro naturalesviluppo.
La tesi di Diodato andrebbe dimostrata, prima di stabilire un paragone diretto tra il 1824 e il 1993. Molta acqua corse sotto i ponti.Non è detto che il “popolo” – altro concetto costituzionale – coincida con la società civile se quest’ultima non è cresciuta bene nel proprio seno nazionale: la trilogia di Oriana Fallaci, dopo l’attentato alle due torri del 2001, esprimeva il rimpianto per le virtù professe della società borghese italiana improntata al miglior spirito liberale. Alla classe politica italiana del dopoguerra è forse mancato quello stesso spirito unitario e preunitario, ha fatto difetto una vera cultura (costumi e usanze rette), oppure è stata travolta dal populismo sicché, la democrazia, divenne demagogia in senso aristotelico?
Diodato avrebbe dovuto porsi di fronte al problema storico, sociologico e politico del “fattore K” esteso, la teologia atea della “falce e del martello”, lo stalinismo di un Togliatti, nel 1943 sbarcato in Napoli da un ‘sommergibile’ sovietico. Senza il fattore K la storia d’Italia sarebbe stata differente: in meglio, e non in peggio. Avemmo avuto la socialdemocrazia e l’alternanza: non lo scontro politico-sociale, i “blocchi contrapposti” e la conventioad escludendum.
Sarebbe stata un’Italia differente, avremmo avuto una Costituzione meno ibrida e di compromesso, e, comunque, una pratica costituzionale ed istituzionale molto più corretta. Il delirio ideologico, fomentato da teorici storicamente falliti, non avrebbe imbarbarito il costume politico e le usanze parlamentari.
E ci saremmo risparmiati gli “anni del piombo”, e poi gli “anni del fango” (ed è ampiamente noto e assodato, nei fatti, che Tangentopoli è continuata a peggiorare fino a oggi a ragione degli abusi ‘democratici’ spalmati su tutto il “territorio”, definizione di sapore feudale con prassi dispotica affidata alla “nomenklatura” di rango minore, come appunto nel caso dell’Umbria, dal 1945 a oggi, terra antica, in cui le attese della ‘liberazione’ sono un dato conclamato sia nel capoluogo regionale, che negli altri centri urbani dove la sinistra ha creato enormi buchi e dissesti madornali).
Gudo Carli si esprimeva da economista. La sua esperienza politica finale fu episodio alquanto limitato. La Banca d’Italia era il luogo privilegiato da cui poter osservare le vicende nazionali da Luigi Einaudi in poi: la parità col dollaro nel 1948, il centro sinistra nel 1963 con Nenni, la stagione delle grandi riforme economico-sociali del Paese nonostante il rigurgito provvisorio del governo Tambroni, e malgrado la Gladio e il Generale De Lorenzo. Ogni società storica ha i suoi appetiti. La partitocrazia, non regolamentata, era conseguenza diretta del “fattore K”, il sindacalismo era andato ben oltre la sua funzione fisiologica e necessaria, postulando variabili indipendenti: i partiti politici creavano eccezioni in serie, violando o aggirando leggi e principi formali, e fomentando – ovunque – il particulare.
Conseguenze l’inflazione a due cifre, che si scaricava sulla scala mobile, appiattendo le retribuzioni e annullando la meritocrazia, il malessere di fabbrica, l’eurocomunismo verbale e il così detto “compromesso storico”, il ‘pansindacalismo’, lo Statuto dei lavoratori, il conflitto permanente, la spartizione. Il “delitto Moro” sanciva – nel 1978 – l’impossibilità del “compromesso storico” sotto l’ombrello della Nato, e le testate nucleari sovietiche nell’Europa dell’est. Anziché dichiarare con chiarezza il fallimento storico ed economico dell’ideologia marxista si preferiva giocare con le parole – La terza via e l’eurocomunismo – lasciando in sospeso il corretto giudizio sui fatti con espressioni e definizioni ingannevoli.
Il 1992 apriva un capitolo nuovo, per l’Italia ‘post comunista’ e per l’Europa. Era crollato l’impero sovietico, era caduto il muro di Berlino, ma si aprivano altre crepe, per l’Italia, che ne erano la conseguenza. L’Unione Europea si ritrovava – intatta e soddisfatta – nel libero bacino di mercato degli Stati membri, inseguendo il sogno di una vera e propria unione politica di Stati, anziché un compromesso giuridico formale tra “Stati” e “Mercato”; non l’unione politica, nonostante il venir meno dell’Unione Sovietica, e la riunificazione della Germania. L’Europa è troppo diversa da nord a sud. E nemmeno una vera unione economica di Stati, giacché non sono sufficienti l’euro e il mercato comune, per singoli apparati economici nazionali non ancora integrati e in competizione tra loro anche a ragione delle stesse condizioni politiche interne (il caso Italia è paradigmatico su questo versante). L’Unione Europea avrebbe senso soltanto in condizioni di omogeneità politica, col paradosso che il c.d. “eurocomunismo” ne sarebbe stata una formula possibile, se in definitiva ciò avesse significato socialdemocrazia, però con la garanzia della piena efficienza del sistema economico liberale e di mercato (c.d. capitalismo etico).
Nel 2008 ci fu una crisi globale dell’economia, la cui cause furono studiate da Paul Krugman, premio Nobel per l’economia (autore de Il ritorno dell’economia della depressione, Garzanti 2009). Il “grande crac” del 2008 riproponeva gli “spettri” della crisi di Wall Street nel 1929. Il capitalismo monetario, lo svincolo finanziario dalle regole di controllo, è una sciagura. Mentre i mali italiani consistono – sopratutto – nell’incapacità tecnica e nella corruzione generalizzata della classe politica, nella disorganizzazione del Paese, nella fragilità economica, nel declino culturale indotto, a parte la dipendenza energetica e la carenza di materie prime in una Nazione trasformatrice per vocazione. “Paese” in senso organizzativo, e “Nazione” come insieme culturale. “Popolo” in senso democratico, se la democrazia in misura “costituzionale” fosse effettivamente lo strumento più adatto a far emergere forze nuove ed effettive capacità nell’interesse comune. Ma in Italia è in crisi anche l’assetto costituzionale, che reca in sé i segni opposti di una vecchia lacerazione politica e del compromesso tra opposti.
6* La politica non è una scienza, sebbene un carattere scientifico abbia comunque il suo linguaggio, almeno in senso storico, filosofico e giuridico. Piuttosto, si tratta di un’arte, quella del Buon governo. Come in fisica quantistica, anche in politica predominano fattori statistici non di natura meccanica o causale, di cui però è necessario tener conto come sussidio per l’arte digoverno (Ettore Majorana, Il valore delle leggi statistiche nella fisica e nelle scienzesociali, scritto ‘postumo’).
Il tramonto storico di un’illusione di tipo materialista – volgare materialismo dialettico – ha dimostrato, nell’ultimo arco del Novecento, che era infondata la ratio scientifica di quella politica di sinistra che pretendeva di abolire il mercato, anziché cercare di disciplinarne gli eccessi egoistici. L’Europa di oggi ha preferito puntare sul mercato, piuttosto che sulla politica in senso stretto. E si è trattato, in buona sostanza, del fallimento dell’ideologia pura, per il trionfo delle regole di gestione.
