(La facciata del Duomo di Assisi)
Il duomo romanico di San Rufino – e la piazza antistante – che in precedenza era l’area su cui sorgeva il vecchio duomo e nelle cui vicinanze si trovava la casa natale di Santa Chiara.
Si distinguono le tre zone della facciata romanica e la fascia in basso, comprendente i tre portali, sarebbe quella più antica.
Il portale centrale è caratterizzato tra anelli – di cui il più importante è quello di mezzo, con sculture ad altorilievo – e da un lunotto di ‘pomato’ rosso.
La facciata “profetica” del Duomo di San Rufino in Assisi
*Premessa
Il presente articolo, meglio un “racconto” che, però, vorrebbe essere oltre che suggestivo, anche provocatorio, è dedicato alla memoria di Don Aldo Brunacci, il fondatore in Assisi di “Casa Papa Giovanni” e della libreria “Fonteviva”, luoghi d’incontro e di dibattito, negli anni ’60, tra religiosi e laici, aperti anche agli studenti universitari di quel periodo. Don Aldo, scomparso nel 2006 all’età di 93 anni – autore di importanti voci dell’Enciclopedia Cattolica e di varie pubblicazioni – è stato professore di religione nel Liceo Classico “Properzio” di Assisi. Durante il secondo conflitto mondiale, giovane prete cattolico della diocesi, Don Aldo prese parte attiva – e fondamentale – per la salvezza di molte famiglie ebree, rifugiate e protette segretamente in alcuni conventi di clausura femminili della città serafica. Per questa ragione gli venne assegnato il riconoscimento di “Giusto di Gerusalemme”. Don Aldo, che mantenne relazioni di carattere internazionale, fu per lungo tempo il canonico del Duomo romanico di San Rufino, che ha forse la più bella facciata di quasi tutta l’Italia centrale. Una facciata adorna di sculture, fregi e altorilievi “misteriosi”, almeno nel senso che non se ne conoscono i precisi significati, l’epoca di esecuzione e l’attribuzione.
Nel 1986 Don Aldo, insieme al prof. Giuseppe Catanzaro, poi fu poi Presidente dell’Accademia Properziana del Subasio, una delle più antiche Accademie d’Italia, curò l’edizione storico-critica del De bono pacis di Magister Rufinus, un capolavoro del pensiero politico-religioso medievale. Nel 1999, dopo il terremoto del 1997, Don Aldo fu il fautore – e il principale articolista – dell’importante libro storico-fotografico La cattedrale di San Rufino, curato dal prof. Francesco Santucci, con interventi di studiosi, di storici dell’arte, e di specialisti del restauro.
Nel 2000 è uscito S. Rufino primo Vescovo di Assisi – Esame critico delle antiche leggende e del culto, che facendo seguito a precedenti pubblicazioni in argomento, era omaggio di Don Aldo al “santo patrono” della città, “protomartire” cristiano. Tuttavia “san Rufino” “vescovo e martire” è un “santo” totalmente sconosciuto ai Bollandisti, e per quanto Don Aldo abbia cercato di legittimarne la tradizione, almeno su basi tradizionali del culto locale secolare, non sembra che si possa risalire indietro all’anno mille.
Le leggende, trasposte nei relativi “passionari” di san Rufino e di san Vittorino, che sarebbero stati primi vescovi di Assisi in piena età pagana, sembrano destituite di fondamento. Il fenomeno sarebbe una caratteristica comune ad altre cittadine umbre, sprovviste di tradizione autentica. Del resto, un documento di età costantiniana, o posteriore di poco, il famoso rescritto di Spello, sanciva il ripristino degli antichi culti degli Umbri, praticati nel fanum di Villa Fidelia (evidentemente proibiti da Caio Ottaviano “Augusto” subito dopo il bellum Perusinum del 41 – 40 a.C.), che erano stati trasferiti da alcuni secoli al fanum etrusco di Voltumnae, nei pressi di Volsinii, luogoaltrettanto “misterioso” che rappresentava la lega sacra delle 12 città dell’Etruria e dove si trovava anche l’antichissimo tempio di Nortia, la dea lunare del tempo e degli “annali”. Il rescritto, ripristinando la tradizione degli antichi Umbri, purché non fosse causa di turbative, significava però che il cristianesimo non si era ancora radicato nella antica Umbria, cioè nella sua magnifica vallata centrale, che comprendeva anche le fonti del Clitunno, oltre che Spello, Bevagna e Assisi. La cristianizzazione di questi territori, sicuramente rimasti intatti fino ad Alarico, dové rappresentare un fenomeno relativamente tardo, come attestato dal magnifico tempietto pagano-cristiano, posto nei pressi delle fonti descritte da Plinio, e riportabile al V secolo d.C.
Dubbi, ma non solo incertezze. Vanno ricordate le parole di Monsignor Sergio Goretti, all’epoca vescovo di Assisi, che definì la cattedrale di San Rufino “il piùantico santuario francescano” (F. Santucci, op. cit., La Cattedrale e il francescanesimo, p. 88).
Il duomo sorse nel 1140 (la data d’inizio dei lavori è sicura), ma non se ne conosce la data di ultimazione. In precedenza, sulla piazza antistante il duomo, sorgeva la vecchia “basilica ugoniana”, di minore ampiezza, la cui abside si collocava a destra del campanile attuale, che è un rifacimento di quello primitivo. Oggi il campanile sorge accanto alla facciata del duomo nuovo. La facciata di questo ragguardevole e importante monumento romanico è un misterioso capolavoro di cui si sa veramente molto poco. Non riteniamo che le recenti pubblicazioni, sebbene molto accurate, abbiano colmato tale lacuna. L’enigma permane, accentuato dal fatto che sarebbero stati trascurati dettagli fondamentali, nell’erronea convinzione (a nostro avviso), che le scarse fonti ufficiali, unitamente a qualche documento epigrafico e in base agli ultimi lavori d’indagine archeologica e di recupero strutturale a causa del sisma del 1997, siano sufficienti per risolvere i numerosi problemi, anche di ordine razionale, suscitati dalla sostituzione del duomo precedente (chiamato “basilica ugoniana”), col nuovo duomo romanico, i cui lavori – com’è sicuro – iniziarono nel 1140, per concludersi assai tardivamente, addirittura in epoca post francescana (con un picco che andrebbe dal 1210 al 1228).
La non convincente – e sufficientemente non provata – versione, dovuta al Fortini, che il vecchio duomo fosse ancora ufficiato quando santa Chiara era giovane, accingendosi a seguire Francesco, e che lo stesso Francesco non avrebbe predicato sul sagrato del duomo nuovo, ancora impegnato dalla vecchia basilica ugoniana (che sarebbe sorta poco dopo il 1029), deriverebbe da un fraintendimento causato in primo luogo dalle fonti documentarie, essenzialmente un sermone di Pier Damiani, che molto probabilmente non fu nemmeno composto ad Assisi. Crediamo, infatti, di aver trovato la prova irrefutabile che il nuovo duomo di Assisi fosse già sorto, e che fosse regolarmente ufficiato, quando Francesco e Chiara non erano ancora nati. Perciò i due santi ricevettero il battesimo nel nuovo fonte battesimale e non in quello del vecchio duomo che era già stato smantellato e sostituito dalla nuova fabbrica, alquanto più ampia e impegnativa, arretrandone la facciata quasi accanto al precedente campanile, e così ricavando lo spazio della piazza antistante, in precedenza molto più stretta e angusta.
L’edificazione del duomo nuovo, iniziata nel 1140, faceva utilizzo dello spazio libero retrostante, ritirandosi all’indietro di oltre 50 metri. Com’è lecito supporre, l’abside del duomo nuovo poteva considerarsi terminata, quando la “facciata” non era stata ancora completata nelle sue tre distinte fasce o zone, di cui la terza fascia, quella cuspidata, rappresenta con certezza l’ultima fase dei lavori. Le tre fasce sono nettamente distinguibili, e si possono notare sia le variazioni subìte dal progetto originario, che i caratteri distinti – tra la prima e la seconda fascia – circa il corredo statuario. I tre bellissimi rosoni corrispondono ai tre portali e alle tre navate del Duomo.
Un’iscrizione anonima, in caratteri gotici e in versi ottonari, risalente al momento in cui il duomo fu sostanzialmente terminato, sebbene fosse ancora da completare, ne volle ricordare a ritroso l’anno d’inizio e il progetto originario di Giovanni da Gubbio, che “finché visse” qui operò. Giovanni curò anche i lavori di ripristino integrale della chiesa del Vescovado, cioè Santa Maria Maggiore, prima chiesa cristiana della città, risalente al V secolo, sebbene la cripta dell’edificio rinnovato secondo l’ordine romanico da Giovanni Gubbio e terminato nel 1162, risalga all’VIII secolo (cioè ad età longobarda), con imponente reimpiego di pregiati materiali romani (colonne, capitelli ecc.). Fu Giovanni da Gubbio, un valente architetto di cui non sappiamo altro, a dotare ex novo la vecchia chiesa episcopale di un campanile romanico. Certe caratteristiche sia dell’abside romanica di Santa Maria Maggiore, che dell’abside del Duomo di San Rufino, rimandano ai c.d. “maestri comacini”, o “maestri lombardi”, maestranze girovaghe formate da gruppi ben affiatati e da un architetto o capomastro esperto, che dal Mille in poi (ma anche da prima), avevano edificato al di qua e aldilà delle Alpi. Il cronista francese Raoul Glaber scrisse che “la terra si coprì ovunque d’un candidomanto di chiese”, ma il ‘miracolo’ precedeva già l’anno Mille ed era un portato della genialità del movimento benedettino, più volte riformato. Nel 1140, a Cluny, protetto dall’abate Piero, Abelardo trovò il suo ultimo rifugio.
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Il prof. Franco Prosperi, figlio del noto scultore assisiate Francesco Prosperi, il cui ricco e importante catalogo delle opere, curato dal figlio, anche lui valente artista e studioso, è stato pubblicato nel 1997, sotto il patrocinio dell’Accademia Properziana del Subasio, è stato il primo a interessarsi seriamente di questa misteriosa facciata, con tre importanti pubblicazioni: La facciata della cattedrale di Assisi – La mistica gioachimita prefrancescana nella simbologia delle sculture (pubblicato nel 1968); quindi Gioacchino da Fiore e le sculture del Duomo di Assisi (2003); e, da ultimo (2007), Gioacchino da Fiore e Frate Elia – Dalle sculture simboliche del Duomo di Assisi ai primi dipinti della Basilica di San Francesco. Prosperi ha affrontato diversi problemi, anche quello dell’attribuzione artistica delle sculture concernenti l’intera facciata, in cui tuttavia si noterebbero almeno due distinti momenti: dapprima l’esecuzione del portale principale (a nostro avviso il maggior capolavoro), e poi tutto il resto (in specie la ricca fascia mediana della facciata, che però dovrebbe essere più tarda). Eccone il rosone centrale, qui in dettaglio: in origine l’occhio del rosone doveva presentare una scultura simbolica, venuta meno per qualche evento calamitoso.
L’architetto prof. Giulio De Giovanni, che ha lavorato a lungo al restauro e al consolidamento del Duomo, riportò in luce altre preesistenze d’età umbro-romana e proto-medievale, recuperando altresì l’intero tracciato dell’abside del vecchio duomo, posto appena all’interno del duomo nuovo, che accanto al preesistente campanile, ne determinava i limiti della pianta originaria.
Il mistero della nuova cattedrale romanica – e di “mistero” si tratta – passerebbe anche attraverso il passionario tardo trecentesco di San Rufino, oltre che la testimonianza del sermone XXXVI di san Pier Damiani, sui Miracula Beati Rufini Martyris, riportati in modo esagerato e del tutto incredibile dal famoso Dottore della chiesa (Ravenna 1007 – Faenza 1072). La testimonianza di Pier Damiani, sebbene non si tratti di un falso, non possiede però alcun valore storico, anzi è stata la causa di tutta una serie di equivoci, sia su san Rufino, che sulle basiliche – dapprima parva, e poi magna con Ugone – qui edificate in suo onore. Anche il “passionario” del “primo vescovo” di Assisi, è un falso immaginario, mentre il sermone di Pier Damiani (composto verso la metà del secolo XI), non è un documento “storico” che possa far fede sulla parva e sulla magna basilica (quest’ultima sorta dopo il 1029, ad opera del vescovo-conte Ugone, che prese parte alla dieta di Worms del 1048 voluta da Enrico III per l’elezione al soglio pontificio dell’alsaziano Brunone dei conti di Egisheim-Dagsburg e perla riforma della Chiesa), e, per conseguenza, che possa costituire un’attendibile base anche per le successive e ignote vicende del passaggio ufficiale dal vecchio al nuovo duomo romanico, un secolo dopo, e quindi lungo l’arco del secolo successivo. Ed è assai sorprendente che in meno di un secolo (ma diciamo pure dal 1040 al 1140), si sia manifestata la necessità di un nuovo duomo. Ci deve essere stato un qualche errore o frainteso condizionante. Probabilmente l’equivoco deriva dal sermone XXXVI di Pier Damiani, composto insieme a un inno ritmico, allo scopo di consacrare un culto che in realtà non aveva alcun vero sostrato, se non leggendario. Ce ne occuperemo con un altro intervento, qui anticipando che le stesse ‘mirabolanti’ circostanze del ritrovamento del corpo di san Rufino, che sarebbe stato conservato nei pressi del fiume Chiascio in un’arca apposita (un antico sepolcro romano, riccamente istoriato ad altorilievo, col mito di Endimione, che rimanda alle elegie di Properzio II, 13 – 15), ne provano direttamente il grado di “pia invenzione”, mentre il contrasto insorto inizialmente tra il popolo dei fedeli e il vescovo Ugone, circa la destinazione di quelle spoglie, indica invece un forte attrito tra il clero della preesistente basilica (la parva basilica) e la cattedrale o “cattedra” vescovile. Ugone avrebbe quindi provveduto ad abbellire e ad ampliare la basilica precedente, con l’aggiunta di un campanile e con altre opere. Da qui l’equivoco, dovuto a Pier Damiani, che la parva basilica e la magna fossero distinte (Ugone avrebbe costruito ex novo la chiesa grande, in realtà di trattò di un rifacimento, conservando la vecchia cripta, la cui datazione ad età longobarda-carolingia ne restituisce la dimensione temporale esatta). L’anno 963 contrassegna con assoluta certezza la prima pergamena conservata nell’archivio della cattedrale. Tali pergamene, che riflettono gli usi del diritto longobardo, come ad esempio le costituzioni dotali o “dono del mattino”, sono atti importanti per la storia di Assisi, ampiamente utilizzati prima dal Cristofani e poi dal Fortini, e comunque tenute in considerazione dall’abate Di Costanzo, che col Frondini fu il padre della storiografia locale. Perché l’archivio vescovile antico sarebbe ‘scomparso’, e per quale ragione – dal 963 – in poi ci sarebbe stato un archivio condiviso tra il capitolo del Duomo e il Vescovado? A parte tutto, le vicende edilizie delle due chiese (meglio i loro rifacimenti) furono la condizione “sine qua non” del curioso fenomeno. Il sermone di Pier Damiani riflette implicitamente o in modo indiretto il trasferimento della cattedra vescovile da Santa Maria Maggiore, un edificio ormai esausto e da rifare, alla basilica di San Rufino, più recente e appropriata, inserita anche nella zona più popolosa della città altomedievale. Il vescovo Ugone, un vescovo-conte, ne fece la sua dimora, arricchendola di un chiostro e di una canonica più ampia, ormai palazzo episcopale. La chiesa madre di Assisi, sorta nel V secolo, passava dunque a sede secondaria, pur continuando a essere ufficiata. Atti promiscui, che si riferivano alla distinta attività giuridica delle due sedi, si trovarono riuniti. Prima del 963, anno che segna la svolta ‘basilicale’ del culto locale in onore di san Rufino, gli atti giuridici di tipo ecclesiastico (praticamente, quasi tutti) erano conservati presso l’archivio del grande monastero benedettino del monte Subasio, di antiche origini, e posto sotto la custodia di quello di Farfa, come indica un atto del 763, trascritto nel Regesto di quest’ultima abbazia, o casa madre, in cui figurano un Leopardus de Asisi (storpiamento latineggiante che sta per ‘Liutprando’) e un Aurimo notarius civitatis Asisinatae (ambedue ‘nomi’ longobardi). In epoca altomedievale (longobarda e poi carolingia) l’economia cittadina, che non per questo aveva dismesso del tutto arti e mestieri, che precariamente si conservavano dai secoli precedenti, era – di fatto – dominata dal carattere “curtense” impressale dal predominio del monastero benedettino, garantito dalla continuità della scrittura e dei saperi, e dalle attività primarie dell’economia montana (allevamento del bestiame, foraggi, lana e materiali lignei). Il monastero del Subasio aveva rilevanti proprietà nel forum mercatorum, l’antica piazza romana dell’arce sacra del tempio di Minerva. Il padre di San Francesco era un fiduciario del Monastero benedettino del Subasio, per conto del quale lavorava la lana prodotta dalle greggi montane, raccolta e stivata nei locali del monastero, la tinteggiava e rivendeva in panni.
In quest’articolo, che andrebbe letto razionalmente come un racconto indicativo, e non come un saggio vero e proprio, si argomenta a favore dell’ipotesi che il portale del Duomo, esempio di rara magnificenza scultorea, risalga a Enrico VI e a Costanza d’Altavilla, e che in origine sia stato concepito da Magister Rufinus, sul presupposto che il grande canonista dello Studium Bononiense, allievo di Graziano, fosse stato per alcuni anni vescovo di Assisi, verso il 1180, prima di diventare arcivescovo di Sorrento (1186), nel cui territorio si trovava il Monastero benedettino di San Salvatore. L’ipotesi “indiziaria” si sorregge, almeno in parte, sugli studi – più o meno recenti – del prof. Prosperi, che invitiamo a scorrere stante la loro importanza. La nostra interpretazione si fonda su elementi particolarmente ‘significativi’, non considerati nel 1968 da Prosperi, che si era concentrato esclusivamente sulla facciata, e come in tutte le ipotesi, se ne ‘giudicherà’ in base alla rilevanza degli argomenti prodotti a sostegno.