L’euro ha creato il mercato unico europeo e ha segnato, nel mercato, il superamento degli Stati nazionali e della politica di frontiera che li caratterizzava in precedenza. L’ibridazione europea ha trasformato la politica in attività di gestione, ha allargato l’orizzonte del Buon governo senza preconcetti di natura ideologica. Il Buon Governo è una raccolta di articoli e di scritti divulgativi di Luigi Einaudi (Laterza 1973, due volumetti), un grande economista piemontese di stampo liberale, che fu Governatore della Banca d’Italia dal 1945 al 1948, e poi Presidente della Repubblica, succeduto a Enrico De Nicola, dal 1948 al 1955.
Il mercato globale è la massima espressione omogenea delle singole virtù nazionali. L’economia di mercato, e il parallelo governo della moneta unica, costituiscono oggi la massima espressione, la stessa ragion d’essere dell’Unione Europea, senza alcuna certezza scientifica nella prassi di gestione; del resto, l’economia e il mercato non seguono regole scientifiche, certe a priori, ma dipendono da fattori vari e fluttuanti: le singole realtà nazionali, le scelte in sede comunitaria, il vincolo della moneta unica, le materie prime, i fattori tecnologici della produzione e dell’innovazione, ecc.
Una competizione economica tra gli Stati membri nell’ambito di regole date, un assetto d’insieme, tendenzialmente rivolto all’omogeneità, ma in pratica caratterizzato dalla presenza di squilibri economici o da ritardi storico-sociali di carattere regionale che, se non risolti a tempo opportuno, e in modo conveniente, finiscono per compromettere la prosecuzione del sistema. La politica non è una vera scienza, ma al massimo uno studio, una teoria circa i fini e i mezzi. Scienza non è l’economia, a ragione di fattori imponderabili. Il crollo di un’illusione, quella del marxismo, ha tarpato le ali a infondate pretese di onniscienza su inconsistenti fondamenta ideologiche, ma al contrario ha finito per ridurre la politica a mercato: l’Europa unita e il Mercato europeo. Il prezzo di uno sforzo comune d’integrazione politica, non ancora realizzatasi, è oggi l’alea congenita del mercato economico. Di questo occorrerebbe tenere conto rispetto al succo fondamentale del saggio di Emidio Diodato sul “vincolo esterno”, se non siamo stati eccessivi andando oltre il segno.
Con La ricchezza delle nazioni di Adam Smith, s’inaugurava in Inghilterra il 9 marzo 1776 la grande stagione dell’Europa nuova, liberale e mercantile, durante l’illuminismo e il secolo degli Stati assoluti. In America – e poi in Francia – fu “rivoluzione”. Vennero Napoleone e il Congresso di Vienna nel 1815. Fu la “restaurazione”, preteso equilibrio transitorio rispetto agli squilibri europei. Il pensiero liberale fondato sull’analisi economica di Smith conteneva i germi fecondi della rivoluzione industriale e della modernità. Il ruolo dello Stato consiste nel freno agli abusi capitalistici, l’arte del “buon governo” sta nel coniugare la libertà economica con la solidarietà sociale. Sulle ideologie totalizzanti vinse il mercato; ma il mercato non è mai fine a se stesso: ed è per questa precisa ragione che alcune risoluzioni dell’Onu hanno parlato di “capitalismo etico” in sintonia col diritto dei popoli alla vita e al progresso. [Dovremmo dunque dire: Populorum progressio, secondo l’insegnamento della Chiesa Cattolica, a fronte delle esigenze di libertà e dignità per tutti gli esseri umani del pianeta Terra, l’aiuola che ci fa tanto feroci].
Il saggio di Diodato si articola lungo un percorso che tende al discorso scientifico, prendendo a oggetto il caso Italia. Dipende dai presupposti, sui quali si potrebbe discordare. Quali sono le vere ragioni – o cause – dell’innegabile “debolezza italiana”? Il “vincolo europeo” è un rimedio oppure un aggravio? Si deve parlare di una funzione ortopedica – quanto all’Italia – o invece di una ‘palla al piede’ per l’economia italiana in crisi? Il dibattito pro o contro l’Europa è aperto a soluzioni estreme quali la fuoruscita dall’euro caldeggiata da alcuni partiti politici minori ma rappresentativi del malessere.
7* Nell’introduzione del saggio si certifica un deposito di ritardi storici. “La premessa teorica emetodologica” (Capitolo I) consiste nel distinguere tra scienza politica, potere nazionale, e politica estera. Non è possibile considerare la politica come affare separato dall’economia (questo il limite del pensiero politico di Machiavelli sottolineato da Diodato: Il principe vide la luce nel 1513, quando ormai erano note e praticate le rotte per l’America).
Definire la politica non è cosa semplice. Diodato distingue il caso del “cerchio” da quello del “vettore”. Il “cerchio” racchiude un’area delimitata, lo spazio storico della “civitas” con i suoi “cives”. [Ma ci sarebbe anche La Civitas Dei di sant’Agostino, perché no?, che nel pensiero religioso medievale divenne la “nuova Gerusalemme”, distinta dal mercato d’Egitto e di Babilonia: nella “pace di Dio con gli uomini”, è il De bono pacis di Magister Rufinus, 1173, la vicenda morale della storia umana abiura al mercato d’Egitto, sopraffattore, schiavista, negatore della libertà, ma può accettare con una certa disinvoltura lo scambio, il mercato di Babilonia, dove non è compromessa l’etica, bensì sono realizzati gli interessi pratici umani nel gioco commerciale]. Là dove – invece – la politica è “vettoriale”, cioè dinamica, protesa verso una metà, non è dato scorgere tutto l’insieme, come sarebbe nello spazio chiuso di un Comune medievale delle “arti e dei mestieri”, ma si avverte una data ‘spinta’ e la sua stessa ‘direzione’: le tensioni, che accompagnano questa ‘forza’, si aprono ai tempi nuovi, si sviluppano dal presente verso il futuro esattamente come un vettore meccanico. Forza vettoriale significa anche un risultato unitario, come somma o prodotto di vettori (questa l’immagine dell’Unione Europea?).
La modernità politica si realizzò in Europa quando si liberarono le forze sociali e produttive. L’excursus di Diodato si diparte, per l’Italia, dal pensiero politico di Machiavelli (“ragionare di politica in assenza di uno Stato”), per allargarsi al tema generale dello Stato moderno: da Bodin a Hobbes, da Benjamin Constant a Carlo Marx (1848). Passando da Locke a Smith. Su fino all’epoca fascista – Carl Shmitt fu uno dei massimi teorici del nazismo col principio contrapposto di amicus-nemicus, per cui la “politicità” è immune da categorie morali o estetiche, ed è persino estranea all’economia, essendo un concetto originario di fronte allo ‘stato’ e alla ‘giuridicità’.
Il campionario di concetti teorici mobilitati da Diodato è vasto e articolato. Non è compito nostro una chiosa. Basta leggere il libro. Occorre – tuttavia – fare un accenno sommario, a proposito dell’interconnessione tra l’Introduzione e il Primo capitolo, con i capitoli successivi: cioè Stato e Democrazia in Italia (Capitolo II, excursus storico); Considerazioni sulla politica estera in Italia (Capitolo III); Ilvincolo esterno e la politica estera: quali conseguenze per la democrazia (Capitolo IV finale).
L’idea fondamentale del libro si radica nel rapporto tra crisi interna italiana e il vincolo europeo derivante dall’accordo di Maastricht. Si svolge anche l’analisi teorica, cioè in termini generali, tra ciò che chiamiamo “politica interna” e ciò che invece rappresenta la “politica internazionale” degli Stati nazionali, che in termini strettamente economici si traduce, poi, in equilibrio interno tendenziale e in scambi internazionali specializzati (prodotto interno lordo – bilancia commerciale – saldo tra importazioni ed esportazioni – solidità dei conti pubblici – efficienza dello Stato-apparato – equilibrio politico – garanzie e sufficiente credibilità sul piano internazionale – competitività sui mercati – ricerca avanzata – dotazioni di beni di risorse e di materie prime).
La politica nazionale influisce sull’economia, a sua volta l’economia nazionale e internazionale reagiscono sull’andamento stesso della politica interna: si dovrebbe registrare un equilibrio virtuoso, regolato dall’arte di governo, ma in Italia ciò non si è verificato. Anzi, lo squilibrio è divenuto sempre più pesante, fino a condizionare in radice la composizione governativa: dal governo Berlusconi a Monti, da Monti a Letta, e da Letta al Governo Renzi.
Una crisi, un ribaltone, senza ricorso alle urne. E’ stato lo “spread” – il differenziale di resa tra i bond italiani e tedeschi salito alle stelle – a far saltare il Governo Berlusconi. Berlusconi non aveva inasprito la pressione fiscale: in ciò è consistito il fallimento politico del suo ultimo governo nell’estate del 2011. E’ subentrato un governo tecnico, il Governo Monti, che con una tassazione esasperata, richiesta dall’Europa per rimettere a posto gli interessi sull’enorme debito pubblico italiano, ha finito per scontentare partiti politici ed elettorato. E’ stato il fallimento di Bersani (vecchio PD?), per tre volte consecutive: prima con Berlusconi, poi con Letta, infine con Renzi (una crisi interna a un vero partito di maggioranza?). L’analisi di Diodato vola alto, col dubbio che egli preferisca ignorare i fatti e le loro cause, oppure che lo scrivente sia totalmente fuori strada. Ad ogni modo, sembra a noi troppo facile quella diagnosi impolitica, neutrale, scientifica e asettica che alla fine pretenderebbe di stringere un legame tra Giacomo Leopardi e Guido Carli individuando i mali italiani nel ritardo storico, in usi e costumi obsoleti, anziché nel “fattore K” esteso, secondo noi purtroppo ancora attivo nella politica italiana, nascosto com’è nelle macerie storiche della politica nostrana. Il Governo Renzi si regge sull’appoggio diretto di una frazione minoritaria dell’opposizione che era già l’ex maggioranza elettiva. Forse è democrazia avanzata, oppure si tratta di un’aberrazione politica e costituzionale. Tanto è vero che la Costituzione non è più, almeno nel senso che la Carta fondamentale del 1947 non ha retto ai tempi.
‘Paradosso per paradosso’, il paese reale è un buco nero. Mentre ancora si balla sulla tolda, la nave è già quasi sott’acqua. Se nel dopoguerra l’Italia fu ricostruita – Il miracolo economico – subito dopo fu sfasciata (il 1969 è stato l’anno dell’inversione).
Il “vincolo esterno europeo”, dovuto al mercato comune e alla moneta unica, con l’Euro ha finito per condizionare in modo diretto la politica interna italiana. In realtà si tratta di un vero condizionamento economico, di fronte al quale non sono più ammessi “bluff” politici o margini di manovra interna di ‘politica economica’ stretta: ricorso alla svalutazione, manovre sui tassi di cambio, aumento della spesa pubblica, pseudo riforme di facciata, bensì l’aumento di pressione fiscale e perfino la possibilità di prestiti forzosi come ultima tappa d’arrivo dello sfascio della finanza pubblica allargata. L’impoverimento di massa ne è lo specchio, se non fosse già che lo stesso sistema economico-produttivo è in crisi profonda. Il ritardo storico e i pessimi costumi italici hanno oggi questo volto e questa dimensione, che non è frutto di inadeguatezza endemica, ma conseguenza terribile di una distruzione o dissoluzione interna praticata con raro accanimento autolesionistico [Tangentopoli fu un epifenomeno, un anello della catena dei mali il cui ceppo non parlava la lingua dl sì].
L’adesione dell’Italia all’Europa imponeva una politica del rigore e un adeguamento agli standard europei. I “ritardi storici del Paese” erano ormai di pubblico dominio nella loro cruda evidenza. Ed era la radiografia del sistema economico interno al collasso, nell’impossibilità di rimediare con manovre di aggiramento e con i soliti pannicelli caldi. L’enorme debito pubblico crescente è, per se stesso, la manifestazione certa di un tenore di vita non più consentito dall’economia reale, sebbene i risparmi degli italiani coprano col loro ammontare la voragine.
8* Il secondo aspetto emergente, il più grave, è la perdita di capacità del sistema produttivo italiano, oggi generalmente in crisi per ragioni specifiche interne, indipendenti da processi o andamenti negativi di carattere internazionale che possano fungere da alibi congiunturale. Lo scialo ha creato enormi sprechi, mentre il sistema stava perdendo il suo potenziale. I ritardi storici dell’Italia sono derivati dalla pessima politica interna, affetta da rivalità, deliri ideologici e crisi politiche ricorrenti, il tutto si è assommato nello sfascio, di cui la finanza pubblica ha continuato, per decenni, a esibire un diffuso, capillare e orrendo ‘campionario’ di malefatte, nell’insensibilità – o effettiva impotenza? – dell’elettorato. L’Europa ha messo in luce questi mali; ormai è allarme rosso, ma le ragioni del traviamento dipendono in buona sostanza dal “fattore K” esteso, che ha continuato a far danni anche dopo il crollo del blocco sovietico, a differenza di altri paesi europei che hanno fatto in tempo a recuperare la socialdemocrazia, avversata e criminalizzata in Italia dalla presenza di forti scorie, ancora attive e fortemente condizionanti, di ‘stalinismo’ reale in un grande partito di massa, trapiantato da Togliatti. L’elettorato italiano è stato condizionato dallo scontro e poi dal mancato incontro. Col senno del dopo, comune ai più, s’è visto che la logica egemonica del P.C.I. ha continuato a rimanere attiva e condizionante anche dopo la svolta inevitabile della “Bolognina”. Il contenuto non è mutato, cambiando più volte l’etichetta.
Anche il Governo Renzi è un governo ‘comunista’, condizionato – com’è – dalle antiche scorie del Partito unico. Se c’è una cosa che può durare più a lungo rispetto al cambiamento, questa è la mentalità acquisita, l’atteggiamento ideale di una prospettiva ovvero una tendenza di massa, rivoluzionaria e messianica, dunque lacerante, entrata in circuito a suo tempo.
La sinistra italiana è rimasta ‘comunista’ nella sua sostanza, nonostante il verdetto negativo della storia: il certificato “ritardo culturale” italiano presenta questa precipua caratteristica, inconfessabile e più volte negata, ma resa evidente da fatti e da comportamenti in perfetta linea con la vecchia matrice ideologica. Queste macerie effettive non solo hanno ingombrato il cammino, hanno inquinato persino il linguaggio, ma hanno preteso la modernità, hanno osato presentarsi come il vertice dei diritti umani e della libertà, hanno assunto un valore dogmatico e confessionale al contrario, sicché la presunta “parità di genere”, neologismo artificioso e artificiale che pretende per sé un significato universale, non solo è un’aberrazione lessicale, ma in sostanza offende addirittura il ruolo specifico della femminilità, ed è uno dei temi più roboanti chiamati enfaticamente in causa dalla nuova sinistra, apparentemente senza più radici, come schermo per eludere tematiche assai più importanti e vitali nel dibattito politico attuale. Il ruolo della donna nella società moderna culmina sempre, a parità piena di diritti, ma in condizioni differenti, nella funzione maternale, senza la quale non staremmo qui a disquisire se l’acqua pura dà da bere o se il sole scalda in mondo.