Prosperi, con accurato lavoro personale, aveva fotografato in bianco e nero l’intera facciata, in tutti i suoi dettagli. Le bellissime fotografie, scattate utilizzando una scala da pompieri, fanno parte del dossier da lui conservato. Viceversa, il corredo fotografico di cui ci siamo serviti, è stato realizzato nel 2002 da Marco Francalancia (nipote di Riccardo Francalancia grande pittore del primo ‘900 italiano), che qui ringrazio, ancora una volta, per la sua generosa disponibilità, non mancando i ringraziamenti anche per l’altrettanto amico Franco Prosperi, con cui ho avuto molte e stimolanti occasioni di conversazione e di confronto, a prescindere dalle conclusioni da ritratte sull’argomento.
Alcune note di semplice informazione aggiuntiva, con riferimenti bibliografici ridotti all’essenziale, completano il testo dell’articolo che, è bene sottolinearlo, ha un carattere puramente indicativo.
L’autore ritiene che le eccezionali sculture o altorilievi del magnifico portale del Duomo siano state eseguite dalla bottega dei Vassalletto, che operavano a Roma, e non da anonimi artisti locali. Franco Prosperi – che dopo il primo lavoro del 1968 si è dedicato nuovamente alla interpretazione delle allegorie – ritiene invece che si tratti di artisti normanni radicatisi in Umbria (vedi Gioacchino da Fiore e le sculture del Duomo di Assisi, Dimensione Grafica Editrice 2003, pagg. 365).
Nel volume del 1999, a cura di F. Santucci, Francesca Cristoferi (La Facciata, pagg. 92 – 109) ha ravvisato un nesso tra la facciata di San Rufino e quelle lombarde del XII secolo (S. Michele e S. Pietro in Ciel d’Oro a Pavia, il Duomo di Piacenza); mentre l’apparato decorativo affiancherebbe motivi diffusi nel repertorio dei lapicidi umbri attivi tra l’ultimo quarto del XII secolo e il primo del XIII, “sebbene altri elementi appaiano alquanto inconsueti”.
Il magnifico portale del Duomo, su cui si concentra la nostra attenzione, s’inspirerebbe alle dottrine spirituali di Gioacchino da Fiore (Prosperi), ma attraverso la mediazione (Papi) dell’allegoria delle ottospecie di Pace, secondo il De bono pacis di Magister Rufinus.
La probabile datazione della bellissima opera scultorea ad altorilievo del portale stesso, rimonterebbe al 1189, appena a qualche anno dopo la composizione del De bono pacis, che doveva essere coincisa con l’epoca travagliata della lotta dei comuni lombardi contro Federico I “Barbarossa”, conclusasi con Pace di Costanza (1183) tra impero, comuni, ed anche il papato. Nel 1160 un diploma federiciano aveva separato il territorio di Assisi da quello del Ducato longobardo di Spoleto, riconoscendo ad Assisi autonomi poteri “comitali”.
Si deve scorgere, in questo importante atto imperiale, il primo germe ‘fondativo’ del comune nascente, benché soltanto nel 1198 – quando Francesco era ormai oltre le soglie dell’adolescenza – si abbiano tracce ‘certe’ del Comune di Assisi in base alla magistratura dei Consoli (una volta diroccato il castello federiciano, poi ricostruito e ampliato dall’Albornoz, nel XIV secolo).
Le straordinarie sculture ad alto rilievo, caratterizzanti l’anello intermedio del portale centrale del Duomo romanico, rappresenterebbero il primitivo e principale elemento decorativo dell’intera “facciata”, ripartita in tre fasce, e completata soltanto in seguito (gli ultimi lavori, eseguiti dopo il 1210, in base all’impegno collettivo – storicamente documentato – dall’atto di pacificazione Pro bono pacis, che aveva completato gli intenti dell’atto affine del 1203, per la riappacificazione interna dopo i fatti della guerra contro Perugia, alla quale aveva partecipato Francesco, militando nella cavalleria cittadina).
La vicenda complessiva del Duomo di Assisi, sorto nella parte alta e più antica della città, sembra riflettere – e sottintendere – il già avvenuto trasferimento, a titolo precario, della cattedra vescovile al duomo vecchio, ma molto più recente rispetto alla chiesa primitiva di Santa Maria Maggiore, e persino alcuni forti contrasti, insorti tra il clero locale: il vescovo da una parte, il capitolo del duomo (forse anche l’abbazia benedettina del Monte Subasio) dall’altra. La questione ha un impatto diretto sulle prime esperienze di Francesco e Chiara e riguarda altresì altri enigmi che diversamente non troverebbero soluzione. Almeno nel senso che farebbe difetto una spiegazione razionale per certe anomalie e per determinati vuoti. Il “duomo” rappresentava l’unità civile e religiosa di una civitas, prima di qualunque altra organizzazione sociale a venire, come il libero comune. Non possono però essere dimenticati i grandi monasteri, come quelli benedettini, comunque destinati a interagire col territorio circostante. Assisi presenta unitamente tali caratteristiche che a ragion veduta riteniamo fondamentali e imprescindibili per il ruolo esercitato nella storia locale, ancorché scarsamente documentata; segno di continuità, tra il mondo antico e quello medievale, rimanendo il tempio di Minerva, con la centralità del suo antico foro, sebbene ormai ricoperto di macerie.
San Francesco e Santa Chiara – la sua casa si trovava da queste parti, affacciando sulla platea o piazza più ampia del duomo nuovo (non di quello vecchio come riteneva il Fortini) – contemplarono con i loro stessi occhi le allegorie di questo capolavoro. Il portale s’impone all’attenzione dei turisti, anche i più frettolosi e distratti, ma di fatto – destando inconscia meraviglia – rimane sconosciuto e pressoché inspiegabile nei tanti particolari o ricchi dettagli.
Anche Federico II fu battezzato nel nuovo duomo romanico di San Rufino. Tutta la questione del passaggio dalla vecchia basilica “ugoniana” al completamento del nuovo duomo rimane oscura, incerta, ambigua, dibattuta e contraddittoria. Occorrerebbe perciò uno studio critico a parte, per riassumerla a dovere e per distinguerne poi i diversi e molto complicati ‘risvolti’.
In questa sede prevale ovviamente l’aspetto settoriale della “facciata”, limitatamente al bellissimo, inspiegato, e stupefacente portale centrale, sopra riprodotto. Tuttavia i singoli aspetti non possono rimanere al di fuori di un quadro generale che li riguardi e li contenga unitariamente, secondo una scala di priorità, che in primo luogo deve essere di ordine razionale. Sovente gli storici si fondano a tavolino su carte e documenti, ignorando i luoghi e quanto l’ambientazione degli stessi potrebbe suggerire. La ricostruzione storica non può prescindere dal “metodo storico” e dalla “coerenza”.
I “documenti” sono oggetto di analisi specifica e poi di interpretazione organica, mentre i vuoti o gli ambiti rimasti scoperti, possono essere colmati ricorrendo ad ipotesi razionali, che tengano conto degli indizi disponibili. Il discorso, pur sempre opinabile, trova maggior ‘senso’ all’interno di un quadro ‘possibile’, meno verosimile, anziché in enunciazioni frammentarie oppure affidandosi a tradizioni prive di autorità, scambiandole per certezza, quando invece è proprio quel tipo di certezza a non convincere, destando più ‘domande’ di quante non se ne possa risolvere ovvero più numerose di quanto non occorra. In genere la storia locale si fonda su tradizioni incertissime e su travisamenti, sebbene i toponimi risultino quasi sempre una guida affidabile per la comprensione dei luoghi.
Affidabili con totale certezza non sono i documenti “cartacei”, spesso d’incerto contenuto ideologico, più affidabili, ma più oscuri, sono gli altri generi di ‘documento’, come ad esempio i fatti “artistici”, in specie se legati a ragioni di culto. Per cercare di trovare il ‘bandolo’ di certe intricate questioni occorrerebbe disporre di un punto certo di partenza, oltremodo significativo e affidabile. Il problema del Duomo romanico di San Rufino, legato com’è ad altri importanti aspetti derivati, pone domande serie, alle quali sono state date risposte per se stesse insufficienti oppure derivate dall’incerto scambiato per certo. Ed è un caso tipico, in cui “leggenda” e dato “storico” sono costretti a convivere, senza coerenza e su basi fiduciarie alquanto opinabili. Da qui i “misteri” e le “domande” cui non è stata data alcuna risposta. Perché, oppure cosa viene prima e che cosa viene dopo. Rufino fu vescovo di Assisi? Il nuovo duomo esisteva già all’epoca di Chiara e Francesco? Cosa significava esattamente – nell’atto Pro bono pacis del 1210 – che i lavori del duomo dovevanoandare in antea – procedere cioè avanti a tutto? E perché quell’intitolazione che sembrava seguire, quasi alla lettera, il De Bono Pacis di Magister Rufinus e anticipare il Pax et Bonum di San Francesco? Cosa precederebbe cosa? Ed è lo stesso dilemma che concerne il modo corretto di fare storia, stabilendone le priorità e i derivati.
Va fatto notare che nell’abside del nuovo duomo romanico figurano – in bella evidenza – tre aquile imperiali sicuramente “federiciane”, e che si registrano – infine – varie incongruenze tra alcuni e altri aspetti salienti, essendo perciò costretti a stabilirne la ‘priorità’.
Di tali questioni si occuparono, nel secolo scorso, Padre Abate e Arnaldo Fortini, tra di loro in garbata polemica, ma il mistero del Duomo nuovo non sembrò aver trovato una soluzione lucida e coerente, in linea con i dati storici e in sintonia con gli eventi più probabili. Un problema ‘irrisolto’, insieme alla incertissima tradizione su San Rufino, “vescovo e martire”, cui il duomo è intitolato. Altri interventi critici – si veda la bibliografia riportata dalla Cristoferi nel 1999 – non sembrano aver aggiunto molto o chiarito i dilemmi. Ogni volta si scopre qualcosa di nuovo, ma il quadro permane enigmatico, come già detto coinvolgendo molti altri aspetti addentellati.
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Il presente articolo, o racconto che dir si voglia, inaugura una nuova linea interpretativa, intendendo riaprire l’indagine critica su tali questioni tra loro interdipendenti. Tentar non nuoce, anche perché troppe incertezze e troppe contraddizioni si sono accumulate e stratificate nel tempo, non ultime questioni importanti, di stretta appartenenza alle biografie di San Francesco e di Santa Chiara, in relazione ad alcuni episodi riportati dalle fonti. Ciò che esporremo dopo questa lunga premessa ha il privilegio – abbastanza inusuale per le tante pubblicazioni su Assisi spesso e volentieri costruite in modo artificiale – di esibire fin dall’inizio una prova decisiva, curiosamente sfuggita ai c.d. storici locali (consueti monopolisti dell’erudizione).
Il vecchio duomo di Assisi, sorto all’incirca nel V secolo d.C., era Santa Maria Maggiore, ancora oggi sede dell’episcopio. La prima chiesa cristiana di Assisi in età romana, il Vescovado, racchiude essa stessa una bella serie di enigmi, per cui l’uno e l’altro aspetto dell’intera questione, sembrano confermare un quadro complessivo inesplorato, e perciò ricco di sorprese. A partire da un luogo del tutto speciale e misterioso, la c.d. domus Musae, che fu utilizzato o riutilizzato come prima chiesa in età cristiana e come fonte battesimale. E’ dunque possibile che la storia dei monumenti di Assisi, dall’età pagana a quella cristiana, sia molto più sorprendente di quanto non sia mai stato finora sospettato e considerato. Il nostro intento è proprio quello di ‘correlare’ tra di loro tali aspetti interrogativi e di inquadrarli insieme in una medesima vicenda di sviluppo temporale. Tanto più che la stessa abside di Santa Maria Maggiore, chiesa romanica rifatta nel XII secolo (1162, Giovanni da Gubbio), esibisce una misteriosa lapide, che si rifà a Francesco di Assisi, datata 1216.
Incominciare dal portale ‘profetico’ del Duomo di San Rufino è chiaramente una “provocazione” ed è allo stesso tempo un “punto di partenza” pressoché obbligato. Ciò non significa però fare a meno dei contributi storiografici del passato, anche più recente, invero non numerosi, ma cercare di riallacciare le fila in un quadro complessivo, che tenga conto delle varie ‘componenti’, tentando di distinguere, secondo una scala razionale di priorità, ciò che viene necessariamente ‘prima’ rispetto a quanto invece si collocherebbe ‘dopo’. Le contraddizioni non mancano, la vicenda è tortuosa e oscura, ma noi crediamo di aver scorto un filo conduttore. Per tale ragione riteniamo che una serie d’interventi mirati su ciascun monumento o documento in pietra di Assisi, possa valere molto più di qualsiasi argomento di altra natura. L’oggettività di partenza potrebbe rivelarsi la via più sicura per dipanare vicende di cui si è perduta la cronologia e con ciò il loro succedersi e il loro stesso significato. Misteri di Assisi – un sito web che ospiterà i miei interventi di stimolo – vorrebbe poter soddisfare a certe istanze di chiarezza, pur recuperando il solco della tradizione, almeno dal punto di vista di quanto si attestava in precedenza. Non mancheranno le sorprese e le scoperte clamorose. A dispetto di chi tutto ciò ha trascurato oppure ha preferito estraniarsi per ragioni certamente in condivisibili. Ogni nostro intervento sarà suffragato da solida documentazione e presentato in modo critico coerente e commisurato, a differenza di chi dottamente si rifà al solito gioco di specchi delle note, per dire tutto e niente insieme. I momenti “vuoti” o “irrazionali” della “tradizione” sono, per noi, la leva critica delle “novità” proponibili. A tale schema ci atterremo, nonostante il rischio, intrinseco a tale atteggiamento, da ricondurre alla nota massima di ponderazione: nec sutor ultra crepidam. E’ però non improbabile che la “tradizione” abbia confuso tra un dato aspetto e l’altro, creando alla fine un impianto di riferimento artificiale, o comunque non rispondente a certe realtà, altrimenti ricostruibili, se soltanto si abbandonino pregiudizi ed equivoci. Occorrono, in ogni caso, delle solide fondamenta, e il difficile sta proprio nella loro serena e legittima individuazione. Ma
Noi ‘sappiamo’ ciò che diciamo, e pur non pronunciando dogmi, tale compito lo lasciamo volentieri ai soliti dogmatici, esibiamo prove (non vuoti discorsi dotti o riciclati altrove).
Se il Duomo di San Rufino – incominciato con certezza nel 1140 – esibisce nella sua bella abside romanica ben tre “aquile imperiali”, allora non può che trattarsi di aquile “federiciane”, e cioè di Federico I detto il Barbarossa oppure di suo figlio Enrico VI, il che già determina un ribaltamento del paradigma tradizionale che non ne ha mai tenuto conto, restando che non esistono studi appropriati sul Duomo di Assisi, sebbene di tratti di capolavoro architettonico che trova solitamente menzione nei testi più diffusi di storia dell’arte quale esempio dell’architettura “romanico-dalmata” (G. E. Mottini, Storia dell’Arte Italiana, vol. I, pag. 263).
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Questa – dunque – la solida “base di partenza” del presente articolo, o singolare racconto, le cui ipotesi derivate, si presentano, a questo punto, molto meno labili o azzardate di quanto sarebbe sembrato a primo giudizio. Se l’abside del nuovo duomo reca un “contrassegno” o un “marchio” databile, l’intero monumento finirà per rivelare buona parte delle sue incerte e oscure vicende, stando almeno a chi ne scrisse in precedenza, di solito, per dotto “monopolio” o “rendita culturale”.
(Tre aquile imperiali caratterizzano l’abside del Duomo di San Rufino)
[Fine della “premessa” e inizio del nostro “racconto”]
1*Assisi1 è universalmente nota come città natale di San Francesco, che vi nacque non si sa bene se nel 1181 o nel 11822, da un padre mercante di stoffe – di nome Pietro di Bernardone – e da certa “monna Pica” di probabili origini francesi.3
La ‘leggenda’ francescana è piuttosto incerta e alquanto controversa4, malgrado gli accurati studi storiografici, che a partire dall’ultimo quarto del XIX secolo, dapprima da parte di uno storico dell’arte, il tedesco Henry Thode (Francesco d’Assisi e le origini dell’artedel Rinascimento in Italia, 1885), e, poi, del protestante francese Paul Sabatier, hanno cercato di recuperare la figura storica di San Francesco, dopo secoli d’oblio, e d’abbandono a una convenzionalità sacra, tutto sommato stereotipa e acritica.
Quest’ultimo studioso, il francese Paul Sabatier, apparteneva alla scuola storica della Sorbona, allora capeggiata da Ernest Renan, autore tra l’altro di una celebre Vita di Gesù (1863).
Il formidabile avvio in età moderna di questi studi storiografici sulla controversa ed incerta figura del Santo della Povertà, condotti adesso con vero rigore scientifico e recuperando criticamente tutte le migliori fonti documentarie, è poi proseguito con enorme ricchezza, e su diversi versanti, fino ai giorni nostri.5
Infatti, la figura di San Francesco è una di quelle figure storiche che hanno segnato una svolta fondamentale in ambito religioso e sociale, quanto al rinnovamento del mondo medievale, tanto da essere definito l’alter Christus, secondo un parallelismo sul quale hanno giocato sia la tradizione, che le prime biografie del santo.