La ‘rabbia’ è un atteggiamento premiabile? Alla vecchia ‘rabbia’ della sinistra storica, cioè il vecchio P.C.I., si è sostituita quella moderna del Movimento 5 Stelle. Un congresso in seduta permanente di grandi tecnocrati del progresso e della modernità liberatrice ha accompagnato l’Italia dal dopoguerra a oggi, dopo la tragedia morale e politica del fascismo. Ecco i risultati: Grillo che fa le bucce ai comunisti, le fa anche a Berlusconi, e i neo-comunisti al potere, senza elezioni. [Se in Italia ogni cosa, alla fine, non attingesse solennemente al ridicolo e alla farsa, dovremmo sospettare una sorta golpe ‘democratico’ da repubblica popolare dell’est: ma è invece la vicenda reiterata dell’uomoqualunque e del sonno della ragione : A governare le Nazioni non è la volontà deipiù ma l’Intelletto – la frase che è di Hegel, ha una sua precisa e cronometrica corrispondenza nel progresso tecnologico moderno che ‘governa’ e ‘regola’ attualmente il mondo, nel bene e nel male, senza distinzioni geografiche tra nord a sud del pianeta o tra est e a ovest, come insegna la Cina ‘comunista’, un gatto capace di prendere i topi semplicemente perché il ‘comunismo’ è scomparso, sostituito da un capitalismo diffuso e imponente, sempre più modernizzato].
L’Europa unita di oggi se la ride del comunismo d’antan, ha messo alle spalle il suo passato politico lacerato, ambiguo e contraddittorio, e fa mercato ed è attentissima alla ricchezza e al benessere. L’Italia milita oggi in serie B, e potrebbe ancora retrocedere. La realtà è questa, la dimensione europea attuale ridicolizza lo ‘sciocchezzaio’ nazionale, e mentre gli italiani hanno perduto il lavoro, incapaci di trovarlo altrove, qui sbarca in massa l’Africa del Nord e come affermò la Fallaci è stata perduta la “guerra dei ventri”. Le condizioni non potrebbero essere peggiori mentre si disputa e si litiga su tutto ciò che non conta nulla, e si continua a sbagliare in economia. L’apparato industriale italiano è ormai decotto, il sistema Italia – che è fallito – potrebbe rispecchiarsi nella vicenda Alitalia e nel naufragio riprovevole della Costa Concordia sugli scogli dell’isola del Giglio. Immagini efficaci di un disastro annunciato da decenni o di un’emorragia grave rispetto alla quale la politica militante nelle Istituzioni ha fatto da tampone, presumendo per incapacità di saper trovare le cure adatte. Non si può negare che i fatti erano imprevedibili, i piloti della nave – loro per primi – hanno generato occultamente gli scogli del naufragio. Non c’è politica senza economia, così come non c’è economia senza la saggezza politica.
Il vincolo europeo ne ha messo finalmente in luce i guasti. Se con Enrico Berlinguer si parlava di eurocomunismo e di terza via, a distanza di alcuni decenni, anziché al crollo verticale del partito unico in Occidente, si è assistito alla sua politica aggregante, alla sua scalata al potere, alle sue metamorfosi non di sostanza, alla continua rincorsa ai vertici, a riforme sbagliate e nefaste (un vasto campionario), fino a che il vecchio comunista migliorista Giorgio Napolitano è divenuto Presidente della Repubblica. [E’ un vero paradosso: se, in Germania, si fosse avuto un Presidente o un Cancelliere ‘ex nazista’, ravvedutosi?]. Oggi sono ‘comunisti’ (quale altra etichetta possibile?) anche i due Presidenti delle Camere e il Capo attuale del Governo. Se non è questo un “en plein”, di che si tratterebbe? La vittoria politica formale della sinistra ex Pci in Italia è avvenuta durante gli ultimi anni di crisi e di vincoli europei. Non è un caso. Così come il guasto economico che ne è la conseguenza. Fu politica, ma non buon governo. Non fu scienza dei fini e dei mezzi, bensì ideologia e illusione: il mercato ignora simili quisquilie, le sue regole ferree sono quelle della moneta unica. L’Italia è oggi costretta a pagare il conto all’oste. Un debito pubblico enorme e la dissoluzione storica di un paese non così alieno e sprovveduto nel tempo che fu, quando alla direzione dello Stato c’erano forze politiche sane, gli Einaudi e i De Gasperi, e la farsa paesana si limitava ai romanzi di Guareschi, senza tragedie collettive. LaStoria d’Italia di Indro Montanelli è un documento esemplare in questo senso. E non importa se Guareschi finì in carcere per punto preso, in un processo penale per diffamazione, su presunti scritti di Mussolini, causatogli da De Gasperi. Il 25 aprile del 1945 fu un atto di liberazione grazie agli Alleati Occidentali. Chi ha creduto che il comunismo fosse il suggello e il vertice della Libertà, si è dovuto ricredere.
L’opposizione comunista contribuì paradossalmente alla ricostruzione morale e materiale del Paese nel dopoguerra, il potere ‘comunista’ lo ha poi dissolto: sentenza amara, ma del tutto corrispondete ai fatti e misfatti della politica italiana. ll passato di un’illusione non è soltanto il titolo di un saggio di Francois Furet del 1995, ma l’idea comunista nel XX secolo anche in Italia è stata la causa dei mali presenti: mentre le economie dei vari paesi dell’Est filosovietico, oggi Stati membri dell’Unione Europea, si sono scrollate di dosso un giogo opprimente e stanno crescendo con ritmo veloce, a ciò è corrisposto il declino italiano. Il modello di riferimento ideologico non è stato abbandonato, rispuntando fuori ogni volta. Lo stesso ‘berlusconismo’ – alias il partito-azienda – ne è stato una conseguenza dal 1994. E se Indro Montanelli, chiudendo la sua Storia d’Italia col volumetto su L’Italia dell’ulivo (1995 – 1997), nella ‘postfazione’ impiegò queste parole: il congedo l’ho preso negli ultimi tempi dalla stessa Italia, un Paese che non mi appartiene più e a cui sento di non più appartenere, pur non dicendo bene di Berlusconi, intese tuttavia prendere le distanze dal disastro morale, che più che corruzione, è stato il naufragio delle idee e delle vere competenze. Oriana Fallaci aveva ragione: non c’è classe politica all’altezza, per il perseguimento del bene comune, se si pone al di fuori dei valori fondanti, propri del pensiero liberale e delle sue istituzioni responsabili. In altre parole, l’Italia è rimasta in piedi fino a quando c’è stata una classe borghese, ben pensante e rispettosa dei valori civili e morali, capace di azioni intelligenti, ed ha cominciato a vacillare, fino a corrompersi, quando si cominciò a delirare nel sonno della ragione tra gli anni del piombo e gli anni del fango. Certi errori si pagano cari, in specie se hanno inciso profondamente sul tessuto ‘sociale’ e su quello ‘economico’, non costituendo un alibi valevole, le buone intenzioni non accompagnate da sani riferimenti e non essendo sufficiente la buona volontà senza chiarezza d’idee e competenze vagliate. Come detto, l’oste alla fine del pasto ha presentato il conto da pagare.
Prime vittime i ceti deboli, e, con essi, l’intera classe lavoratrice, comprensiva del ceto medio.
9* Vincoli esterni, “ortopedici e salvifici”? Certamente lo furono gli accordi di Bretton Woods nel 1947 e l’adesione nel 1979 al Fondo monetario internazionale. La politica internazionale non può non ricercare i sani equilibri. Vedremo, tra breve, in che cosa consistettero. Ma l’adesione, nel 1992, al Trattato di Maastricht, creò un vincolo esterno rivelatore di malefatte ed errori, e mise in luce un sistema nuovo, costringente alla virtù, che per i paesi fuori regola è sanzione, costrizione ed emarginazione. Il fiscal compact prevede adesso 50 miliardi di euro all’anno per 20 anni. Il ‘genocidio’ ai danni delle nuove generazioni è stato già consumato all’interno, insieme ad altre folli contraddizioni, come l’invecchiamento della popolazione attiva, il non ricambio, la tassazione estrema, lo strozzamento economico. Non è la Grecia, ogni paese ha il suo esito, ma l’Italia di un tempo, ormai non c’è più: lo dimostrano chiaramente i dati macroeconomici comparati, la retrocessione generalizzata esibita dai vari indicatori di buona salute pubblica, in senso morale e materiale. L’ottava nazione industriale del mondo – un grande paese per storia e civiltà – è stata retrocessa e respinta verso i paesi poveri del terzo mondo, anche se il dramma non si è ancora consumato.
Con l’unità sabauda il paese crebbe, cercò un posto al sole, volle dignità europea, cercò di industrializzarsi e di colmare certi ritardi storici. Esisteva, nel bene e nel male, una classe dirigente. Le Università di un tempo erano serie. C’era spazio per il futuro, che fu occupato dal fascismo, dopo la prima guerra mondiale. Un grande equivoco. Risorgeva lo spirito nazionale, l’Italia era uno Stato europeo, nonostante il regime – farsesco e velleitario – del Duce usurpatore. Ed era una risposta interna alla minaccia comunista, un male causato da un altro male. Nel 1936 era scoppiata la rivoluzione in Spagna. L’Europa si era voltata a destra. La Repubblica di Weimar era stata un fallimento. E in Germania scalò Hitler il potere.
Questa la tragedia Europea di due guerre “mondiali” fratricide e irrazionali, la seconda conseguenza della prima, le cui cause remote si collocano nel ritardo dei principali Stati europei rispetto agli argomenti del pensiero liberale. Oggi l’Unione Europea è una competizione di Stati rispetto al mercato, è dotata di una moneta unica, manca di un esercito, non svolge una politica internazionale, il suo Inno è quello della Gioia (un sogno o una dimensione fertile?).
10* Gli italiani di un tempo lavoravano duro. Il popolo cresceva, ancorché estraneo alla vera partecipazione democratica e alle sue rappresentanze (l’economia corporativa era l’unica forma ammessa). Il pur triste dopoguerra fu un quasi miracolo: si vide che il Paese poteva riprendersi grazie allo spirito di sacrificio e agli aiuti economici americani, nonostante la povertà e le umiliazioni. La forza di una nazione consiste nel realismo e nella capacità di adattamento, virtù che non sono mai mancate nella lunga e martoriata storia d’Italia.
Il tempo che fu, quello più recente dalla liberazione al miracolo economico, ebbe due massimi protagonisti: Luigi Einaudi e Alcide De Gasperi. Il primo liberale, e il secondo cattolico. L’uno piemontese, e l’altro del Trentino, nato sotto l’Impero austro-ungarico. Questi due furono gli uomini della Provvidenza vera. Einaudi salvò la lira e De Gasperi salvò politicamente l’Italia. Togliatti salvò se stesso. Eppure l’Italia fu una democrazia, fondata sul lavoro, grazie alla sinistra. La logica dei blocchi contrapposti e della guerra fredda non solo produsse l’idea politica dell’Europa unita, ma anche lo slancio dell’Occidente verso la modernizzazione e l’integrazione. Tra nazioni vincitrici e paesi europei sconfitti sorse un patto necessario, condizionato dal pericolo rosso e dalle false democrazie dell’Est. Lezione salutare, con una forte ripresa dei processi tecnologici produttivi aggiornati e dell’accumulo per investimenti, giacché il sapere organico depositato storicamente nell’Europa libera era il presupposto invisibile e non immediato del progresso civile e del benessere. La politica democratica rappresentativa fu in grado di liberare tutto il suo potenziale rispetto alle necessità della ricostruzione.
Nell’economia moderna la moneta gioca un ruolo essenziale. Le origini del corso forzoso del sistema monetario sono identificabili nell’immenso sforzo compiuto dai vari Stati che parteciparono al primo conflitto mondiale. Prima della guerra del 1914-1918, il gold standard regolò per un secolo gli scambi internazionali: l’oro fluiva e rifluiva, scrupoloso termometro delle economie reali, da un Paese all’altro. Dopo il 1918 tutti i paesi, anche quelli neutrali, ad eccezione dell’America, furono costretti ad abbandonare il vecchio assetto. Il gold standard fu abbandonato perché gli Stati avevano bisogno di molta, di troppa moneta, per poter pagare le enormi spese militari. Pertanto le emissioni di carta moneta furono enormemente superiori alla quantità d’oro corrispondente che sarebbe servita per cambiare la moneta. Quando la popolazione, impaurita dall’aumento di prezzi, si recò agli sportelli bancari per cambiare le banconote in oro, poiché si supponeva che questo avesse perduto o stesse per perdere il potere di acquisto, come invece era accaduto o stava accadendo per la carta moneta, i vari Stati furono costretti, per difendere la loro riserva aurea, a dichiarare il corso forzoso. Ciò sollevava la Banca centrale dall’obbligo della conversione dei biglietti in oro, costringendo i privati ad accettarli in pagamento. Se si fossero rifiutati, si sarebbe tornati al baratto. Si era dunque spezzato il legame fra merce-oro e i documenti che tale merce rappresentavano. Non esisteva più una relazione tra oro e banconote; la moneta a corso forzoso poteva circolare soltanto entro i confini nazionali; il valore della carta moneta diventava mutabile e capriccioso, variabile e non dominabile, diminuendo progressivamente qualora non vengano fatte emissioni successive. Il valore della carta moneta veniva a dipendere esclusivamente dalla fiducia a essa assegnata dal pubblico. L’inflazione consiste nell’eccessiva emissione di carta moneta. Il governo oculato della circolazione monetaria diventava un potente strumento economico. Il sistema del gold exchange standard consisteva nella libera conversione delle monete rispetto a una moneta base (ad es. il dollaro). A Bretton Woods, una cittadina americana dello stato del New Hampshire, nel 1944 furono assunti accordi nell’ambito di una conferenza internazionale, alla quale parteciparono 44 stati, volti a favorire la ripresa al termine del conflitto. In particolare fu dato avvio a una sistema monetario fondato sul dollaro e sull’oro, in un sistema di convertibilità delle monete e di stabilità dei cambi. L’Italia, la Germania e il Giappone, furono associate al sistema dopo la guerra. Il 15 agosto 1971 il presidente americano Richard Nixon annunciò la sospensione della convertibilità del dollaro in oro, trasformando profondamente il meccanismo posto in essere con gli accordi di Bretton Woods. Il protagonista italiano del vincolo esterno salutifero ed ortopedico di Bretton Woods fu Luigi Einaudi, mentre De Gasperi, rompendo con i comunisti, ottenne i benefici economici del piano Marshall.