Si comprende, perciò, come non solo gli elementi biografici siano stati, già subito dopo la morte (1226), adattati o riadattatati a diverse interpretazioni, per essere infine ‘canonizzati’ attraverso la Legenda Major di San Bonaventura (composta tra il 1260 e il 1262), ispiratrice diretta dello grande ciclo iconografico giottesco nella Basilica Superiore; ma si capisce anche come – ancora vivente “frate” Francesco – lo stesso francescanesimo, sviluppatosi rapidamente con uno straordinario impulso iniziale, si svolse sempre di più – per così dire – subsigno contradictionis, nella grande disputa tra “spirituali” (la spiritual corte di Dante Alighieri) e le altre componenti. Lo scontro verteva, soprattutto, sulla rigidità della prima regola minorita e sulla fedeltà assoluta alle “nozze mistiche” di Francesco con Madonna Povertà (il Sacrumcommercium “cavalleresco” del santo, in contrapposto al De conptempumundi dello ieratico Papa Innocenzo III, che nel 1209 o nel 1210 approvò – ma ‘tacitamente’ – la prima ‘regola’ originaria di testimonianza evangelica e di predicazione, una regola ovviamente ‘non scritta’, ma soltanto nel senso che non era stata ratificata e trasfusa in un documento ufficiale “bullato”; ma “regola” era, che dunque rappresentava il francescanesimo delle origini, e cioè il vero Francesco).
La querelle, già assai aspra negli ultimi anni di vita del Santo, fu appena sopita con l’approvazione – da parte di Onorio III – della regula bullata del 1223. Questa regola era frutto di equivoci, e di contrasti in seno all’Ordine francescano, dunque un compromesso. L’Ordine, ovviamente, l’aveva già fondato Francesco agli inizi, e papa Innocenzo non l’aveva tollerato, o accettato tacitamente, ma era stato costretto ad ammettere che da subito – e non ‘dopo’ come le fonti vorrebbero far credere – almeno in Umbria il movimento era già fortemente attestato e seguito con fervore popolare e da molti seguaci di rilievo, al di sopra di ogni qualsiasi sospetto di eresia potenziale.
Il papato prese semplicemente e correttamente atto che lo stesso Ordine benedettino riformato, quello dei monaci spiritualmente più vicini alla migliore e più seria tradizione cristiana ab antiquo, appoggiava il movimento francescano, rendendosene garante. Al Papa erano giunte raccomandazioni e rassicurazioni di tale importanza, non importa se tutto ciò è completamente taciuto e ignorato dalle fonti, che nemmeno lui avrebbe potuto glissare, disinteressarsi o desistere. Francesco, una volta che fu ricevuto al Laterano, riuscì – con la sua parola dolce, soave, ma incendiaria, autentico Miracolo – a ridestare in vita lo Spirito ‘imbalsamato’ della Chiesa dormiente. “Vis cui resisti non potest”. Ed era la forza suprema dello Spirito Santo. Quel giovane di Assisi, già uomo d’arme e abile mercante, un portento del mondo temporale che in Italia conosceva ormai la libertà dei tempi nuovi, era inspirato direttamente da Dio, la sue fede aveva un coraggio e una potenza misteriosi, la sua figura emaciata e dimessa brillava di luce e di verità. Ed era Amore, che dalla Cortesia portava a Dio, con le stesse parole di Gesù Nazareno. Sorgeva l’alba, nella luce dei tempi rinnovati una donna stupenda, bellissima e povera, era lei la madre nobilissima dei veri figli del Re.
Favola o allegoria suggerita da Francesco con splendida voce, chiarissima e perfetta, era quella la stessa identica verità di Cristo Salvatore del Mondo, la verità eterna della Fede, della Speranza e della Carità. Innocenzo III ne rimase colpito, chinò il capo. La Regula Vitae – quella sempre rimase: il resto fu un riadattamento, e un documento poi messo per iscritto e approvato – era soltanto il Vangelo sine glossa: e particolarmente tre passi, sulla perfezione, che ab imis rifondavano nel sacro anche l’economia mercantile del tempo dei comuni, e che i primi tre miles Christi – “tres faciunt collegium” – nella chiesa di San Nicolò de pede plateae,6 sorta ad Assisi un secolo prima, accanto al tempio di Minerva, la dea della sapienza e anche della pace, avevano letto – ed eletto – dall’evangelario, oggi conservato a Boston, come loro cardine di conformazione. La Vita Nova di Francesco era iniziata da una scelta forte e decisa, dopo un periodo di sofferenza e di dibattito interiore. Egli dirà che la vista dei lebbrosi, che già gli ripugnava, poi si mutò in dolcezza: quello lo Specchio della perfezione, a immagine della lebbra dell’anima, di cui l’orgoglio è la massima piaga infetta: Francesco si “specchiò”, e vide finalmente se stesso; uno che abbia baciato le piaghe, rovesciando il mondo, acquistava uno sguardo che “va oltre”, che si infiggeva negli occhi dei potenti, che penetrò anche lo sguardo del Papa, e con voce di dolcezza chiarissima, forte – ab intus – come uno scrosciare d’acque, fece mansueti e commossi gli animi di crisalide racchiusi nelle formule astratte e nella teologia del giure e del raziocinio calcolatore). Veramente un grande miracolo si era verificato a Roma, nel luogo più inaccessibile e meno probabile.
Che la volta precedente Francesco avesse qui scambiato a Roma, i suoi ricchi abiti con quelli dei più poveri e miserabili questuanti, appartiene alla linea leggendaria delle manipolazioni. Francesco aveva visto con i suoi occhi quanto l’altra Gerusalemme terrena fosse lontana dallo spirito di Gesù. Di fatto, nel 1210 (bisogna andare avanti di un anno), egli aveva ‘predicato’ direttamente al Papa.
C’era un mondo “nuovo”, non più un vecchio mondo, da “disprezzare” contra fidem: come disse Gesù, vino nuovoin otri vecchi era una contraddizione.
Francesco – dopo la crisi dell’Ordine, da lui fondato con la parola e l’esempio, che difatti si manifestò nettamente, già a partire dal 1219-1220 – non solo non si smosse di un et dall’osservanza – alla lettera – del Vangelo, ma provvide addirittura a nominare in suo luogo – come “generale” dell’Ordine – quel Pietro Cattani o da Catanio (juris peritus et canonicus ecclesiae Sancti Rufini), uno dei suoi primissimi compagni, che insieme a lui e a Bernardo da Quintavalle (quest’ultimo, non si sa bene se a sua volta mercante come Francesco o altro), avevano preso in mano, nella cripta della chiesa di San Nicola protettore dei mercanti, il volume prezioso dei 4 Vangeli e li avevano consultati di comune accordo: l’ordine francescano era nato in quel preciso momento, e da qui in poi, fu la massima testimonianza di perfezione, con Madonna Povertà, e la Passione di Gesù sul Golgota.
2* Il movimento di povertà, che era germinato dal cuore inquieto ma certamente illuminato di Francesco, si era formato ad Assisi, proprio tra coloro che nutrivano nel loro seno quel medesimo “sentimento” di “colpa” verso se stessi e di seria e forte riflessione sull’ingiustizia dominante, sia pure agli inizi in modo incerto e contraddittorio, e che condividevano la mercatura, o avevano comunque a che fare con questioni economiche, come il Cattani, che era prete, e che doveva ricoprire il ruolo ingrato di economo del duomo nuovo di San Rufino.
L’attaccamento al denaro, dovuto alle rispettive attività, li accomunava come soggetti e la povertà vertà – con l’ingiustizia sociale – erano sicuramente contro Dio. Ogni giorno lo si sperimentava per via, e le campagne che sfamavano la città, erano luoghi di poca o nessuna dignità: terre di servi, di non liberi, e di sfruttati. Eppure San Paolo aveva detto: Chi non lavora non mangi.
I “lebbrosi” erano stati improvvisamente lo “specchio rivelatore” per un’anima inquieta, che da qualche tempo s’interrogava. Alla loro vista, Francesco a cavallo, ne rimase profondamente turbato, poi comprese che il leprosus era lui, mentre i poveri lebbrosi nella carne erano proprio coloro ai quali Gesù aveva usato miracoli materiali di guarigione, e la redenzione spirituale attraverso la Parola di Salvezza.
La crisi personale di Francesco, che era stata originata, all’inizio, da più traumi, e s’era poi accompagnata con tormentate meditazioni sulla “gloria del mondo” e poi ancora sul “servizio d’arme” come “riscatto poetico” da una condizione sociale, forse non aliena dall’usura, da lui considerato avida e profana, quindi colpevole, si tradusse nell’afflato decisivo di “Madonna Povertà”, vero ideale del “cavaliere” purissimo.
Templare di Cristo, col segno del Tau. E senza mantello e calzari, povero e lacero.
Risolta nella formula della “verità” del Vangelo ad litterm – prima da solo, dentro di sé, segnando una svolta decisiva la considerazione, altrettanto sconcertate e pietosa, della “sua” stessa “lebbra morale”, ma subito dopo, anche con i suoi primi compagni – da quella sua crisi, che sembrava apparentemente disperata, e senza via d’uscita, se non con la rassegnazione passiva al ‘suo’ destino esistenziale, lo stesso identico “destino” dei suoi “compagni”, ugualmente in cerca di un “riscatto”, ben presto sorgerà un’avventura cavalleresca “sui generis”, quella del ribaltamento dei falsi valori e della correlativa “scoperta” di un “grande tesoro nascosto”, che infine riguarderà tutta l’Europa, in un vero incendio spirituale. La povertà era il primo fatto oggettivo, ma ciò nasceva da un dramma personale e da un equivoco interiore, che allo stesso modo investiva la “società” tutta, anche e soprattutto nel momento storico del “rinnovamento” del “mondo medievale” (già segnato dal passaggio dalla realtà feudale al libero comune delle arti e dei mestieri).
Il Bene della Pace era stato l’oggetto fondamentale delle profonde considerazioni spirituali, storiche e teologiche di Magister Rufinus. La Pace di Francesco, prima di comunicarsi all’esterno, come messaggio vitale, era stata la “sua” personale e necessaria conquista interiore, il “suo” vero “trofeo” nell’arduo torneo con la sua anima insoddisfatta, inquieta e ribelle. Il tema della Pace – PAX ET BOMUM – era l’annuncio francescano del Vangelo, cioè la vera Pace di Gerusalemme, quella degli uomini con Dio.
Testimonianza eroica, che proveniva direttamente da una “dottrina amorosa”, appunto già “incarnata” nelle cose: quello era il senso vero della “storia”, e la degna militanza dei Cavalieri di Cristo che non potevano non rinunciare allo stesso cavallo, un “cavallo” che a briglie lente aveva a condotto da solo il trasognato e afflitto padrone direttamente al luogo infame dei “lebbrosi”.Testimonianza tanto eroica, così forte ed estesa, da coinvolgere insieme “uomo e donna”. Cioè, Chiara e Francesco, nella restituzione ideale, al mondo loro contemporaneo, di una specie di Eden purissimo, un mondo nuovo prima del peccato originale, accessibile col battesimo, e poi da salvaguardare con la totale povertà: id est la renovatio mundi, con lo spiritoprofetico di Giacchino, e, in aggiunta, la grazia somma di un ideale perfetto, da dentro le cose, ma di cose trasformate in spirito, vissute e praticate nella “grazia”, esaltante e difficile, della “perfetta” coerenza e dell’esempio diuturno: in “ogni tempo”, col freddo e la pioggia, col sole accecante e lo stordimento delle cicale; lacero il saio, dolcissimo lo sguardo trapassante e lieto. E la parola “suadente” – Pace nei cuori, il Benevero della “vera”Pace pacificante: con l’eucarestia del “discorso” di “verità” della “montagna” e nel “mistero” dell’ultima cena di Cristo (ke la morte secunda nol farà male). Chiara, compagna della luce. I giorni – e gli anni – duri della Fede e della preghiera; ma la felicità di Dio, nella parola salvifica di Gesù Cristo. Il Maestro e il Salvatore. La vita quotidiana dei Santi è “ogni giorno la sua pena”, il loro tempo è “concretezza” e “certezza” fedele. Ed è speranza fatta di verità e proporzione.
3* Dopo la morte del Cattani, nel 1221, Francesco decise autonomamente d’affidare ilgeneralato dell’Ordine a Fra Elia, le cui successive vicende, che furono a dir poco drammatiche: fu rimosso dal generalato nel 1227, appena l’anno dopo la morte del Santo; di nuovo nominato generale dell’Ordine nel 1233, e nuovamente rimosso nel 1239, dopo la scomunica di Federico II, per essere, infine, scomunicato e imprigionato dal vecchissimo papa Gregorio IX, così terminando i suoi giorni a Cortona, nel 1253, essendo noti i solidi legami di Fra Elia con l’imperatore Federico II, guarda caso battezzato ad Assisi, proprio nel Duomo di San Rufino,7mostrano e dimostrano – direi con massima con chiarezza – uno scenario di grande tensione tra ‘riforma’ e ‘conservazione’, all’interno di certi gruppi, e nel quadro di una politica pontificia nei riguardi dell’impero complicata, altresì, dalle complesse vicende delle crociate, che vi si sovrapposero (1229). Chi fosse stato Fra Elia (è però certo che fra Salimbene degli Adami ne disse peste e corna) è questione complessa, e, certamente, assai oscura e controversa. Che finì per investire l’Ordine francescano, e persino quello delle Clarisse (la santa si fidava di Elia, e non sentiva altre ragioni).
Elia fu molto caro a Francesco, e, forse, il vero francescanesimo era contro il potere temporale dei papi. Lo stesso identico atteggiamento, che sarà la caratteristica di Dante Alighieri, il ghibellin fuggiasco che era stato educato da fanciullo, a Santa Croce, dagli Spirituali francescani fiorentini: Dante parteggiò per l’Impero, contro il potere temporale dei papi (la “pace d’Egitto”, simoniaca, era molto peggio della “pace di Babilonia”, quella dei mercati e quella dell’imperatore, ovvero il “mercato etico” dei tempi attuali, secondo alcune importanti ‘risoluzioni’ delle Nazioni Unite, anche se quest’ultima forma di “pace” tra gli uomini era ben lontana dalla vera “pace di Gerusalemme” tra gli uomini e Dio).
Il 1260 è l’anno del “movimento” dei “flagellanti”, delle “Passioni” versificate e delle “processioni” penitenziali. Era anche l’anno della renovatio mundi, secondo una datazione individuata da Gioacchino da Fiore. Ma lo stesso fra Salimbene da Parma8 considera questo anno come l’inizio di una “grande delusione” e dell’abbandono dello spirito rinnovatore gioachimita, quando si vide bene che i grandi eventi – a lungo attesi – non ci furono affatto. Si può concordare con lo storico Luigi Salvatorelli nella considerazione che il francescanesimo originario è lo sforzo più poderoso che sia stato fatto per una rinnovazione religiosa ‘ab intus’, nel quadro dell’ortodossia del popolo credente, a cominciaredaquello italiano e umbro.
Francesco aveva ricevuto le stimmate, il suo movimento di povertà e testimonianza evangelica aveva inciso profondamente nelle anime più disposte, ma il mondo seguitava nelle sue miserie e nei suoi travagli temporali. Nel 1239 la “Campana Italiana” del bel campanile in calcare bianchissimo di Frate Elia, aveva rintoccato solennemente per la prima volta, nel nome di Maria. Le anime ne erano state toccate, come dalla stessa parola del Santo. Eppure la storia seguitava nel suo endemico malessere o malaffare.
Il francescanesimo – che era sorto quasi sul filo dell’eresia, però rimediata dalla fedele oboedientia e dalla assoluta devotio di Francesco nei confronti di qualunque sacerdote, anche i più indegni, secondo la migliore dottrina risalente a Sant’Agostino – rischiò e continuò seriamente a rischiare l’inquisizione, che si era già scatenata – subito dopo la morte del santo – soprattutto nei confronti dei “catari”. Inquisitore per la Francia era il cupo Robert le Bougre, che portava anche lui il nome di ‘eretico’ (bougre = bulgaro = bogomilo = eretico).
In Germania infuriava Corrado di Marburgo,9come nel Nome della Rosa di Umberto Eco. Il quadro è di quelli più foschi ed enigmatici. Intanto era tramontato l’astro di Federico II, e gli Angiò iniziarono a lasciare loro tracce nella Basilica del Santo, che continua a racchiudere molti “misteri”. I templari furono perseguitati ed eliminati.
L’Ordine francescano, già in fermento e in contrasto durante gli ultimi anni di vita del suo santissimo fondatore, si stava arrendendo alla sicurezza del “ventre” e agli “agi” dei grandi conventi. Iniziava – dopo la scomparsa degli ultimi compagni rimasti in vita – non l’età del rifiuto, ma quella più comoda dell’oblio convenzionale. La vita del Santo – già obliterata dalla sua stessa magnifica santità, era scomparsa: la giovinezza, un cattivo esempio, tutto il resto, un fatto personale. La santità cattolica s’infiorettava, fiorivano in continuazione leggende e narrazioni, tutti dicevano la loro, e lo stesso Tommaso da Celano, abile e dotto scrittore, che pur aveva visto e udito Francesco coi suoi occhi e le sue orecchie, ebbe l’incarico papale di fare “agiografia”, trasformando, riducendo, e tagliando. Quando la santità di San Francesco era essa stessa un’anomalia, non un monologo con Dio, non solo, né una serie di miracoli, suggello canonico inevitabile: bensì una fede profonda, fatta di “cose” vere e di “testimonianza” concretissima.
4* La Legenda major di San Bonaventura (al quale Dante Alighieri dedicò il XII canto del Paradiso, subito dopo San Francesco), s’incaricò di una sorta di riconciliazione tra le varie fazioni francescane, accogliendo il profetismo gioachimita e allo stesso tempo addolcendo i vari contrasti, soprattutto a riguardo alla povertà assoluta dei veri minores. La “sposa mistica” di Francesco, Madonna Povertà, fu nominalmente conciliata con la vita conventuale al chiuso e con gli studi filosofici. Il francescanesimo, novità assoluta dello Spirito, penetrata nella caligine del cupo mondo medioevale come un raggio salvifico di luce, tornava a richiudersi in strette mura. Francesco, che non voleva nessuna chiesa, ebbe un triplice tempio di gloria (la vicenda della sua sepoltura sotto l’altare maggiore, nell’umbratile Basilica inferiore, è anch’essa molto misteriosa: come un certo anello, che la salma recava al dito).