Nel 1979, anno non facile nella politica italiana del dopo Moro, quando si profilava la c.d. solidarietà nazionale tramite astensione e appoggio esterno, l’Italia aderì al sistema monetario europeo – c.d. serpentone. Il Fondo Monetario Internazionale, istituito a Bretton Wods ed entrato in vigore nel 1947, favoriva la cooperazione internazionale in campo monetario e l’eliminazione delle restrizioni nelle valute estere, onde facilitare i pagamenti multilaterali. Ogni membro è tenuto a consultare il Fondo Monetario qualora intenda svalutare o rivalutare la moneta nazionale. Il Sistema Monetario Europeo (Sme), in vigore dal 13 marzo 1979, legava i rapporti di cambio tra le monete dei paesi europei, con lo scopo di creare in Europa una zona di stabilità monetaria mediante il rafforzamento delle politiche monetarie nazionali.
Rispetto al serpente monetario che l’ha preceduto, lo Sme disponeva d’un meccanismo di tassi di cambio ancorato all’Ecu – unità di conto europea – che serviva a definire i tassi centrali delle valute (la parità di ogni moneta era regolata in Ecu). Ogni moneta europea non poteva oscillare in più o in meno del 2, 25 % rispetto alla parità. Come ben si vede erano queste le tappe progressive dell’Unione Europea di Stati Membri e del mercato comune europeo con l’adozione definitiva dell’Euro. Col nuovo millennio il panorama si è completato. Il cambio della lira in euro ha risentito dello stato reale dell’economia e del debito pubblico nel nostro paese. La moneta unica è il nuovo “vincolo esterno”, derivante dalle esigenze fondamentali dell’Europa unita, che non è uno Stato federale, ma un’unione “sui generis” di Stati, che non hanno perduto il loro “status” internazionale, ma l’hanno condiviso in un vincolo. Nessuno degli Stati membri ha cessato nella sua personalità giuridica di diritto interno e di diritto internazionale, ma ciascuno di essi ha messo in comune la propria realtà, attraverso un sistema che propone, in termini moderni, un assetto affine al sistema feudale. L’Europa degli Stati membri è anche l’Europa minore dei singoli stati e delle loro regioni o parti di territorio nazionale.
Una bella confusione, nelle variegate gerarchie costituzionali.
11* I caratteri essenziali di uno Stato consistono in un territorio, in un popolo, e in ordinamento giuridico, originario e sovrano, da cui deriva un governo. La divisione dei poteri – il criterio di Montesquieu – è un elemento pressoché necessario di legalità intrinseca. Lo Stato moderno è costituzionalmente democratico e rappresentativo ed è a sovranità popolare. Gli Stati europei possiedono in genere tali caratteristiche, ma l’Unione Europea, nascente da un patto di adesione, non ha – e non potrebbe nemmeno avere – questo complesso di caratteri, essendo una manifestazione non immediata e non originaria della organizzazione statale: in questo senso è una traslazione derivata di poteri pubblici su base consensuale. Il cemento dell’Unione Europea è il mercato comune, fondato sull’euro. L’economia organizzata ha una dimensione politica derivata, di secondo grado, corrispondente al Trattato. Quest’ibrido giuridico non ha alcuna base nazionale, nessuna identità linguistica, ha in comune alcune salienti vicende storiche, ma appartiene alla storia, e alle sue antiche vicende, come modello del tardo impero romano d’Occidente, con sede a Treviri. Le diverse identità culturali hanno in comune la radice cristiana dell’impero romano dopo Costantino, e condividono anche il ruolo storico più recente dell’Occidente europeo, rispetto all’Est russo-asiatico. L’Unione Europea è un portato della seconda guerra mondiale e rappresenta il volto dell’Europa moderna rispetto al resto del pianeta. Come in tutte le unioni di Stati, le identità nazionali vengono preservate e conservate, ma le rispettive economie interne non possono godere del privilegio dell’autonomia, in contrasto con l’unione fondante. All’unità economica tendenziale, regolata dal centro, non corrisponde nessun’altra caratteristica se non la buona volontà. Anzi, l’esperienza comune dell’euro ha messo in luce Stati forti e Stati deboli, innescando un potenziale conflitto interno di interessi intrecciati, a fronte di alcune carenze strutturali, come la Banca Centrale, e i suoi limitati poteri di intervento nel caso di crisi economiche nazionali. La competizione si pone in contrasto con l’equilibrio generale: il caso della Germania è assai significativo, a prescindere da ogni giudizio di merito. La distinzione tra politica interna e politica internazionale si assai assottigliata, ma ne rimangono vive e pulsanti le ragioni interne, in contrasto tendenziale con l’unione. E’ terminata la sovranità monetaria degli Stati membri. Gli Stati europei hanno rinunciato non tanto alle loro monete nazionali quanto alla possibilità di prendere a prestito denaro dalla loro Banca centrale.
12* Diodato (Capitolo I) distingue tra imperium (= coazione politica), consensus ( = legittimità politica), e dominium (= organizzazione di forze economiche e produttive). Ma non basta definire le tre dimensioni tradizionali del potere. La ricchezza semantica della lingua inglese consente di cogliere tre aspetti diversi della “politica”: politics, polity e policy. Si può avere allora una visione in 3D. La politics emerge nella distinzione tra politica interna e politica estera. La polity concerne l’organizzazione politica. La policy attiene alla fase delle decisioni politiche come atti di potere amministrativo. Questi concetti tornano utili per definire i compiti dell’Unione Europea e il ruolo sottoposto degli Stati membri. Qui non interessa, in sede di modesta recensione, approfondire gli aspetti storici dello Stato italiano, e neppure fare accenno alle dottrine politiche di Machiavelli, di Hobbes (Il Leviatano), di Montesquieu ecc. Le ragioni del presente convocano in giudizio la cattiva politica italiana, che è sotto gli occhi di tutti, e le cause del disastro economico e sociale, che non può dirsi inatteso, ma lungamente covato – e infine partorito – tra lotte politiche velleitarie, riforme peggiorative, devastazione giuridica e istituzionale, rispetto alle quali gli sprechi e le furfanterie hanno un valore assai minore, nonostante l’opinione che queste ultime siano state le cause della dissoluzione.
I termini forti dello specchio della realtà nazionale ed europea non dipendono da un eccesso critico, ma dal grado effettivo del disastro in Italia, che il vincolo europeo ha fatalmente snidato dall’ombra delle coperture interne dei partiti e dei raggruppamenti politici. I mali vengono sempre da lontano, le loro cause hanno agito per decenni nel sonno della ragione, partorendo mostri. Non era difficile fare previsioni nefaste: l’abitudine a delegare la propria realtà umana alle ideologie e alle formule astratte, ai gruppi e ai potentati, ha vanificato i diritti – doveri di cittadinanza responsabile, ed è ormai tardi. L’inflazione democratica ha annullato l’esercizio critico, le immunità garantite dal potere hanno azzerato le forme di controllo e di contrasto. Gli usi e i costumi degli italiani, legati al quieto vivere, tanto si sa che il potere è sempre sporco, si sono ridotti alla pazienza e all’estraneità impotente: al sapere facendo finta di non vedere. Votare inseguendo meccanicamente un rito inflazionario. L’interesse nazionale, certamente, è stato eluso e vilipeso dai giochi di potere. L’egemonia politica è avvenuta in democrazia – oggi alternanza – a danno dei cittadini e delle categorie produttive. Dobbiamo inoltre aggiungere gli orpelli formali del potere accanto ai rimasugli d’ideologia militante. Distrutto lo Stato. Prima sono stati rimossi in scala nazionale, ma poi moltiplicati in scala locale, gli enti inutili. Distrutta la scuola.
Nullificata la formazione professionale affidata alla burocrazia regionale. Imbastarditasi la pubblica amministrazione con la falsa privatizzazione del rapporto di lavoro e una bugiarda separazione di sfere di responsabilità tra dirigenti amministrativi e politici. I principi costituzionali di efficienza e d’imparzialità dell’azione amministrativa sono venuti meno, soprattutto a livello locale, nella confusione di ruoli e competenze. La burocrazia non fa economia. L’economia ha bisogno di regole nazionali e equa tassazione. Il localismo ha riprodotto un nuovo sistema feudale interno. Sono stati moltiplicati i centri di comando. E’ stato il caos organizzato, con la costante deviazione dai criteri di merito e di responsabilità.
Carte false prebende arbitrarie, gettoni di presenza, permessi sindacali, eserciti di sfaccendati ‘politicizzati’, premi di produzione. Il sovvertimento ab imis dell’ordinamento giuridico. La distruzione del sistema giudiziario.
Le repubbliche ‘sanitarie’, il regionalismo pervasivo e saccheggiatore. Gli sprechi e gli abusi.
L’impotenza, dall’altro lato l’intolleranza mascherata di falso modernismo. Dirigismo e burocrazie.
Nostalgie sovietiche e pratiche correnti d’interesse spicciolo. Un sottobosco di oscenità, di miserie morali: inani cori di protesta. Regole troppo rigide sul lavoro. Riforme sbagliate. Il sistema corrente degli abusi. Prime vittime l’economia produttiva e l’innovazione creatrice.
Un sistema previdenziale smodato e folle.
Una pressione tributaria oppressiva e un fisco da terzo mondo. L’antropologia del “fattore K”.
La pochezza ideologica, le vuote formule da litania laica. Una larga fetta dell’Italia si basava su queste ‘convenzioni liturgiche’, mentre sparivano le arti e o mestieri, e la società civile perdeva vigore o si corrompeva nello stile laborioso di un tempo che fu.
Un sistema creditizio, tra l’irragionevole e il putrescente, senza blasone: adesso, invece, il sano rimpianto della vecchia banca di un tempo. Il sistema giuridico delle cooperative e dell’artigianato, che sostituiva artificialmente, in scala ridotta, l’industria e il commercio, con l’agricoltura in abbandono. La politica ovunque, onnivora e inefficiente. La piramide rovesciata delle c.d. autonomie locali: prima i Comuni e per ultimo lo Stato (e il discutibile ruolo delle Province, ma anche l’inutile esistenza delle Regioni ordinarie o a statuto speciale, che di colpo andrebbero commissariate per evitare l’immane spreco).
Chi dava l’assalto allo Stato borghese, non ne tollerava l’unità ideale, e volle pertanto la frantumazione dello Stato nelle autonomie locali sottoposte agli esponenti territoriali del partito unico. I ‘soviet’ italiani si basavano su una ‘nomenclatura’ di tipo feudale, il territorio era il luogo da conquistare ‘castello per castello’, per dare la scalata al potere. Il “governo del territorio” è un’espressione paradigmatica di questa protervia politica, rivolta al potere incontrastato. Il PCI di Togliatti, chiamato da Stalin alla scalata “democratica” in Italia sul modello affine delle Repubbliche popolari dell’Est europeo, anziché votarsi alla rivoluzione armata, impossibile in Occidente, cambiò stile, e infine mutò etichetta, per non cessare di sostanza: l’ideologia occulta, anche dopo il crollo dell’Unione sovietica, è rimasta tale e quale, conformemente alla prassi. La prassi “democratica”, in effetti, ha comportato la lenta scalata al vertice da parte della sinistra post-comunista, almeno per logoramento, ma ciò è avvenuto quando il sistema si era già schiantato. Il debito pubblico immane e il disastro politico-sociale che ha trovato espressione altrettanto concreta nella disarticolazione o distruzione economica e produttiva del Paese, col depotenziamento dei gangli vitali della Nazione, oggi sanciscono chiaramente la diversità del “caso Italia”. L’imbarbarimento nazionale, dovuto all’inefficienza e all’incapacità cronica di un’ideologia pseudo scientifica, nefasta nei risultati ma nobile nelle sue motivazioni ideali, è il risultato netto di decenni di storia ‘democratica’ italiana, contrassegnata da lotte insane di potere, da scioperi, e da slogan verbali urlati nei cortei della protesta organizzata. A costo del ridicolo, il “caso Italia” è persino tragico. Lo è senz’altro in prospettiva, nonostante i grandi sacrifici delle masse lavoratrici. Si è arrivati a tassare la casa e il risparmio, e persino l’occupazione, pur di far rientrare i conti, dei bilanci pubblici sfondati, nei parametri dell’Unione europea. Il fiscal compact - 50 miliardi di euro all’anno per 20 anni – indica oggi la portata di questo dramma, posto comunque che già almeno un paio di generazioni di giovani italiani è stata mandata al macello. Al mancato ricambio lavorativo (turn-over) si è aggiunta la massiccia presenza di manodopera non qualificata da parte di lavoratori extracomunitari, col venir meno delle arti e dei mestieri tradizionali che erano di grande perizia. Ed è già questo dato una rappresentazione drammatica dello sfascio a livello micro economico e sociale. Il capitalismo liberale non produce effetti di questo genere. Siffatte conseguenze derivano dal blocco e dai condizionamenti ideologici di altra natura politica.
Attualmente in Italia un robusto e protervo partito di minoranza relativa, già legato a schemi inefficienti e storicamente superati, riveste i massimi incarichi istituzionali dopo una guerra di religione durata per decenni e le grandi rivolte sindacali d’un tempo. La democrazia, oggi, ha partorito anche l’antidoto protestatario del grande partito di protesta e d’opposizione che è stata la sinistra del P.c.i. – Il movimento 5 stelle – generando un blocco istituzionale, tanto litigioso e rivale, quanto inutile e controproducente. La Costituzione del 1947 è superata, mentre buona parte di essa è stata smantellata nella prassi o si rivelata contradittoria. Non per questo è lecito parlare di “prima” e di “seconda Repubblica”, in tal caso con Berlusconi.
In realtà non c’è mai stata una vera Repubblica, né mai la Costituzione del 1947 ha potuto manifestare in positivo i suoi sperati effetti. La ‘non’ Repubblica, almeno nel senso di mancata partecipazione democratica, organica, responsabile e solidale, è stata il dato permanente degli ultimi decenni, e il suo ‘non essere’ è dipeso dalle voglie egemoniche del partito unico e dalle strategie di dissuasione rispetto al vero pluralismo (elusione dei principi d’ordine e di rispetto giuridico delle regole fondanti la società civile). Non dipese dai costumi pessimi e dalle cattive abitudine storiche degli Italiani, ma dal conflitto post bellico tra massimi sistemi e dalla logica della guerra fredda. Una parte della Russia Sovietica si trovava in Italia, al confine con i paesi dell’Est (la Jugoslavia di Tito, non importa se non allineata rispetto al regime sovietico ortodosso). Il comunismo professo in Italia è stato il fattore condizionante. Se si accetta questa premessa si può allora rileggere in modo diverso il saggio di Diodato sul “vincolo esterno e le ragioni della debolezza italiana”.