Assisi è anche la città natale del grande poeta (umbro e) latino Sesto Properzio. La vicenda “francescana”, e più di mille anni prima, quella “properziana” (due autentici mysteria nel loro rispettivo genere)10, sorprendentemente sembrano quasi toccarsi, per ragioni di affinità. L’amore è dominante. La cortesia trovadorica recuperava a modo suo antichi “codici” perduti (il codice delle Elegie lo ritroverà per primo il Petrarca). Cynthia, non credibile domina di un servitium amoris improntato alla follia (insania – nequitia), ha qualcosa di metafisico che la contraddistinguerebbe: non poteva essere una meretix, da poter accostare alle frammiste elegie (apparentemente) in onore di Augusto. Cynthia è uno dei nomi della “luna” (la luna piena del primo ciclo). Properzio soffrì la Romana Discordia, un suo parente (in realtà suo padre), fu assassinato al termine della guerra di Perugia (marzo del 40 a.C.). Certe similitudini sembrano ripetersi, benché un poeta pagano non potesse avere alcuna cognizione del cristianesimo, nonostante la IV egloga di Virgilio. Omnia vincit Amor.
Il motto augurale di Francesco era Pace e bene.11 Nell’affresco del Sacro Speco di Subiaco – che lo rappresenterebbe quando non era stato ancora ufficialmente canonizzato da Gregorio IX (1228), e molto probabilmente quando Francesco era ancora in vita (l’affresco rimonterebbe forse all’anno 1223)12 e allorché non aveva ancora ricevuto, quale segno del Dio vivente, le stimmate alla Verna – il ritratto di “frate Francesco” si presenta in parte sì e in parte no, conforme alla successiva descrizione fisica e psicologica che fece di lui il biografo Tommaso da Celano nella Vita prima (risalente al 1228), a prescindere dal particolare degli occhi (azzurri nel dipinto) e dal colore dei capelli (ondulati e sul biondo)13. In questo “murale” benedettino, frate Francesco – con la barba e colcappuccio,14 sorregge la scritta pax inhuic domo.15 In una elegia di Properzio si afferma – quasi allo stesso modo – che amore è un dio di pace.16 Amor, non Caesar, deus est. I resti della “casa” di Properzio si troverebbero sotto la chiesa di Santa Maria Maggiore, al tempo di San Francesco, e già molti secoli prima, sede storica del vescovado di Assisi. E’ in questa piazza, in questo medesimo luogo, che Francesco fa la sua scelta coram populo, abbracciando la sua vocazione e rifiutando suo padre, come nel bellissimo affresco di Giotto. Dio è Amore. Ma Properzio forse intendeva dire – di nascosto – pressappoco la stessa cosa: Amore è pace, amore è Concordia. Un grande amore. Non per Cynthia, che è una “creatura” immaginaria, con l’illusione della verosimile “concretezza”, ma perennemente sfuggente.
Secondo alcune fonti, appena rivestito il “misero abito dell’ortolano”, gettatogli addosso dal vescovo Guido per ricoprirne le nudità, subito dopo questo suo gesto clamoroso, Francesco si avvia a piedi verso Gubbio, araldo del gran Re. Quando (era il mese di febbraio), alcuni furfanti, sentendolo cantare a squarciagola, in provenzale, lo assalgono, e povero in canna com’è, lo gettano per sberleffo in una fossa piena di neve. Madonna Povertà fu un Grande Amore.
Un passo affine si legge, in buona sostanza, nella Consolazione della filosofia, il capolavoro letterario di Severino Boezio, scritto nel carcere di Teodorico, in un misto di prosa e poesia, dove si argomenta, in modo filosoficamente profondo e serrato, in una mistura di platonismo e di cristianesimo, sull’imperturbabilità dello spirito oltre la fragilità della carne e sulla perfezione dell’anima rispetto ai mali della vita.
Il mistero poetico di Properzio, solitamente inteso in un’altra maniera, sembra invece incentrarsi sull’evocazione sistematica della luna, Cinzia mutevole in amore.
E’ possibile, se non probabile, che il Callimaco romano abbia nascosto nelle sue elegie (quanto resta della sua opera unica), qualcosa di “misterioso”, giocando anche sui simboli della luna e del sole. Questi stessi simboli compaiono nel Cantico delle Creature, si dice composto a San Damiano, ove è stata ritrovata una lapide umbra che consacrava questa terra irrigua e felicemente declinante a valle, a Herentas – Cerere, dea delle spighe e a Fiso Sanco – custode dei patti e dei confini. Queste stesse terre appartenevano a Properzio (e ai suoi “discendenti”). San Damiano, un antico santo guaritore, è il primo luogo francescano e il luogo della Clarisse. Il “crocefisso” 17di San Damiano proveniva dalla vecchia basilica “ugoniana”: l’antica chiesetta, poi caduta in rovina, lo custodiva da tanto tempo. Bernardone possedeva terre anche a San Damiano. Qui fu composto il “Cantico delle Creature”, negli ultimi anni di vita del Santo. Amore grandissimo. Un viridarium, con 96 specie di uccelli, fu riportato alla luce da Fioravante Caldari, nel 1949, a seguito di certi suoi scavi nelle profondità della chiesa romanica del Vescovado, che era sorta, in origine, sui resti della c.d. domus Musae. La famosa predica degli uccelli – una leggenda, un simbolo, o un fatto reale – riporta all’indovino “Melampo”, citato di sfuggita da Properzio (però capace di comprendere il linguaggio degli animali, in particolare degli uccelli).
5* Fatto è che i simboli del sole, della luna e delle stelle appaiono nel lunotto incorniciato dal portale(figg. 1 e 2) del duomo romanico di S. Rufino, databile (come vedremo) verso il 1189, e ricompaiono (insieme al fuoco, all’acqua e al vento), nello splendido monumento poetico del Cantico delle Creature, composto da Francesco nell’ultimo e difficile periodo della sua vita, il cui incipit sembra ricalcare l’incipit delle Confessioni di Sant’Agostino che ripercorreva i medesimi salmi ai quali si ispira l’Altissumu, onnipotente, bon Signore ,/ Tue so’ le laude, la gloria e l’honore / et onne benedictione. Un passo dell’Apocalisse, così recita: Benedizione, onore, gloria a Colui che siede sul trono e all’Agnello, nei secoli dei secoli.
Matteo Paris, seguendo Ruggero di Wendover, dà una versione apocalittica della predica agli uccelli: E vidi un angelo, levato nel sole, gridare con voce forte e dire a tutti gli uccelli che volavano nel cielo: venite e radunatevi al gran banchetto di Dio; mangiate la carne dei re, la carne dei tribuni, la carne dei superbi, la carne dei cavalli, e dei cavalieri, la carne dei liberi e degli schiavi, deipiccoli e dei grandi (Ap 19, 17 – 18). Ipotizza Le Goff che la versione di Ruggero di Wendover fosse quella vera a proposito dell’episodio della “predica agli uccelli”, che sarebbe avvenuta di ritorno da Roma, dopo l’udienza papale (1210). Francesco aveva cercato di parlare con Innocenzo III non solo rivelandogli i suoi intenti, ma anche ammonendo la Chiesa dal non distaccarsi da Cristo. Madonna Povertà era la regina del deserto. Madre antica dei veri figli di Dio.
Fig. 1
FIG. 2
Lunula in “pomato” rosso del grande portale centrale
Il campanile del Duomo di San Rufino – posto in prossimità dei resti dell’abside di una precedente chiesa – forse dell’XI secolo, ma è possibile che il precedente edificio sacro, cioè il vecchio duomo, risalisse più indietro, a epoca carolingia, innalzato ulteriormente e quindi collocato adesso accanto alla maestosa facciata romanica – è direttamente appoggiato sulle volte monumentali di una magnifica costruzione di età umbro-romana, chiamata cisterna (per la raccolta delle acque) da un’iscrizione, che ricorda altresì la magistratura umbra dei marones, mentre tale primitiva struttura, facente parte di un complesso, sembra possedere tutte le caratteristiche e le fattezze architettoniche di un tempio, o comunque di luogo di culto, probabilmente dedicato alla Buona Madre (quindi, anche, a un’acqua salutare, sancta et regia, già evocata dalla presenza a valle delle antiche terme umbre di “Santoraggio”, le cui proprietà terapeutiche erano ancora note nel medioevo e persino nelle epoche successive, sia con riguardo alla gorga o conca del parlascio, vale a dire l’incavo dell’anfiteatro romano soprastante il Duomo, utilizzato nel medioevo per la tintura delle stoffe, che per acque termali di “Moiano”, un antichissimo toponimo).18 L’iscrizione che ricordava alcune coppie di “maroni” (i lavori si prolungarono per alcuni anni), menzionava anche un Rufus (Ner. Capidas C. f. Ruf.). La “leggenda” di San Rufino, ipotetico episcopus di Assisi in età pagana (il cristianesimo in Assisi è una presenza tarda), deriverebbe da questo suggerimento, ovviamente riconnesso alla presenza cristiana, nel medesimo luogo (tempio di Bona Mater), di un piccolo edificio sacro riciclato.
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Fu nell’alto medioevo, e poi appena dopo il Mille, che sorse l’esigenza di garantire ad Assisi radici cristiane meno recenti di quanto la città pagana non avesse tollerato, almeno fino al 367 d.C. e molto probabilmente anche quasi all’epoca di Teodosio I il grande (pressoché insistenti le lapidi cristiane locali).
Le radici “religiose” di Assisi, prima città “umbra” e poi in seguito municipio “romano”, erano già solide. Il cristianesimo vi penetrò tardi, senza segni vistosi, nel V secolo avanzato. Assisi è una della pochissime città antiche a conservare segni di riconsacrazione dei luoghi pagani di culto secondo il codice di Teodosio (una raccolta di editti precedenti, compilata nel 438 d.C. da Teodosio II).
I due esempi seguenti, presenti nei dintorni o vicinanze della zona del duomo, ne forniscono la prova evidente. Si tratta chiaramente di segni di croce, incisi di antichi travertini di templi pagani (nella zona di Santa Rosa,‘archeologica’ per eccellenza, ma pressoché inesplorata: il primo e l’ultimo fu l’Antolini, ai primi dell’800, e in un possente travertino riutilizzato, nel XII secolo, per il c.d. arco di Tancredi).
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Croce di riconsacrazione in un travertino dell’Arco di Tancredi
Altro esempio evidente della zona archeologica di S. Rosa
6* In Assisi acqua e fuoco, l’acqua azzurra o blu della luna e il rosso ardente del fuoco solare al monto del tramonto, rappresenterebbero i simboli ‘viventi’, affini e coniugati si leggono nella faccia crinita dei leoni che ornano alcune antiche fontane.
Ed è il ciclo vitale delle stagioni, l’idea originaria che la natura consista di opposti funzionali al suoi cicli, come l’acqua e il fuoco, ovvero il sole, le nuvole e la pioggia.
Queste antichissime pietre rappresentano una continuità, là dove lo Spirito sembra arcanamente farla da padrone. Accade identica cosa con gli altorilievi della facciata “profetica” del duomo.
Gli occhi del giovane Francesco si soffermarono ammirati sulle sculture del portale del Duomo nuovo, dove egli era stato battezzato? Sentì, di nuovo, la voce dell’antico Maestro, Rufinus, il grande teologo, quando all’inizio della sua crisi s’interrogava su quel che avrebbe dovuto fare di se stesso? Il Maestro gli lesse, da ragazzo o da adolescente, dopo essere tornato ad Assisi, trovando l’ultima dimora della vecchiezza, qualche pagina del De Bono Pacis? Potrebbe essere avvenuto verso la fine del secolo, e Magister Rufinus era già morto all’epoca della guerra di Perugia (1202). Francesco aveva allora 20 o 21 anni.
Le pietre sacre di Assisi potrebbero ancora ‘narrare’ gli estremi di questa storia, una vicenda incredibile o forse molto più credibile di quanto sembri a primo giudizio, in un’enunciazione apparentemente ‘fantasiosa’ (ma il Fortini si era molto incuriosito alla grande figura di Magister Rufinus, e fidandoci di lui, del suo formidabile intuito, crediamo che il grande canonista dell’Università o Studium di Bologna non solo ebbe stretti rapporti con Federico I Barbarossa, sebbene nulla si desuma dai documenti, ma fu anche vescovo di Assisi, almeno circa all’epoca della nascita di Francesco, per occupare poi la cattedra di Sorrento (1186): l’episcopato ‘assisiense’ di Magister Rufinus, verso i 50 anni di età, è forse meno fantasioso di quanto gli storici siano attualmente disposti ad ammettere).
L’ipotesi, oltremodo suggestiva, che andremo colorando in queste pagine, lungi dall’essere un puro ricamo di fantasia, potrebbe al contrario rivelarsi di sorprendente semplicità ed evidenza. Occorre un po’ di pazienza, ma stiamo toccando rapidamente aspetti delicati che impegnano da vicino la Storia con la ‘esse’ maiuscola, non fosse altro per riguardo a San Francesco.
Stiamo seguendo il ‘metodo indiziario’ e ci facciamo trasportare anche dalle ‘suggestioni’ che emanano dai meravigliosi dettagli del portale del Duomo. Non solo: stiamo cercando di ragionare su tracce oggettive, particolarmente ‘significative’. La verità ha per così dire i suoi sentori, i suoi effluvi; del resto ci troveremmo davanti al vuoto pressoché totale della mancanza d’indagini critiche serie e appropriate, giacché il magnifico portale del duomo non è stato studiato mai a fondo, ad eccezione di Franco Prosperi, che individuato caratteri gioachimiti.
La mancanza di studi, non colmati da una recente monografia collettanea del post terremoto (dopo il 1997), lascia trasparire che nessuno si è mai azzardato all’impresa di poter comprendere e anche razionalizzare il preciso contesto – storico e artistico – che avrebbe “generato” questo insigne “monumento” (ci riferiamo al portale). Ciò dipendendo da errori precedenti e dal condizionamento derivante da alcune fonti che in realtà non sarebbero attendibili nella misura in cui a esse si è fatto solo e sempre riferimento, senza considerarne il carattere ‘favoloso’ oppure non cogliendone i nessi nascosti o trascurando i fatti ‘sottaciuti’. Ad esempio, la notizia epigrafica che l’altare del duomo sarebbe stato consacrato da Gregorio IX nel 1228 (in occasione della solenne canonizzazione ad Assisi di San Francesco), potrebbe ‘nascondere’ alcuni fatti, anziché lasciar ‘intendere’ che la chiesa non fosse ancora officiata: le aquile federiciane dell’abside non sono quelle di Federico II, ma quelle di suo padre o meglio ancora di suo nonno (rispettivamente Federico I Barbarossa ed Enrico VI).
Questa “impronta imperiale” significa molte cose, ed ha carattere primario, decisivo e dirimente. E’ impossibile trascurarla o fingere che non esista. Il resto viene dopo, e di sicuro non ci si può fidare di ciò che sarebbe stato attestato o erroneamente ricavato da documenti precedenti o successivi, di dubbia affidabilità oppure di non serena interpretazione.
Secondo lo storico Franco Cardini (“Casteldelmonte”, un libro sulla reggia “mistica” di Federico II, ed altresì “Carlomagno”, pag. 20), nulla vieta allo storico di utilizzare con intelligenza e buon senso i se e i ma. Sosteneva G. Duby che è dello storico supplire con l’immaginazione la “carenza” di documentazione. Secondo altri (ad es. U. Bartocci), il compito dello storico autentico, più che di restare impigliato tra le piccolezze confuse della lettera che uccide, resta sempre quello di cercare di rintracciare l’esile filo della verità vagliando tutto l’insieme dei segni che gli provengono da tempi lontani, avendo come unici strumenti a sua disposizione la propria libera ed autonoma ragione ed il criterio di verisimiglianza, i soli che gli permetteranno di individuare i nessi significativi, sottolineare le coincidenze eccezionali, stabilire una trama convergente di dati sulla quale fondare delle ipotesi, e successivamente confrontarle tra loro, cercando di determinare la maggiore o la minore probabilità.
I mysteria vanno oltre i documenti storici, e la storia ne è piena. Per nostra fortuna, questa volta il “documento” probante ci sarebbe tutto, rappresentato dal portale del Duomo di S. Rufino, sfuggito agli storici dell’arte, e rimasto – per così dire – in un’ombra alquanto ‘sospetta’ per secoli. Il primo ad accorgersene è stato il prof. Franco Prosperi, figlio d’arte. Gliene diamo volentieri atto.
Questo portale del Duomo di Assisi, col suo archivolto che incornicia, altresì, il singolare lunotto,è il documento che vorremmo interpretare, non nascondendo che la questione è comunque difficile e complessa. L’ipotesi di Prosperi consiste nel fatto che le bellissime sculture ad altorilievo e i fregi, in particolare del lunotto e delle due fasce, quella interna e quella esterna, che lo contornano, fatte di differente materiale lapideo di un diverso colore – rispettivamente il rosso di Verona, il pomato rossastro di Assisi, e un marmo bianco antico, dai colori leggermente diversi – corrispondano all’allegoria gioachimita del Decem Salpterium Chordarum19(ipotesi affacciata da Prosperi nel 1968), ma insieme alle otto forme di pace descritte nel De bono pacis da magister Rufinus (mia ipotesi aggiuntiva e complementare).
Si tratterebbe, in primis, delle tre diverse epoche religiose che secondo il profeta calabrese caratterizzerebbero la storia dell’umanità: quella biblica del Padre, quella evangelica di Cristo, e quella finale dello Spirito Santo.
Quest’ultima epoca era considerata imminente, prevista – come si è detto – verso il 1260. Allorché il “francescanesimo”, culminando col movimento dei flagellanti e con Iacopone da Todi (morto nel 1306), conobbe invece la “riforma” bonaventuriana.