12 * I due ultimi capitoli del saggio fanno riferimento alla politica estera italiana e al vincolo esterno, ponendo il problema di eventuali conseguenze sulla democrazia del Paese. Prima di affrontarne l’analisi critica, trovo utile ricordare due titoli di Alberto Arbasino: Un paese senza (1980) e Paesaggi italiani con zombi (1998). L’Autore ha descritto e rappresentato l’Italia democratica nei suoi tragici, comici e repellenti panorami interni, conseguenza diretta dell’ideologia professata dal P.c.i. e poi dall’ex P.c.i. Identico “panorama” di Zombi quello in cui ai mali sociali e politici del capitalismo in forme scorrette e aberranti, si assommavano i mali pratici del ‘comunismo reale’ che si è cercato di innestare nel nostro Paese, che oggi è un “Paese senza”, deprivato della sua identità e della stessa appartenenza patria.
Tragedie verbali: quelle – appunto – del parlato comune invalso, cioè il “politichese”, con i suoi luoghi comuni supini e i palesi ‘non senso’, tragedia di civiltà. Grande affresco grottesco, e realistico, della dimensione italiana, impazzita e vernacolare.
Il dopo Pasolini, e il Pasolini unilaterale di Scritti Corsari. Non scordiamo le “Brigate rosse”, figlie di “Soccorso rosso”. Il delirio derivava da vecchi linguaggi e dalla ‘grandezza filologica’ dello stalinismo. Ed è così che si spiega il caso Italia nel suo excursus dal 1945 a oggi.
La politica estera dell’Italia filo-atlantica e filo-mediterranea era realista: il mercato europeo e il petrolio. Questo spiega anche il caso Mattei. La globalizzazione è venuta dopo, prima c’era la guerra fredda, e in Italia era presente il più grande partito comunista dell’Occidente libero.
Secondo Diodato la politica estera italiana deve essere studiata in considerazione di trefattori: la collocazione geopolitica, la posizione nel sistema internazionale (rango e ruolo), il grado di tensione o di mutamento internazionale (l’adeguamento, nella nostra interpretazione). Segue l’analisi storica della politica internazionale dell’Italia dal dopoguerra a oggi. Il vincolo esterno ha assottigliato la distinzione trapolitica interna e politica internazionale, anche se l’Unione Europea non ha competenze di politica internazionale, a ragione del fatto che è un’unione “consensuale” di Stati sovrani con presunte affinità reciproche, che però di fatto mancherebbero oppure che non hanno un loro vero centro accumunante oltre il dato storico dell’esperienza comune dell’Europa cristiana alto medievale e medievale.
L’Unione europea è necessariamente un vincolo di moneta unica e di mercato comune. Questo vincolo a nostro giudizio ha inevitabilmente messo in luce le contraddizioni interne dell’Italia come sistema pubblico (con un debito enorme) e come sistema economico indebolito vieppiù dai contrasti politici. La sanzione meritata è quella della retrocessione dell’Italia come potenza (politica internazionale) e come potenza industriale (crisi economica).
La massiccia disoccupazione giovanile, la fuga di capitali d’investimento, la crisi produttiva sono i caratteri tipici del declino, così come il modesto caso dei due “marò” trattenuti da alcuni anni in India senza processo, rappresenta tangibilmente anche il naufragio della ‘credibilità’ sul piano internazionale del nostro Paese.
Scrive Diodato (pag. 139) che nel corso della seconda Repubblicasi è smarrita in Italia l’idea della razionalità dell’opinione pubblica, fondamento dell’impianto democratico moderno.
Non siamo d’accordo sulla formula di “prima” e “seconda Repubblica”, per cui – al limite – il Governo Renzi sarebbe dunque il preludio a una “terza” Repubblica. La Repubblica è sempre quella: non attuata la sua “democrazia” razionale, a ragione del “fattore K”, ancora presente e attivo nonostante tutto. Il profilo reale di un Paese che voglia dirsi “moderno” si coglie dalle virtù nazionali, dalla sua organizzazione efficiente. Il danno è stato fatto, in Italia ha trionfato un modello sbagliato, che ha prodotto un’antropologia inadeguata. Il ‘berlusconismo’ è stata una conseguenza, non la causa (altrimenti la maggioranza non l’avrebbe votato). Valgono invece le parole profetiche con cui Indro Montanelli chiudeva la sua voluminosa e illuminata Storia d’Italia, con L’Italia dell’Ulivo: L’anomalia durerà – quale ne sia lo schieramento al potere – finché dureranno in Italia non solo regole imperfette avvolte da una giungla di cavilli, ma un costume politico bizantino, allergico alla chiarezza. Un costume che ci propina la quasi-crisi, le quasi- maggioranze. E non c’è rimedio.
Oggi non c’è altro rimedio allo sfascio, se non con enormi sforzi di concordia e di chiarezza razionale, con una vera presa d’atto delle ragioni effettive del fallimento.
Diodato definisce la propria analisi sul vincolo esterno europeo accentuando la definizione di una politica estera capace di partecipazione qualificata, corrispondente all’interesse generaledel paese. Volare basso, fare gruppo per salire di quota, tornare giù se non ci sono le condizioni.
Va da sé che la concordia interna è la prima condizione “sine qua non” e che dunque – questo lo aggiungiamo noi – si debba porre fine all’ideologia del logoramento, e con ciò alla presunta primazia del partito storico rispetto alla realtà certa dei fatti concreti.
L’Europa moderna non è eurocomunista, si accontenta di essere e di rimanere una “espressione liberal-sociale”, il lib – lab, come appunto dovrebbe essere. Ammesso poi che l’Unione Europea possa durare, poiché non è una vera unione politica, ma un mercato di moneta unica, dove la concorrenza economica tra Stati membri è la regola certa, con la possibilità di una differenziazione o discriminazione tra il nord e il sud di questa realtà giuridica consensuale, improntata all’Inno della Gioia del grande compositore tedesco Ludwig van Beethoven, nato a Bonn nel 1770 e morto a Vienna nel 1827.
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Quale conclusione dare a questo mio commento molto personale, a margine di un saggio di “geopolitica” preciso e interessante? Oswald Spengler [1880 – 1936] pubblicò il suo capolavoro nel 1918 – 1919, Benedetto Croce lo recensiva nel 1920. Era appena terminata la prima tragica guerra mondiale. Venti anni dopo quel conflitto proseguirà nella seconda guerra mondiale, peggiore della prima, ma da qui nasceranno due eventi: la guerra fredda e la nuova Europa. Accogliendo il pensiero di Goethe., Spengler affermerà che la il mondo e la storia non sono un meccanismo ma un organismo: quindi, il declino e il crollo delle civiltà è un fatto mortale, come ne era stata vitale la cresciuta. Cosa ci aspetta? L’Occidente scristianizzato non ha disposizione una vera morale, tra Scilla e Cariddi le Sirene hanno intonato il loro canto mortale, Ulisse il greco avrà la saggezza necessaria per salvare sé e suoi compagni? Ma ritornerebbe la lezione interrogativa di Diogene, il cinico: dov’è l’Umanità e chi è l’Uomo?
Una grande risposta c’era già stata duemila anni fa: l’Uomo dei dolori. Un Uomo vero, accanto al Padre Suo e a tutti Fratelli. Averlo dimenticato è pena da espiare. Dico certamente anche per me, ma qui rivolto ai giovani cuori palpitanti d’ansia, nella Città sacra di Francesco e di Chiara.
CHE LA MORTE SECUNDA NOL FARA’ MALE. BEATI QUELLI CHE ODONO LA VOCE DELLA GIUSTIZIA E DELLA MISERICORDIA. NON C’E’ – NON CI SARA’- PACE SENZA PROPORZIONE TRA GLI ESSERI UMANI, RISPETTO ED AMORE.
Arcangelo Papi – Assisi 2016