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7* Il profeta Gioacchino da Fiore sarebbe rappresentato in uno specifico ancorché minuscolo particolare scultoreo, che si situa a sinistra della base di appoggio dello stipite dell’archivolto, all’interno della nicchia del suo primo eremo di Pietralata, con a lato i suoi due allievi Luca da Cosenza e Raniero de pontio, uno dei quali è seduto intento a suonare una cetra ( fig. 3)20. Tale importantissimo particolare è stato notato da Prosperi (1968), insieme a tanti altri dettagli. Gioacchino sosteneva, infatti, che la terza età – o “terza epoca del mondo” – sarebbe stata caratterizzata da un’ecclesia spiritualis, che sarebbero apparsi viri spirituales – predicatores veritatis ed anche un speciale ordo monachorum in sostituzione del vecchio ordoclericorum; e che, infine, sarebbe sorto un Papa angelicus.
Particolare di “Gioachino da Fiore” e dei suoi due discepoli: uno di essi suona una cetra oppure una “viella”
Nell’Expositio in Apocalypsim siafferma che il monaco genuino nonchiamasua che la cetra.21Le dottrine dell’abate calabrese esercitarono un profondo fascino sugli uomini del secolo XIII, consacrando la fama di un Gioacchino ‘spiritu prophetico dotatus’, come – per bocca di san Bonaventura, nella luce abbagliante del sole paradisiaco – lo ritrae e descrive Dante (Paradiso, XII, 139-141): ...e lucemidallato / accanto il calavrese abate Giovacchino / di spirito profetico dotato.
A questa sorprendente conclusione era pervenuto, nel 1968, lo studioso e artista assisiate Franco Prosperi (figlio del noto scultore Francesco Prosperi),22con una pubblicazione originale, che nel vuoto che caratterizzava la colpevole mancanza d’attenzione verso questa meravigliosa facciata romanica, faceva seguito ad un precedente e isolato lavoro del vecchio canonico del Duomo, don Giuseppe Elisei, risalente al 1893 e caratterizzato da altra impostazione.23
Soltanto nel 1999, con riguardo ai lavori di recupero e restauro per via del terremoto del 1997, è stato pubblicato un organico volume sulla Cattedrale di San Rufino, a cura del prof. Francesco Santucci e con prefazione di Don Aldo Brunacci.24 Vi figurava anche un documentato articolo di Francesca Cristofari, riguardante l’intera facciata, arricchito da un corredo di dettagliate illustrazioni e con esaustivo apparato bibliografico (l’articolo, ben fatto e circostanziato, poneva – in primis – il problema dell’edificazione della facciata, che secondo lo Gnoli sarebbe stata completata entro il XII secolo, e poi degli artisti che eseguirono il complesso scultoreo: i tre portali della base, compreso il lunotto; e la fascia superiore, comprendente i tre rosoni).
La proposta affacciata dalla Cristofari propendeva per l’esecuzione di due diverse mani nella prima fascia decorativa, mentre le lunette dei tre portali, massimamente quella del portale maggiore, sarebbero coeve, e non una realizzazione di datazione precedente, riutilizzata allo scopo (il che del resto sembra evidente, nonostante l’ inconveniente non trascurabile che l’ampiezza del “lunotto” non sembra combaciare perfettamente col suo alloggiamento, giacché si nota chiaramente una sistemazione in pendenza, da destra a sinistra rispetto a chi guarda).
Il lunotto di “pomato” rosso inserito alla sommità interna del portale maggiore
Accenniamo subito a un piccolo particolare di quest’ampia facciata romanica, che articolandosi in tre parti distinte – quella inferiore, quella mediana, e quella terminale, che è cuspidata e che reca un “leone” quale simbolo del Comune di Assisi che ne determina altresì il riferimento temporale a poco dopo il 1210 – sembra riflettere tre distinti momenti per il suo completamento.25
Sull’archivolto sporgente del portale centrale (cioè la fascia mediana ad altorilievo in travertino giallognolo: vedi anche la riproduzione precedente), si notano in alto quattro coppiediballerini allacciati in passi di danza, e, in sommità, ma adesso nella fascia interna inferiore, che ne rappresenta vivacemente le piccole figure mentre raccolgono i frutti all’interno della vigna con i suoi tralci, due acrobati (figura seguente: così si esprimeva la Cristoferi nel citato articolo del 1999), che quasi in assenza di gravità, ricorderebbero, molto da vicino, un passo profetico di Isaia (LX, 8): Qui sunt isti, quiut nubes volant, / et quasi columbae ad fenestras meas ?(Chi sono costoro, che volano come nubi, / e che sono quasi delle colombe alle mie finestre – oppure al mio “colombaio”?)26.
Mentre le quattro coppie di danzatori possono essere ricondotte alle otto specie di pace,27 collegate due a due nella classificazione di Magister Rufinus nel De bono pacis, il particolare dei c.d. acrobati risulterebbe alquanto più incerto, evidenziandone il relativo ingrandimento ulteriori dettagli che – per l’appunto – dovrebbero essere meglio vagliati e appurati in relazione alla simbologia della rossa vinea Domini che li contiene insieme a molti altri interessanti dettagli (fascia interna dell’archivolto, in calcare rosso, apice ‘a cuneo’, immediatamente soprastante il capo di Dio creatore: vedi immagine precedente).
La fascia mediana del portale, sporgente ad altorilievo con le rappresentazioni ‘sculturee’ più importanti, è quella di cui ci stiamo occupando, insieme al lunotto centrale, trascurando tutto il resto, che in particolar modo nel caso della rossastra vinea Domini – ricca assai di particolari minimi e di piccole figure -, si presenta particolarmente originale e interessante, sia nella sua simbologia più realistica che per allusioni allegoriche (come sarebbe nel caso degli “acrobati”, in realtà ‘ebbri di Dio’, pure loro danzanti ovvero trasformati in volatili che non risentono affatto della c.d. gravità o pondus). Un uomo e una donna – i due ‘acrobati’ – sembrano librarsi alla sommità della vigna di Dio, inebriati del succo biblico. Indubbiamente il particolare sommitale della “vigna” e dei “tralci” evangelici, intende esprimere e comunicare qualcosa d’importante, percepibile come ebbrezza sognante, come salvezza spirituale, ma non così importante come le rappresentazioni singole e d’insieme della fascia intermedia ad altorilievo, che componendosi di 12 scene, accoppiate due a due, avrebbe maggior significato.Tuttavia, il particolare dell’eremo di Gioacchino da Fiore, identificato da Prosperi, si pone alla base (in basso, a sinistra di chi guarda), rispetto all’allegoria o simbolismo neotestamentario della “vigna di Dio”.
Indubbiamente c’è un collegamento tra le “tre fasce” del portale, significando quella intermedia l’età (presente) del Figlio, ovvero del Messia, e la fascia più esterna, in marmo bianco, bella ma indefinita, l’età dello Spirito. Le “tre fasce” rappresenterebbero anche il concetto di Trinità, mentre nel lunotto è contenuta, con la creazione del mondo, racchiuso nel suo rotondo e intrecciato mistero, anche l’avvento della Chiesa, rappresentata appunto come “nutrice”.
Particolare degli acrobati nella “vinea Domini”
Giacomo da Vitry – importantissimo testimone del periodo francescano, poi fatto cardinale da Onorio III, che ci racconta, tra l’altro, d’aver assistito allo scempio operato notte tempo da alcuni ladri sul corpo del pontefice Innocenzo III, morto a Perugia il 16 luglio del 1216 ed esposto nel Duomo di S. Lorenzo – alludeva proprio a questo passo profetico di Isaia, per ricordare i Frati Minori. Ed è questo l’inizio del nostro “racconto” o suggestivo percorso in ordine alle meravigliose allegorie della “facciata” del Duomo.
8* Il fondatore della cattedra di Studi francescani presso l’Università di Perugia, oltreché promotore della Società Internazionale di Studi Francescani avente sede in Assisi, è stato il grande avvocato e storico assisiate Arnaldo Fortini.28 Seguirono poi, nell’incarico universitario di “francescanologia” Padre Ilarino da Milano e Stanislao da Campagnola.Quest’ultimo si è occupato dell’ipotesi gioachimita affacciata dal prof. Franco Prosperi, dandone ampio resoconto (pagg. 58-67) nella sua importante monografia intitolata L’Angelo del Sesto Sigillo e l’Alter Christus – Genesi e sviluppo di due celebrazioni francescane nei secoli XIII-XIV (Perugia, 1971).
L’interpretazione gioachimita dei motivi e delle allegorie della facciata romanica del Duomo di S. Rufino suggerita da Prosperi finì per entusiasmare Padre Stanislao da Campagnola, che tuttavia svolse alcune eccezioni critiche, che indubbiamente meritano di essere ripercorse, dopo aver provveduto alla descrizione della facciata stessa utilizzando, in parte, alcune annotazioni riprese dal Fortini (Vita Nova, vol.V, pag. 37 ss.).
Anzitutto, la facciata è divisa in tre piani o livelli. Il primo, dove si aprono le tre porte del Duomo; il secondo, ornato dai tre rosoni; e il terzo (quello più elevato), formato dal timpano triangolare, con un grande arco cieco ogivale. La porta centrale è sormontata da un architrave(figure precedenti), sul quale è posta una lunetta, che per le sculture primitive che l’adornano è stata ritenuta opera già appartenuta alla vecchiabasilica ugoniana (così il Fortini). In essa si vede Dio padre coronato29, con un triplice nimbo intorno al capo, seduto in trono fra la luna, il sole e le stelle, in atto di additare alla sua destra la vergine incoronata che allatta un bambino,stringendo al petto il libro della creazione. A lato, sotto l’immagine di San Rufino,identificabile nelle sue vesti vescovili, compare unatesta che si vuole sia quella di San Cesidio martire, figlio di San Rufino. Ai lati del trono della vergine sono duealtre teste mozze, che vengono ritenuteper quelle di San Marcello ed Esuperanzio, i diaconi martirizzati in Assisi nel secolo IV (così sempre il Fortini).
Sennonché la seconda testaè chiaramente femminile. Infatti così appare, in tutta evidenza, dall’ingrandimento elettronico – ottenuto al computer – delle riproduzioni fotografiche eseguite da Marco Francalancia. Anche Prosperi (1968) si era accorto di questa singolarità, identificando – nel serto che orna la testa femminile – un esemplare appartenuto a Costanza dall’Altavilla, conservato nel Museo normanno di Palermo.
La testina femminile (particolari nelle figure sottostanti) presenta, sulla chioma, un serto imperiale, che non può essere in alcun modo confuso con l’aureola dei martiri cristiani.
Si tratterebbe dei volti “augusti” di Enrico VI e di Costanza d’Altavilla, sposata dal figlio dell’imperatore Barbarossa nel gennaio del 1186 a Milano (il Manselli attesta la presenza in Assisi dell’Imperatore Federico I Barbarossa alla fine del 1185, che qui sostò in attesa della promessa sposa, erede della monarchia normanna di Sicilia, per scortarla a Milano).30
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I ritratti o “testine” presenti nel lunotto non sono sicuramente le riproduzioni degli immaginari martiri del IV secolo d.C. o del “figlio” di San Rufino che non fu “vescovo e martire” di Assisi. La concretezza dei dettagli esige un’identificazione storica precisa, da contestualizzare all’epoca stessa dell’esecuzione del lunotto, e cioè al tempo di Enrico VI. Anche perché c’è rassomiglianza tra l’effige dell’imperatore rappresentata a Bevagna, e questa prima testina maschile. Molto probabilmente le due immagini risalgono a quando ad Enrico IV era stata affidata da Federico I suo padre, la reggenza imperiale (1189), poiché il Barbarossa si era diretto alla quarta crociata, che non raggiunse la meta, limitandosi a conquistare Costantinopoli nel 1204, così fondando il regno crociato d’Oriente. Federico I morì affogato nel 1190, in circostanze non chiare.
Particolare del “serto” della testina femminile rappresentante Costanza d’Altavilla
In luogo della riproduzione della supposta testina di “San Cesidio” andrebbe invece visto il ritratto (figura sottostante) di magister Rufinus,31 che sarebbe stato l’ispiratore della complessa allegoria dell’intero portale, compreso il bellissimo lunotto in ‘rosso di Verona’ oppure in ‘pomato di Assisi’, che non è affatto rozzo, come si sostiene, e che peraltro è caratterizzato dall’insistente uso del trapano, anche nella bellissima veste regale della Madonna lactans (che sembrerebbe quasi richiamarsi ad immagini ereticali, se non si trattasse, invece, dell’allegoria della Chiesa 32nutrice dei fedeli), che testimonierebbe così la “mano” di Pietro Vassalletto, il quale non solo usava frequentemente questa tecnica di traforo, ma continuò a farne impiego in molti altri particolari figurativi del portale.33
Così prosegue il Fortini: Intorno alla lunetta gira l’archivolto, ove si intrecciano elegantemente due racemi, nei cui spazi si succedono, due a due, minuscole figurine vestite di una corta tunica succinta alla vita, volatili, quadrupedi, fiori: al principio della decorazione, a sinistra, un uomo è seduto in trono (forse l’imperatore), mentre una figurina si inginocchia ai piedi dell’altra, in segno di omaggio ( fig. 3).
Qui la descrizione del Fortini si è fatta approssimativa, ha perso di dettaglio e in chiarezza. Ingloba e omogeneizza, in rapidissima sintesi riduttiva, un vasto sfondo rappresentativo, in realtà assai più ricco e articolato.
Fortini si riferiva promiscuamente alla fascia esterna in marmo bianco, alla fascia interna in ‘pomato’ rosso che rappresenta una ricchissima vinea domini, mentre nella fascia mediana ad altorilievo del portale, che è quella di maggior interesse scultoreo e rappresentativo, figurano ben dodici riproduzioni scultoree contornanti il semianello.
In tutto, la facciata presenta circa trecento particolari, sculture e bassorilievi, tutti quanti di pregevolissima fattura.
Ma trascurando questi magnifici particolari, vale la pena di osservare che l’uomoracchiuso nel suo piccolo riparo – o capanna – è proprio Giacchino da Fiore, con due discepoli che suonano l’uno la cetra e l’altro – quello inginocchiato o meglio ricurvo – uno strumento musicale a manovella (fig. 3), probabilmente una “ghironda” o “viella”, come mostrerebbero i forti ingrandimenti elettronici qui non esibiti.
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Passando invece alla fascia mediana, l’imperatore (rectius il biblico Re David) è effigiato nel secondo altorilievo della fascia mediana in travertino giallo a partire da sinistra (vedi figura), dalla cui base si dipartono a giro dodici rappresentazioni diverse, tutte quante del massimo interesse, tra cui le quattro coppie di danzatori, che sembrano appunto raffigurare simbolicamente le otto specie di paceclassificate da Rufino a coppie reciproche (ad es. la pace di Dio con gli uomini e quella degli uomini con Dio).Il Salmo 150 invita a lodare Dio nel clamore del corno, con l’arpa e con la cetra e persino col tamburo e con la danza. E’ noto che San Francesco, rapito dall’entusiasmo e dalla dolcezza mistica, si accompagnava talvolta, cantando e ballando, con un bastoncello usato a mo’ d’archetto. Può darsi che rimontando il portale della Cattedrale a quando Francesco era bambino, ciò che egli vide raffigurato nelle pietre, gli si sia vivamente impresso.
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Riportiamo in dettaglio l’immagine che rappresenterebbe magister Rufinus, amico di Gioacchino da Fiore, cioè quella testina posta in basso, a lato dell’immagine molto più grande di san “Rufino”, rappresentato con l’Evangelo appoggiato sul petto e la palma del martirio, e l’immagine portentosa di re David, mentre sta suonando la cetra a 10 corde. Quest’ultima immagine, ripresa da angolature opposte, risalta nella sua bellezza, inspirata e solenne, preceduta da un primo altorilievo, che non rappresenta un angelo bensì una severa figura profetica.
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Ciò rende appena un’idea della ricchezza e della grande bellezza delle sculture del duomo di Assisi, praticamente sconosciute per una città di grande fama religiosa e artistica come Assisi.
Testina di magister Rufinus, autore del De Bono Pacis, consonante a “san Rufino”
Il biblico Re David, capostipite del Messia, nell’atto di suonare la cetra a 10 corde, preceduto da un “profeta”
Figura profetica che apre le 12 rappresentazioni ad altorilievo dell’archivolto a partire da sinistra di guarda
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9* Passiamo adesso alla descrizione della facciata fatta da Prosperi nella sua prima pubblicazione del 1968. Egli mette subito in evidenza il secondo altorilievo dall’archivolto del portale (fascia mediana in travertino giallastro, fortemente rilevata rispetto altre due ), chiarendo che a suo avviso si tratta del biblico Re David assiso in trono, intento a suonare un salterio a dieci corde (cfr. Salmo 144, 9: ODio, ti canterò un canto nuovo, / con l’arpa a dieci corde a te inneggerò).
D’accordo con Prosperi, che è stato il primo a comprendere l’importantissima rappresentazione scultorea, ci sembra che questo altorilievo sia veramente una delle chiavi principali per decifrare l’intera facciata. L’abilissimo artista esecutore dell’intera opera (ci riferiamo al portale principale della facciata), riesce a catturare, con eccezionale evidenza, l’agile e trascorrente movimento delle mani di David, suggerendo magnificamente bene l’intonazione musicale dell’intera cornice delle 12 rappresentazioni. Si tratta di un artista particolarmente abile e inspirato, capace di finissimi lavori al trapano, appunto richiesti dalla particolare impostazione dell’opera a rilievo, disposta su un portale a cornice rotondeggiante .
Questa figura ad altorilievo è della massima importanza, sia in relazione al passo biblico, cui può essere chiarissimamente riferita (Mio dio, ti canterò un cantico nuovo, / suonerò per te sull’arpa a dieci corde / ate che dai vittoria al tuo consacrato, / che liberi Davide tuoservo ), che per quanto concerne gli innegabili tratti stilistici afferenti all’individuazione degli esecutori, che erano degli artisti di grande qualità.
La fascia in travertino degli altorilievi del portale prosegue con tutta una serie di raffigurazioni in cui compaiono quattro coppie danzanti (ed anche i due ‘acrobati’ di cui si è già detto). Vi figura un angelo, che accompagna verso la luce (proteggendone la fronte) il nuovo Adamo, con una veste riccamente trapunta. Seguono (a destra del giro) due donne che tengono in braccio i due loro figli, uno di questi già cresciutello e ignudo, insieme con un angelo ‘turibolante’. Potrebbe trattarsi di Gesù e di San Giovanni, ma anche dei due nuovi ordini monastici profetizzati da Gioacchino da Fiore. In questa analogia non vi è nulla di antinomico. Anzi, il “discorso” suggerito da un grande maestro di preclare virtù teologiche, ha qui trovato altrettanta maestria negli esecutori artistici, che non potevano non essere delle figure di primo piano. Lo si può constatare de visu dalle riproduzioni che aggiungiamo:
L’interesse di Prosperi si appuntava, in particolare, sull’occhio del piccolo rosone di sinistra, che rappresenterebbe – ante litteram – l’angelo apocalittico “bonaventuriano”, recante il segno del dio vivente (la croce), e sorprendentemente faceva rilevare che le scritte didascaliche che accompagnano i simboli dei quattro evangelisti, ai lati del rosone principale, risultano specularmente invertite, come se appunto fuoriuscissero da un medesimo raggio centrale di luce, promanante dal centro del rosone stesso (però oggi privo del suo occhio: vedi precedente figura ad hoc).
In realtà vi sono tantissimi altri particolari della “facciata”, compresi i tre ‘telamoni’ appoggiati su bestie apocalittiche, che con facilità sembrano “sorreggere” il grande rosone centrale. Restando il problema degli esecutori del portale centrale, e della fascia superiore mediana, che potrebbero essere diversi: a nostro avviso la maestria dei lapicidi del portale e del lunotto (opera certamente collettiva, sebbene sotto accorta direzione), rimane insuperata; i lavori “scultorei” della ricca cornice e della fascia mediana, comprendente gli elegantissimi rosoni, sono di altra scuola, più recenti anche in ordine di tempo. Il vero capolavoro è l’esecuzione inspirata dell’archivolto ad altorilievo, per cui non si potrebbe avanzare altra candidatura, che quella magistrale dei Vassalletto.
Li dobbiamo trascurare, rinviando direttamente ai tre citati libri del prof. Prosperi, che trattano diffusamente di ogni particolare.
10* Poiché la pubblicazione di Prosperi del 1968 riportava sulla sua copertina, in inchiostro rosso, la scritta di un’antica lapide che è conservata nel Museo del Duomo, resa oscura nel suo significato dalla presenza di un doppio “nominativo” latino che vi figura, la riproduciamo nell’eventualità che qualche lettore sappia venirne a capo (facendo presente che circa un secolo fa, due studiosi locali, il prof. Venarucci prima, poi l’architetto Brizi, tentarono invano di restituirle un senso, sul presupposto che le lettere B. R. che vi figurano, si riferissero al beato Rufino primo “vescovo” e “protettore” della città di Assisi, cui la cattedrale è dedicata ).
La scritta (che riportiamo per intero senza gli abbreviativi che la caratterizzano), è la seguente: Contra Morsum Venenosum B. R. Caro Reducat Monachus.
Gli scenari ipotizzati dai traduttori del secolo scorso sono rispettivamente quello del culto di san Rufino,anche contro i morsi della vipera, e, che (secondo il Brizi) questa lapide si trovasse nella chiesetta di Fossa “Caroncia” (un toponimo assisano), di cui non vi è però traccia. In particolare, Fossa Caroncia starebbe a significare il luogo di sepoltura comune dei morti appestati, lungi dal centro abitato. Altro scenario ipotizzabile è quello di una scritta d’avvertimento per i monaci benedettini, con i rimedi da praticarsi contro il morso velenoso delle vipere del monte Subasio. Altro scenario potrebbe essere quello della grande testa di serpente (“chiave di volta” del portale), che è presente sull’apice dell’archivolto che abbiamo descritto.
Avvertendo che la ‘erre’ di questa enigmatica scritta è percorsa dal basso verso l’alto da una ‘esse’ che la attraversa tutta (col possibile significato di un “abbreviativo” del tipo res o rex), sarebbe dunque interessante conoscere l’opinione di qualche introdotto lettore, non senza avvertirlo che la scritta posta sulla facciata della bellissima chiesa di S. Silvestro a Bevagna34 (la “nebbiosa” Mevania di Properzio), risalente al 1195 (Enrico imperatoreregnante), si riferisce a un ‘Binellus magister’ quale esecutore dell’opera (questi e altri dettagli, sempre presenti in Prosperi, che indubbiamente ha compiuto un eccellente lavoro).
11* Sull’abside dell’attuale Duomo romanico di San Rufino figura la seguente scritta in ottonari rimati: Anno Domini milleno / centenoque quadrageno / ac in quarto solis cardo / suum explet illo anno / domus haec est inchoata / ex sumptibus aptata / a Rainerio priore / Rufini Sancti honore / eugubinus et ioannes / huius domus qui magister / prius ipse designavit / dum vixitque edificavit.
Il significato palese di questa lapide è che la chiesa di San Rufino fu rifattaex novo, a partire dal 1140, mese di aprile,eliminando le preesistenze di una vecchia basilica, di cui è rimasto solo il basamento del campanile: il priore Rainerio finanziò i lavori, eseguiti daGiovanni daGubbio, che vi lavorò finchè visse. E’ questa la “ragione” per cui si attribuisce la fabbrica del Duomo di Assisi all’architetto Giovanni da Gubbio, senza considerare, tuttavia, il lungo tempo occorso (il Brizi fu il primo a sollevare il problema). Tra l’altro, l’abside della nuova cattedrale è segnata da aquile imperiali, vale dire “federiciane” (e non quelle di Gregorio IX, come nella facciata della basilica superiore di S. Francesco).
Perché ad Assisi si decise, alla metà del XII secolo, di rifare ex novo la basilica “ugoniana”? Fu a causa di un sisma distruttivo, analogo a quelli del 1831 e del 1997, oppure per altre ragioni? Anche i lavori di riadattamento della chiesa vescovile di Santa Maria Maggiore furono eseguiti da Giovanni da Gubbio, recando la relativa epigrafe la data certa dell’anno 1162. E’ da ritenere probabile un fatto sismico, gravemente distruttivo, che impose il rifacimento delle chiese della città, oppure fu un deliberato disegno edilizio, realizzato a tappe, secondo disponibilità finanziarie?
La lapide commemorativa della fabbrica del Duomo di San Rufino è stata apposta molti anni dopo l’inizio dei lavori, non nel 1140; qui si deve ipotizzare che autore della stessa, che ricordava l’attività iniziale del priore Rainerio, e i primi lavori architettonici di Giovanni da Gubbio (quindi almeno fino al 1162), sia stato proprio Magister Rufinus, alcuni decenni dopo, essendo stato vescovo di Assisi negli anni intorno alla nascita di San Francesco (1181-1182), sebbene ciò venga, oggi, escluso dagli storici locali, sostenendo che Rufino non ebbe nulla a che fare con la nostra città.Viceversa,l’opinionedi Don Aldo Brunacci e di Giuseppe Catanzaro era stata quella che almeno per qualche tempo, certamente prima del 1186, tale fosse stato (ciò in base ad un’attestazione di repertorio dove egli stesso si sottoscrive nella lista dei vescovi della Provincia Romana, avendo tenuto nel 1179 il discorso d’apertura del Concilio Lateranense III). Mancando l’elenco dei vescovi di Assisi, autentica lacuna che si spalanca soprattutto per tale periodo, non è possibile una dimostrazione diretta, desumendosi tuttavia da altre fonti parallele che il suo episcopato ad Assisi avesse almeno coperto il 1179 e 1180. Il che includerebbe una certa vicinanza a Federico I Barbarossa, e un ruolo importante nei rapporti politici e religiosi tra papato e impero. Nel periodo di completamento dei lavori nell’abside del duomo di Assisi, magister Rufinus era il vescovo della città imperiale, dove sorgeva un importante castello federiciano (la Rocca Maggiore). Quindi, i lavori di completamento del duomo, abside e facciata inferiore, portale compreso, furono iniziati e terminati pressappoco in questo periodo, nell’arco di un decennio. Per cui magister Rufinus potrebbe essere stato colui che concepì in origine l’impianto teologico delle complesse allegorie della facciata, realizzate in un secondo momento, ma finanziate dal Barbarossa, che vi appose il suo sigillo, considerandolo un monumento imperiale (da qui le tre aquile dell’abside, che guarda a oriente, e i ritratti del lunotto).
L’ispirazione teologica di una mente raffinata e superiore come quella di Rufinus, il cui nome si attagliava al santo protettore, e alla importanza del monumento, sembra effettivamente presente. Non solo: la visione allegorica, magnificamente eseguita da artisti di prim’ordine, corrispondeva alle concezioni teologiche di Gioacchino da Fiore, e, parimenti, al Bene della pace secondo il capolavoro “rufiniano”, in cui teologia, letteratura e pensiero politico facevano registrare una grandiosa sintesi spirituale. Rufino dettò anonimamente i versi “ottonari” di quella lapide commemorativa, nella consapevolezza documentaria, mentre le “aquile imperiali” non abbisognavano di altro commento.
La chiesa poteva essere officiata, la basilica ugoniana era stata eliminata da tempo (non appena riadattata da Giovanni da Gubbio la cattedrale originaria di Santa Maria Maggiore). L’enigma complessivo del nuovo duomo troverebbe adesso una spiegazione razionale, peraltro all’altezza della fabbrica imponente e del valore artistico delle decorazioni.
Per completezza, dovremmo sviluppare anche lo scenario alternativo di un evento catastrofico.
Verso il 1140 ad Assisi, colpita da un terremoto, iniziarono i lavori per la nuova cattedrale; quella dovuta a “Ugone” aveva ceduto, e quest’attività impegnò le maestranze di Giovanni da Gubbio. La basilica “ugoniana”, sorta malamente sulla parva basilica proto-medievale, sarebbe stata la più colpita, necessitando d’un rifacimento totale del corpo basilicale, mentre il campanile, posto accanto all’abside, aveva resistito. Oppure, viceversa, nel secolo precedente, e cioè dopo il 1029, anno di inizio dell’episcopato di Ugone, ovvero delle sue prime attestazioni, sul presupposto che il vescovo Ugone avesse riparato, a sue spese, la parva basilica, ampiandola, anche se nulla di tutto ciò fu riportato da Pier Damiani,35 non per questo l’ipotesi sismica verrebbe meno. In tal caso Ugone si limitò al recupero di una chiesa precedente, probabilmente risalente ad età longobarda o carolingia.
La nuova basilica “ugoniana”, presupponendo che Pier Damiani stia raccontando fatti appena precedenti, cioè avvenuto poco dopo la morte di Ugone (altro problema temporale), segnerebbe un momento di riappacificazione tra le fazioni religiose cittadine, conciliando il culto di san Rufino con la chiesa madre della città (il Vescovado), senza divisione delle spoglie del santo (quando un altro passionario attesta un san Vittorino come vescovo delle origini, altrettanto importante e venerato, almeno in età longobarda).
Ma torniamo allo scenario sismico del 1140. Quando i lavori del nuovo duomo erano già a buon punto, Giovanni da Gubbio passò al recupero e all’ampliamento della vecchia Chiesa Vescovile di Santa Maria Maggiore, la più antica chiesa della città. Questo spiegherebbe la continua presenza di Giovanni da Gubbio ad Assisi, “finchè visse”, e anche il trasferimento pro tempore della cattedra vescovile dalla vecchia cattedrale al nuovo Duomo, se ciò non era già avvenuto all’epoca di Ugone o anche prima di lui. Non si vedrebbe altra ragione perché una basilica costruita appena il secolo prima dal vescovo Ugone, dovesse essere interamente rifatta, a meno del cedimento strutturale dei pilastri delle navate. Nell’incertezza delle ragioni che avrebbero condotto al progetto e all’edificazione del nuovo duomo, dall’epoca del vescovo conte Ugone (dopo il 1029), arriviamo a Magister Rufinus in epoca federiciana (un secolo e mezzo dopo), col castello svevo dominante dalla sommità del Colle su cui sorge Assisi (il castello fu diroccato nel 1198, quando anche ad Assisi si manifestarono le prime forme di libertà comunale).
Come risolvere il problema intermedio36 – ma importante – della parva basilica e della basilica ugoniana, in relazione al culto tradizionale di “san Rufino”?
La cripta della c.d. “basilica ugoniana”, oggi restituita all’accesso, sebbene praticabile in parte limitata, evidenzia un’origine più antica delle stesse pitture ornamentali che la riguardano, cioè due affreschi, di cui uno soltanto leggibile, che dovevano rappresentare due santi patroni: san Costanzo, vescovo di Perugia, riconosciuto tale dai Bollandisti; e, molto probabilmente, san Rufino (nell’altro affresco, però irriconoscibile). La giustapposizione dei due santi patroni, la dice lunga sulla necessità di appoggiare un patrono inesistente, come san Rufino, sulla figura più venerata di un patrono forse effettivo, ritenuto pressoché coevo (175 d.C.).37
Il problema trova soluzione ammettendo che dopo la prima chiesa cristiana coincidente con l’episcopio, siano sorte altre chiese, tra cui la parva basilica nella zona del duomo attuale. Ciò è comprovato dalla costante del riutilizzo dei precedenti spazi sacri (culto della Buona Madre). Detta basilica dovette sorgere in età longobarda, lasciando traccia nella cripta originaria, recuperata in seguito nella magna basilica (un rifacimento nel IX secolo). Nel 1140 si avvertì l’esigenza di poter disporre di una chiesa più importante, con l’inizio di una nuova basilica. Ma la chiesa di san Rufino è frequentemente attestata, anche come canonica, prima dell’ipotetico intervento di Ugone, in base a varie pergamene (la prima delle quali risale al 1007). Nel 1134 fu deliberata l’erezione del duomo nuovo, e la distruzione di quello precedente. Per conseguenza, la vecchia sede episcopale che aveva ceduto alla nuova sede di san Rufino, fu riattata e ampliata, aggiungendovi anche il campanile, in precedenza mancante, ultimando detti lavori Giovanni da Gubbio nel 1162 (finché visse). Nessun evento sismico catastrofico, bensì un avvicendamento di ruoli, soprattutto in base alla maggiore densità demografica dei quartieri, e la necessità nell’alto medioevo di avere a disposizione una figura di protomartire che fungesse da evangelizzatore. Il nuovo duomo romanico fu completato, nella sua struttura ed anche nella prima parte della facciata (portale principale), in epoca federiciana. Grazie al vescovo Magister Rufinus, e grazie ai finanziamenti imperiali (ad Assisi risiedeva un importante “misso dominico”, identificabile in Corrado di Lutzen38.
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Questo Rufino, o Ruffino, è il grande canonista, allievo di Graziano, ricordato in tutte le storie del diritto italiano, autore di un famoso Decretum verso la fine degli anni ’60 del XII secolo e altresì autore (insieme a un folto elenco di ‘discorsi’ che si conservano nella Biblioteca Ambrosiana di Milano) del DeBono Pacis, composto all’incirca all’epoca della famosa Pace di Costanza (1183) tra Federico I e i Comuni dell’Italia del Nord.39
Magister Rufinus, che era probabilmente di origini francesi (in tal senso la relativa ‘voce’ dell’Enciclopedia Treccani), era poi passato all’Università di Bologna, sotto Graziano. Il De bono pacis, ri-scoperto e valorizzato da Don Aldo Brunacci e da Giuseppe Catanzaro, a mio avviso appare influenzato dal pensiero della “scuola di Chartres”.
Era un benedettino riformato (mentre Graziano era un camaldolese), che potrebbe aver chiuso i suoi giorni, verso gli ottant’anni d’età, nel Monastero Benedettino del Monte Subasio, dipendente da quello di Farfa. Rufino possiede una cultura sterminata, che giunge ben aldilà del limite standard dell’epoca. La sua è un’impostazione sacramentale del diritto canonico,di matrice ‘grazianea’, che lungi dall’affermazione del potere temporale del Papato, fa invece leva (come appunto nel De Bono Pacis) su principi della pace universale cristiana, che si accostano, in terra, alla santissimaPace di Gerusalemme, contrapposta a quella sacrilega d’Egitto, e a quella mercenaria di Babilonia (è questa, in estrema sintesi, l’articolazione dell’elegantissimo trattato, con la distinzione della pace in otto generi: ricordiamo incidentalmente che secondo un sopravvissuto alle bombe atomiche sganciate sul Giappone nel 1945, L’origine della pace è aver un cuore che comprenda il dolore dell’altro).
Fu papa Gregorio IX, pure lui illustre canonista, a trasformare l’assetto della legislazione della Chiesa dalla precedente impostazione sacramentale in un vero e proprio ordinamento giuridico. E fu questo papa a consacrare, nel 1228 (come ci ricorda una lapide), l’altare del Duomo, che pure era funzionante, molti anni prima, se Francesco e Chiara furono qui battezzati, come Federico II, e se le prime prediche di Francesco, e poi la conversione di Chiara, avvennero in questo “contesto” di fede e d’affluenza di popolo. Segno abbastanza evidenteche il duomo di San Rufino doveva nascondere qualche mistero.
Dove si trovava la casa di Santa Chiara, secondo quanto è dato desumere dagli atti di canonizzazione (mentre non sono stati tramandati gli atti della canonizzazione di San Francesco)?
Il vecchio duomo era ancora officiato quando la fabbrica del nuovo duomo ne reclamava gli spazi?
E’ possibile trovare una ‘soluzione’ a questi e ad altri problemi riconnessi? Perché Gregorio IX (nel 1228: anno della canonizzazione ad Assisi di San Francesco), avrebbe anche consacrato il Duomo nuovo, inaugurandone l’altare? Quanto tempo occorse per il definitivo completamento della fabbrica del duomo, a partire dall’inizio dei lavori nel 1140? Cosa c’era all’epoca di san Francesco e di santa Chiara? Chi eseguì i lavori, e soprattutto chi ideò infine quei capolavori? Abbiamo proposto le medesime domande della nostra “premessa”, dopo aver identificato una prova sicura, da cui ricavare le possibili conclusioni razionali.
Le aquile federiciane dell’abside hanno narrato una storia credibile e documentata, nei limiti delle congetture plausibili.
Tutto il resto dovrebbe essere lfalso e leggendario, e dal sermone XXXVI di Pier Damiani, che ha carattere miracolistico, non si ricaverebbero verità passate o possibilità per il futuro, rimanendo storicamente improponibile la pseudo vicenda di San Rufino “vescovo e martire”, ma non il culto locale di un uomo santo, di nome “Rufino”, che in una certa epoca, dovremmo dire piuttosto tarda, abbia predicato il Vangelo ad Assisi.
Le più antiche memorie dei martiri cristiani sono anch’esse caratterizzate da un’aura di leggenda, che ha pressoché finito per sostituirsi alla realtà. Ciò non significa una serie deliberata di false leggende, ma una vicenda di fede, trasferita in un ambito leggendario, come sempre avviene quando debbano prevalere aspetti psicologici e religiosi su fatti storici concreti e comunque soggetti a diversa complessità.
La stessa cosa può dirsi per il culto dei santi e per le sacre reliquie, secondo i fondamentali studi di Peter Brown e di Charles Freeman. Il ‘dato’ antropologico ha sacrificato il ‘dato’ storico, superandolo e trasformandolo. La stessa cosa è avvenuta per il culto (leggendario) di San Rufino, intorno al quale si è, però, di nuovo riunita la popolazione in età cristiana tarda, così come in età pagana erano stati i culti di Minerva, di Giove e di Giano a promuovere e conservare il sentimento religioso ed anche certe forme di connaturata superstitio che vi si riflettevano in varia maniera e secondo i tempi40.
L’arte e il pensiero hanno conferito alle manifestazioni del culto religioso quella nobiltà necessaria al sostegno del valore effettivo dei più riposti misteri dell’anima. L’istituzionalizzazione delle forme religiose le canalizzava secondo i bisogni civili e morali, rendendole socialmente fertili e condivise. Da qui il significato etimologico del “raccogliere a unità”, del “cementare” insieme gli intenti individuali e i collettivi che il “medioevo cristiano” ha saputo esaltare spiritualmente aldilà degli abusi e degli arbitri. Per cui il duomo romanico di Assisi, che ha preceduto le grandi basiliche francescane, non solo ha rappresentato un modello di fede, ma è stato anche un vertice di espressine artistica, in una antica città umbro-romana risalente all’età del ferro, che aveva già conosciuto in passato un notevole fervore architettonico e un parallelo fervore religioso. Tanto che l’intonazione di Properzio, molto meno profana di quanto si supponga, sembra talvolta anticipare i tempi, nel dato poetico e in quello spirituale.
12* Leggendo il De Bono Pacis si scorgono affinità di pensiero tra Magister Rufinus e Gioacchino da Fiore, che giunsero a conoscersi, anche perché quasi coetanei e ambedue strettamente legati da vincoli personali d’amicizia con Papa Alessandro III (1159-1181), il grande canonista Rolando Bandinelli. Il Decreto di Magister Rufinus (1157-1159) fu composto ancora in giovane età.41 La presenza di Rufino come vescovo di Assisi negli anni della nascita di san Francesco si può spiegare sia con il lavoro diplomatico da lui svolto per la Pace di Costanza, sia col fatto che lo stesso Rufino aveva tenuto il discorso inaugurale del Concilio Ecumenico III, indetto da Papa Alessandro III.
Si trattò di un altissimo onore, del tutto degno del vir clarissimus, titolo che ne accompagnava il nome, accanto a quello di magister.
E’ noto che i quattro dottori – Bulgaro, os aureum’; Martino, copia legum; Ugo, mens legum; e Jacopo id quod ego – secondo quanto tramanda un cronista medievale che mette tutto ciò in bocca a Irnerio, favorirono non poco le ragioni imperiali di Federico I, che poggiavano sul diritto romano.
Certamente non fu di ostacolo Rufino all’imperatore Federico, calato in Italia nel 1154 per la dieta di Rincaglia, e nel 1155 incoronato a Monza, mentre a Roma fece prigioniero Arnaldo da Brescia, consegnandolo a papa Adriano IV.
Il pensiero di “magister Rufinus” volava in alto, verso un’età di riconciliazione e di rigenerazione.
Questi importanti aspetti sembrano spiegare molte cose, anche la presenza del ‘francese’ Rufino in Assisi, città amministrata autonomamente – in via comitale – da Corrado di Urslingen, ultra fidato missus dominicus di Federico Barbarossa, separatamente dal Ducato di Spoleto.Corrado, che aveva sposato una nobildonna di Nocera Umbra, risiedeva stabilmente nel castello di Assisi. Per il suo carattere tipicamente tedesco ed eccessivamente scrupoloso, facile all’ira e al risentimento, gli assisani lo avevano ribattezzato col curioso epiteto di mosca in cervello.
Al fedelissimo Corrado (alcuni anni prima della distruzione per sollevazione popolare del castello imperiale di Assisi nel 1198) era stato affidato il piccolo Federico II, che di lì a breve resterà orfano prima di padre (Enrico VI ), e poi di madre (Costanza d’Altavilla ).
Federico II, nipote del Barbarossa, nacque a Jesi (nome alquanto simile ad Assisi ), il 26 dicembre del 1194. Secondo Dante Alighieri, Costanza che dal velo del cuore mai si disciolse – nel senso che secondo la versione che la vuole tratta via a forza, iussu del Papa, da un convento, per divenire sposa imperiale secondo le mire politiche della Chiesa circa al Regno di Sicilia, però lungamente accarezzate da Federico I – non sarebbe neppure la vera madre di Federico II. Infatti, tra Enrico IV – giovane e aitante – e Costanza d’Altavilla, unica figlia di Ruggero II, re normanno di Sicilia, correvano diversi anni di età. Una leggenda vuole che Federico II fosse figlio di una bella e giovane donna di Assisi, amante di Enrico42.
In conseguenza della singolare coincidenza nella data di nascita del rampollo imperiale – e si diceva pure che Federico fosse addirittura nato la notte di Natale – sia che si fosse trattato di una messa in scena, oppure di un dato reale: le versioni sono diverse, sorse comunque la leggenda dei Frederici presagia, a cui s’abbandonava un poeta devoto alla casa sveva, Pietro da Eboli: O votive puer, renovandi temporisaetas, pax oritur tecum!
Federico II, stando alla Cronaca di Alberto abate stadense, sarebbe stato battezzato nel Duomo di San Rufino, proprio come Francesco e Chiara. Correva l’anno 1197 e il fanciullo imperiale aveva quasi tre anni. Enrico VI era morto precocemente, nel settembre di quell’anno, dopo una breve malattia. Appena diciotto mesi dopo lo seguirà nella tomba l’imperatrice Costanza.
Intricatissime vicende politiche si dipaneranno da questi frangenti, così come si erano intrecciate in molte situazioni precedenti. Secondo il Salvatorelli (Vita di San Francesco, pag. 25, Einaudi, 1982), nell’autunno del 1196 Enrico VI si trovava nella valle spoletana e a Foligno trovava il suo bambino Federico, ancora in fasce, allevato dalla moglie di Corrado, e se lo portava con sé verso Roma, a farlo battezzare nei pressi della città, con un gran corteo di vescovi e di cardinali. Evidentemente il castello imperiale di Assisi non era più sicuro, il popolo dei minores era in rivolta contro i maiores feudali. Stava nascendo il libero Comune della città per affine emancipazione dal potere vescovile e da quello imperiale.
Sappiamo per certo che Costanza era grandemente devota a Gioacchino da Fiore. Ce lo racconta Luca da Cosenza, testimone oculare.
Un venerdi santo, mentre Gioacchino si trovava nel chiostro dello Santo Spirito a Palermo, l’Imperatrice (così testualmente il cronista presente ai fatti) lo convoca a palazzo, dicendogli che gli vuole parlare (siamo probabilmente nel 1197/1198).43 L’Augusta lo attendeva assisa sul trono della chiesa annessa alla reggia e lo invita a sedere in una sedia posta lì accanto. Poiché ella era in animo di confessarsi, Gioacchino le impone invece di discendere dal trono, e poiché adesso è lui a tenere il posto di Gesù Cristo, le comanda di sedere in terra, aliter enim non debeo teaudire.
Allora Costanza si siede umilmente, e si confessa dei suoi peccati. Il racconto ci appare come quello di un riaccostamento della Regina a Giocchino, e, soprattutto, all’autorità apostolica (il che rafforza l’ipotesi monacale).
Gli Svevi avevano favorito la fondazione gioachimita, concedendo diversi privilegi, come ci fa sapere Stanislao da Campagnola, il quale aggiunge che è possibile arrivare a sospettare che essi abbiano inteso di fissarne le dottrine, facendole scolpire in pietra, sulla facciata di S. Rufinoanchese non abbiamo indizi per affermarlo.
Secondo l’illustre studioso del francescanesimo, l’interpretazione dei motivi scolpiti sulla facciata della cattedrale di Assisi permangono avvolti da un mistero, anche se non possiamo escludere che possano veramente avere un rapporto con le dottrine di Gioacchino.
Il limite sarebbe dato dall’assenza di un qualsiasi collegamento che possa provare la presenza di Gioacchino da Fiore in Assisi, accanto al silenzio delle fonti, compreso San Francesco.
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Questo rapporto con Assisi passerebbe invece, secondo noi, attraverso “Magister Rufinus”, del quale non si hanno più notizie dopo il 1192, e che per questa ragione è creduto morto dopo questa data.
Rufino, al contrario, poteva essersi ritirato – già in età avanzata – nell’importante e antichissimo monastero benedettino del monte Subasio, che tra l’altro era proprietario della chiesa di S. Nicolò, il protettore dei mercanti, situata accanto alla casa di San Francesco,44 a ridosso della Piazza, presso il tempio di Minerva e il forummercatorum, legata alla più profonda memoria francescana proprio dall’episodio della consultazione del Vangelo secondo la c.d. ‘sortes apostolorum’. Il monasetro era anche proprietario della “Porziuncola”, antica chiesetta che sorgeva su un affioramento di terra, non ontano dal Lacus Umber, che era stato bonificato dei benedettini nell’ottavo secolo, per la cui donazione Francesco, che voleva restare assolutamente povero, preferì riconoscere al donante un amiscere di pesciolini lacustri, contraccambiati dai benedettini con olio d’oliva delle pendici del Subasio.
Ce lo fa credere l’insieme dei fatti, all’interno di un contesto indiziario, ma anche quella lastra di sarcofago in pietra graffita, conservata nel monastero benedettino del Subasio, che poi fu distrutto alla fine del trecento, in una guerra tra fazioni locali, dopo che si era andato spopolando dei monaci.
Questo coperchio di sarcofago rappresenta, infatti, un vescovo benedettino. Così lo descrive il Fortini (Vita Nova, 1, I , pag.26 ), che era dotato di una formidabile intuizione: In terra giace una lastra tombale spezzata. Vi è ritratto un abate del monastero, in abiti pontificali. Sotto la mitra appare un volto ieratico che ha l’aspetto della sfinge impietrata. Una mano, chiusa nel guanto, regge un pastorale. La figura non emerge nel rilievo, né è disegnata, incisa nella pietra.45
Il monastero del Subasio, la cui antichità dovrebbe risultare anche in base a scavi archeologici, sarebbe stato il luogo ideale per la vecchiaia di “magister Rufinus”, che qui potrebbe essersi spento verso il 1202, dopo essere stato anche arcivescovo vescovo di Sorrento.46 Quindi è possibile che il vescovo che forse battezzò san Francesco, sia stato – in definitiva – anche il suo primo consigliere spirituale.47
Un altro vescovo di Assisi (attestato dal Di Costanzo come nel caso di Ugone e persino di Rufino), di nome “Dragone”, risulta nel libro dei morti dell’abbazia di Fonte Avellana: aveva trovato asilo presso di noi, annota il compilatore.48 Niente di strano, perciò, che il grande canonista Rufino, collega e amico di Rolando Bandinelli (papa Alessandro III) e di Stefano d’Orleans (poi vescovo di Tournai), avesse deciso di ritirarsi ad Assisi, dopo essere stato anche vescovo di Sorrento, pensando così di morire nel monastero del Subasio, non lontano dalla facciata profetica del Duomo di San Rufino, da lui concepita, e quindi realizzata col sostegno economico dei reggitori imperiali e il placet dell’Ordine benedettino, quale “annuncio” gioachimita del rinnovamento del secolo.49
L’ipotesi è abbastanza coerente ed è aiutata dal De bono pacis i cui straordinari contenuti sembrano aver raggiunto anche Dante Alighieri: ad es. per unam cordiscompuntiunculam, per unam oculorum lacrimulam del De bono pacis, farebbe riscontro – come appunto pone in luce il prof. Catanzaro – Tu te ne porti di costui l’eterno / per una lacrimetta ch’l mitoglie (Purgatorio, V, 106-107).
Memorabile fu il discorso tenuto da San Francesco il 15 agosto 1222 a Bologna in presenza di tutto il senato accademico dell’Università. L’oggetto di questo discorso di riconciliazione fu il bene della pace degli uomini con gli uomini, e degli uomini con Dio. Ce lo fa sapere un testimone d’eccezione, Tommaso da Spalato.50 I discorsi del santo non erano prediche, ma concioni, allocuzioni o conferenze che trattavano argomenti pratici, specialmente rivolti alla riforma dei costumi.51
Le Goff riporta un’interessantissima versione della predica degli uccelli, edulcorata dalla grande mano di Giotto sulla base della Legenda Maior di S. Bonaventura. E’ utile ripeterlo. Rifacendosi a Matteo Paris, che segue il benedettino Ruggero di Wendover, il quale collocava il celebre episodio al momento del ritorno da Roma nella Valle Spoletana dopo la difficilissima udienza papale del 1209 (o del 1210), Francesco, esulcerato per l’accoglienza fattagli dai romani, i loro vizi e le loro turpitudini, avrebbe chiamato a raccolta gli uccelli, i più aggressivi tra essi, quelli dai becchi voraci, uccelli da preda e corvi, e a loro avrebbe insegnato la buona novella, anziché ai miserabili romani. La fonte di quest’aneddoto si trova precisamente nel libro dell’Apocalisse ( 19, 17-18 ): E vidi un angelo, levato nel sole, gridare con voce forte e dire a tutti gli uccelli che volavano nel cielo: venite e radunatevi al gran banchetto di Dio; mangiate la carne dei tribuni, la carne dei superbi, la carne dei cavalli e dei cavalieri, la carne dei liberi e degli schiavi, dei piccoli e dei grandi.
Lasciamo al lettore ogni commento. E’ più credibile un “Francesco” che conosca come Melampo il linguaggio degli animali (lupo compreso), oppure un santo scandalizzato dal lusso e dalla lussuria?
E chi poté favorire l’incontro di Francesco col grande Papa, se non l’ordine benedettino? San Pier Damiani (prolifico scrittore) indirizza il sermoXXXIV (conservato a Montecassino) ai miracoli di S. Rufino, riportandone un profluvio incredibile.
Era sorta una asperrima questione tra i fedeli e il vescovo di Assisi Ugone (presente alla dieta di Worms del 1048), circa la destinazione di un sepolcro romano (risalente al II secolo d.C. e rappresentante il mito di Endimione e Diana ovvero la luna), che il popolo voleva fosse trasferito nella parva basilica del santo protettore di Assisi, mentre il vescovo voleva ricondurre i resti del santo a S. Maria Maggiore (questo sepolcro romano era stato ritrovato forse in quell’epoca, non lungi dal luogo del presunto martirio del santo protettore, si dice fatto morire affogato nel fiume Chiascio, con una macina di mulino al collo, ma è da dubitare assai dei due passionari di Assisi, quello di Rufino e quello di Vittorino, in considerazione del fenomeno della traslazione delle reliquie in città, dai cimiteri fuori le mura, siano attendibili: anche la circostanza del sepolcro o sarcofago romano smentisce senza appello la versione immaginaria di Pier Damiani). Alla fine prevalse la volontà popolare (dice testualmente Pier Damiani: vox populi, vox dei).52 Di conseguenza, il vescovo Ugone non solo si sarebbe deciso a costruire una chiesa più grande (la magna basilica citata nel sermo, della quale restano alcuni avanzi, e, soprattutto, il basamento originario del campanile); ma trasferì a San Rufino la cattedra vescovile (la questione è assai interessante e complessa, e non tutte le tessere del relativo mosaico sembrano ben collocarsi al loro posto, come ritiene anche il Fortini, richiamando lo Gnoli,53soprattutto in relazione ai tempi tecnici necessari per una così importante edificazione, che sarebbe stata sostituita appena un secolo dopo o anche meno, da un’altra chiesa più grande, l’attuale Duomo).
Pier Damiani era un benedettino, seguace della regola di san Romualdo, nato come lui a Ravenna.
Divenne vescovo di Ostia, lo stesso incarico ecclesiastico che, guarda caso, ricoprirà Ugolino dei Conti Segni nel 1209, poi divenuto Gregorio IX, morto quasi centenario, dopo essere stato uno dei grandi benefattori dell’Ordine francescano. Fu Ugolino a favorire Francesco verso il Papa, insieme al cardinale di S.Paolo. Coincidenze, queste, che non possono non mettere in sospetto per la loro significativa concordanza e congruenza. Era stato l’ordine benedettino ad appoggiare il “povero” di Assisi, che nel 1209-1210 aveva già ridestato con l’esempio e la parola, il fervore degli umili e dei pii almeno in tutta l’Umbria. La Chiesa di Roma confermò quanto Francesco e suoi primi compagni avevano fatto, senza alcun bisogno di approvare o di acconsentire espressamente. Quel silenzio confermava la “regola”, e la “regola” era nient’altro che il Vangelo. Non tutti i cardinali furono d’accordo. Molti di essi sentivano odore di eresia, in ogni caso il Vangelo era monopolio del clero, Francesco e suoi compagni non avevano alcun titolo per annunciarlo ai poveri, agli ultimi (il diaconato di Francesco è un aspetto discusso e discutibile). Anzi, ciò rappresentava – per certi versi – un rimprovero alla chiesa e ai sacerdoti: era compito loro, e non di un gruppo di giovani laici e qualche sacerdote a essi aggiuntosi (come il Cattani). Quello era un movimento ribelle, ed era un atteggiamento inammissibile.
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A decidere fu il papa, il solenne Innocenzo III, Lotario dei conti Segni (un papa feudale, che aveva studiato teologia a Parigi e diritto a Bologna).54 Francesco si salvò da ogni accusa di eresia avendo iniziato da solo un difficilissimo percorso, sia perché egli era ‘Francesco’, e sia perché seppe evitare gli errori o gli eccessi di un Arnaldo da Brescia.55 Del resto, i patarini lombardi erano dei lavoratori della lana, un mestiere affine a quello di Pietro Valdo e del padre stesso di San Francesco (“Pietro” Valdo – si noti l’analogia dei nome col padre di S. Francesco – fu ben accolto nel Concilio Vaticano III, cui partecipò magister Rufinus, per essere in seguito scomunicato).
Uno dei più grandi misteri francescani è proprio quello dell’udienza papale, ovvero la possibilità di una vita evangelica e della predicazione da parte dei poveri di Assisi che tanto assomiglierebbero ai poveri di Lione, se non fosse che i primierano una sorta di militia Christi, perfettamente pacifica ma anche perfettamente cavalleresca, a differenza dei secondi, che cadevano in frequenti eccessi di intolleranza56 .
Francesco attraversò con grande sofferenza il suo primo momento di crisi, che lo porterà alla metanoia, alla scelta del cambiamento radicale.
Secondo S. Antonino di Firenze, il giovane Francesco nunc latebat in eremis, nunc ecclesiarum reparationibus insistebat devotus. Secondo altre fonti amava recarsi all’interno di una grotta (un amico lo accompagnava),57 e ne usciva dopo lungo tempo, trasfigurato e spesse volte piangente. San Francesco, nel suo Testamento, non ci fa sapere nulla della sua conversione interiore, se non il bacio al lebbroso, che lo trasformò, e la solitudine degli incerti inizi: nessuno mi diceva cosa dovessi fare – stetti un po’e poiexivi de seculo.
Eppure è possibile che possa esserci stato una sorta d’instradamento del giovanissimo Francesco da parte del vecchissimo magister Rufinus, che ritiratosi nel monastero benedettino del Subasio, lo avrebbe consigliato avanti a morire. Anche il Fortini ne ebbe qualche sospetto in ragione delle restanti coincidenze, già alquanto significative. Lo lascerebbe oggi sospettare il quadro indiziario che abbiamo cercato di configurare.
In ogni caso rimangono sempre valide la ragioni di coloro che hanno sostenuto che Duomo di San Rufino fu ilprimo santuariofrancescano. Noi vi scorgiamo molto di più: la longa manus dei benedettini58 e una ispirazione profetica al bene sacramentale della Pace. Nessuna meraviglia dunque che il portale del duomo di San Rufino possa contenere un’allegoria riportabile a Giacchino da Fiore con l’anticipazione dei due nuovi ordini religiosi che sarebbero seguiti: l’Ordine francescano e quello domenicano. Tacendo i documenti, avrebbero parlato le pietre.
Conclusione:
Questo nostro “racconto” potrebbe “concludersi” riportando il passo iniziale del De Bono Pacis nell’eccellente traduzione del prof. Catanzaro, invitando i lettori a scorrere quest’opera, tanto essa appare splendida, anche nel suo genere letterario, presentandosi oggi di grandissima attualità.
Se si vuole una cognizione completa sul bene della pace, procedendo con ordine, bisogna prima dare una spiegazione sul nome dell’oggetto in discussione e poi sull’oggetto che il bene indica. Questo bene è stato indicato con la parolaPax,perché il vocabolo esprime lo straordinario misterodella Trinità di Dio. Questo nome infatti si declina, ma non si volge al plurale, simboleggiando quell’unità che è carattere peculiare e distintivo di Dio: in questa unità,infatti, vi è la distinzione in tre persone e nello stesso tempo si mantiene e venera la semplicità di un’unica e medesima natura. Come dunque questo nome è formato di tre lettere, la P, la A e la X, che costituiscono un’espressione che non ammette il plurale (non diciamo le paci), così anche la divinità consta di tre persone: il Padre, il Figlio e lo Spirito santo. Queste non sono tre essenze, o Dei, ma l’unica essenza, un unico Dio. La P, poiché è la prima lettera della parola, indica il Padre; la A, che è quella di mezzo, indica il Figlio; la X, che è posta alla fine, rappresenta espressamente lo Spirito santo. Inoltre la P indica la Persona del Padre per una duplice ragione.
La prima riguarda il nome: evidentemente la parola padre ha questa lettera iniziale. La seconda è questa: essendovi due lettere, che, per essere pronunziate, richiedono la divisione delle labbra, subito dopo una loro compressione, cioè la P e la B, per formare la P, le labbra si stringono con maggiore compressione che per pronunziare la B e poi si aprono con un suono più chiaro per l’emissione della voce. Come dunque per pronunziare la lettera P le labbra si spalancano di più, affinché la voce formata sia profferita, così tutte le cose, che erano nascoste nel segreto dei disegni divini, quasi suono della voce concepita nel cuore, hanno incominciato a formarsi e ad aprirsi per opera della creazione….
…Parimenti si ritenga che A indica il Figlio per una duplice ragione. In primo luogo, perché è vocale, cioè ha un suono di per sé, e il figlio che si è incarnato, di per sé è visto e conosciuto. In secondo luogo, perché è la prima di tutte le lettere; e il figlio è il Primogenito rispetto ad ogni creatura. E come Egli è prima, così è dopo di ogni creatura: L’Alfa e l’Omega, il primo e l’ultimo, onde è chiamato il Primogenito e l’Unigenito: Primogenito, poiché nessuno è esistito prima di lui; Unigenito, perché nessuno sarà dopo di lui. Affinché l’insieme di questo nome risulti completo, alle due precedenti lettere si lega la terza, cioè la X. Questa prefigura la persona dello Spirito santo in duplice modo, cioè per la natura del suono e per l’ordine in cui è disposta. Per la natura del suono: perché è consonante doppia, e perciò, a buon diritto, indica lo Spirito santo per la doppia consonanza d’amore, che in esso si comprende:infatti da una parte congiunge il Padre con il Figlio, dall’altra la creatura con il Creatore…Per l’ordine della disposizione: perché questa lettera è la terzultima dell’alfabeto, viene cioè prima della penultima. Infatti, nell’abbeccedario due lettere la Y e la Z vengono dopo questa. Di queste tre lettere la prima è la X, e perciò essa è concepita come immagine del mistero…59
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Il mistero di cui ci siamo occupati è dinanzi agli occhi di tutti gli abitanti di Assisie dei turisti che la visitano. Si tratta del mistero francescano che non finirà di stupire i secoli. Con gli occhi c’è, per vedere, l’ausilio della mente e del cuore. E’ quanto abbiamo cercato di fare spiando, in pochi acri di terra, la presenza dello Spirito Santo e il segreto della Pace.
Pax et Bonum: ciò significa il Bene della Pace e la Pace del Bene. La pace degli uomini con Dio. Ed
è questa profonda considerazione del cuore che reca lo Spirito Santo nel biancore del marmo e i due fiori che si baciano: Pax et Iustitia Osculatae Sunt. – Da qui il Sommo Bene.
La terza cornice del portale profetico del Duomo di San Rufino ad Assisi esprime lo Spirito Santo, la “terza età” di Gioacchino da Fiore, e il significato della parola “Pax” secondo il De Bono Pacis Magister Rufinus.
1 Assisi è descritta da Properzio (cfr. 4, I, v.125) come: << scandentiique asis consurgit vertice muros, mura ab ingenio notior ille tuo >>. Secondo Dante Alighieri ( Paradiso, XI, 52-55 ) << Però chi d’esso loco fa parole, / non dica Ascesi, chè direbbe corto/, ma Oriente, se proprio dir vuole >>. Secondo il glottologo fiorentino Giovanni Semerano, asu – in accadico e assiro-babilonese – è il Sole. Ma il nome di Assisi potrebbe provenire anche dalla radice assa, cioè ‘acqua’, mentre aso - nelle Tavole di Gubbio – è associabile a ‘fuoco’, ‘calore’. Gli Asisinates sono ricordati nell’ambito delle popolazioni umbre da Plinio. Di Assisi fanno menzione Tolomeo nella Geografia e Procopio nella Guerra Gotica. Sorprendente è il silenzio di Strabone, geografo augusteo, che non la nomina. Su ‘Assisi’ si veda A. Grohmann, Le città nella storia d’Italia, Laterza, Bari, 1989, nonché A. Cristofani, Delle storie di Assisi, A. Forni Editore, ristampa 1980 dell’edizione del 1902. Il Duomo romanico di San Rufino rimonta al XII secolo. Fu ultimato durante la vita di san Francesco, anche se la facciata non era stata completata fino al 1215. In precedenza doveva esserci una basilica forse dell’XI secolo, o forse ancora precedente, di cui restano la cripta e, soprattutto, la robusta torre campanaria (basamento primitivo). La questione della parva e della magna basilica, prima del duomo romanico attuale, è molto incerta e intrigante. Noi abbiamo trovato la prova che il duomo fu completato in età federiciana. La zona del Duomo insiste nella parte alta della città, quella più antica, contornata da mura umbro-romane, che molto probabilmente racchiudevano il primitivo insediamento, ed è caratterizzata dalla presenza di notevoli reperti archeologici (teatro, circo, anfiteatro e antico foro umbro, il tempio della Buona Madre). La zona del foro antico sarebbe quella oggi occupata dal Duomo. Stando all’illustre storico del francescanesimo Arnaldo Fortini, Assisi sarebbe caratterizzata dalla presenza di tre distinte cittadelle: quella ‘imperiale’ (col castello e gli edifici collinari ), la zona di san Rufino (o ‘cittadella benedettina’ a ridosso del monte Subasio ), e nella parte bassa (Santa Maria Maggiore) la ‘cittadella vescovile’, dove si collocavano la c.d. “casa di Properzio” e le antiche terme. Questa ‘teoria’ corrisponde, nominalmente, alle varie ipotesi teoriche che si possono avanzare per la formazione storica del libero comune di Assisi, che appare certamente attestato nell’anno 1198, quando il castello svevo fu distrutto dal popolo di Assisi, dopo la morte di Enrico VI e quella di Costanza d’Altavilla (ultima erede del Regno normanno di Sicilia e madre di Federico II, che come San Francesco e Santa Chiara, sarebbe stato battezzato nel Duomo di san Rufino). Probabilmente la realtà è moto più complessa, ma di sicuro la parte alta della città è anche quella più antica. Addossato a Palazzo Minciotti è perfettamente visibile il volto dilavato dalla pioggia di una antichissima dea umbra, molto probabilmente la Buona Madre, da cui la zona di San Rufino secondo il Fortini prese nome (vocabolo Buona Madre).
L’incertezza dell’anno di nascita deriva da un conto a ritroso rispetto alla data certa della morte (3 ottobre 1226) e al computo degli anni di vita. Secondo le varie leggende francescane, la nascita del santo sarebbe stata caratterizzata da eventi miracolosi: anzitutto si sarebbe presentato a ‘monna Pica’ un uomo, annunciando che in quel giorno sarebbero nati a Assisi ‘il migliore e il peggiore degli uomini’; quindi, al momento del battesimo al fonte di San Rufino, un angelo avrebbe lasciato impresse le sue orme sulla pietra, assistendo all’evento (Francesco si chiamava Giovanni); poi, uno strano pellegrino, avrebbe cominciato ad annunciare per le vie di Assisi il messaggio di ‘Pace e Bene’; infine, un uomo semplice avrebbe steso un velo al passaggio del giovane Francesco per la Piazza (o foro del mercato), rendendo omaggio alla sua futura grandezza (si tratta, in questo caso, del primo affresco del ciclo iconografico grottesco della Basilica Superiore, composto da 28 grandi riquadri). Tale sostrato di leggende potrebbe, in effetti, celare una verità storica, della quale ci si è spogliati e di cui, invece, ci occupiamo in questo articolo, con particolare riguardo a Gioacchino da Fiore e alla figura di Magister Rufinus. I due erano nati intorno al 1130. E mentre è certo che Gioacchino sia morto nel 1201-1202, di Rufino non si hanno più notizie dopo il 1192. Il De bono pacis di Rufino e il Decem salpterium chordarum di Gioacchino da Fiore risalgono invece agli anni della Pace di Costanza.
Su I genitori di san Francesco si veda, in particolare, F. Rossetti, Edizioni Il leccio, Siena, 1984. Secondo la versione del vescovo di Assisi Ottavio Spader (1698-1715), in base al racconto fattogli a Lucca – mentre predicava nel 1689 in quella città – dal canonico Francesco Moricone, Pietro di Bernardone discenderebbe dalla famiglia di mercanti dei fratelli Moricone, originaria di Lucca. Quando il corpo del santo fu scoperto nel 1818, nel sepolcro, murato sotto l’altare maggiore della Basilica inferiore di Assisi, risultò, dalla ricognizione effettuata, la presenza di un rosario con 33 grani (tanti i versi del Cantico delle Creature), un anello con un sigillo riportante l’effigie di Minerva alata (il comune di Assisi aveva allora sede nel tempio di Minerva, posto nel forum mercatorum), e 26 piccole monete lucchesi. Secondo Gemma Fortini, Petrus Bernardonis sarebbe stato un mercante convertito di origini ebree, la cui famiglia esercitava il mestiere già in epoca carolingia. Il patronimico Bernardonis evocherebbe però la dipendenza di Pietro dall’importante abbazia riformata del Monte Subasio, egemone – nell’alto medioevo – dell’economia curtense della zona, in nome e per conto della quale abazia l’attività di commercio e di scambio sarebbe stata esercitata, profittando della via francigena che correva sotto Assisi, con basi d’appoggio – nei lunghi viaggi – presso le stesse abbazie benedettine presenti nel tragitto. Non potendo i monaci esercitare il commercio, è evidente che dovevano servirsi di un loro fiduciario. Quindi il padre di san Francesco esercitava importanti transazioni mercantili, scambiando la lana prodotta nella zona del Subasio e lavorata ad Assisi, con altre stoffe o tessuti lavorati in Francia. L’ipotesi sembra coerente in base all’importanza dell’abbazia benedettina, che nei secoli bui dell’alto medioevo, avrebbe diretto l’economia curtense dell’intero comprensorio, la montagna e la pianura sottostante. La madre di San Francesco avrebbe avuto origini nobiliari piccarde o provenzali, ma nessun documento lo prova. Pica è anche il nome di un uccello. Alcuni sostengono che il suo nome fosse Giovanna, così come Giovanni era il nome di battesimo di San Francesco, prima che il padre glielo mutasse.
L’epiteto di ‘madonna’ ne attesta senza dubbio una qualità sociale di rango superiore a quella del marito. La tradizione vuole che fosse effettivamente francese, e meglio ancora provenzale, oppure proveniente dalla Burgundia.
San Francesco prorompeva assai spesso in canti provenzali, probabile lingua materna, saltellando e ritmando la musica, e accompagnandosi con un bastoncello, che imitava un archetto musicale. Il carattere di San Francesco appare fine e poetico, come quello della madre, e, al tempo stesso, assai deciso, come quello del padre. La fonti ci fanno presente il suo spirito curiale e cavalleresco, assai accentuato. Magister Rufinus era di origini francesi, contrariamente all’opinione espressa dal Singer. L’ambiente di formazione di Rufino potrebbe essere stata, inizialmente, la c.d. “scuola di Chartres”. L’eresia ‘catara’ si radicò pervicacemente in una parte riparata della Francia (zona di Albi), perpetuandosi in seguito con gli Ugonotti. I ‘patarini’ lombardi erano lavoratori della lana. E’ assai probabile che Giovanni-Francesco sia stato battezzato nel Duomo di San Rufino, da Magister Rufinus, allora vescovo di Assisi. Questo legame (Magister Rufinus, abbazia benedettina del Subasio, Pietro di Bernardone e suo figlio) potrebbe essere la radice di un percorso di santità, completamente sfuggito alle prime fonti francescane, oppure volutamente ignorato.
Si vedano Fonti francescane, a cura di Stanislao da Campagnola, editio minoris, Ed. Francescane, 1986.
Gli studi francescani avviati dal Thode, con la pubblicazione a Berlino, nel 1885, di Francesco di Assisi (riproposto da Donzelli Editore, Roma, 1993, con prefazione di L. Bellosi, autore de La pecora di Giotto, Einaudi, Torino, 1983), proseguirono col Sabatier (1894). Una Vita di san Francesco si deve anche al famoso poeta danese J. Joergensen. Seguì una profluvie di ‘vite del santo’, composte anche da grandi scrittori quali G.H. Chesterton , H. Hesse, J. Green e N. Kazantzakis. Qui registriamo, brevemente, la monumentale Nova vita di san Francesco di Arnaldo Fortini, ed. Assisi, 5 voll.; L. Salvatorelli, Vita di san Francesco d’Assisi, Einaudi 1973 (I ediz. Laterza, Bari, 1926 ); R. Manselli, San Francesco, Bulzoni Editore, Roma, 1980; F. Cardini, Francesco d’Assisi, Mondadori, Milano, 1991; J. Le Goff, San Francesco d’Assisi, Laterza , Bari, 2000; G. G. Merlo, San Francesco, Ed. Francescane, 2003. Il grande storico Luigi Salvatorelli era nipote del prof. Leto Alessandri, cui l’opera dedicata, già preside del Liceo Classico di Assisi e notevole studioso di storia locale. Le fonti francescane sono di vario genere. Su tale argomento vedi ad es. gli autorevolissimi studi di Stanislao da Campagnola, fra i quali Biografie e cronache del duecento francescano, Perugia, 1970; L’angelo del sesto sigillo e l’alter Christus, Perugia, 1971; Francesco d’Assisi nei suoi scritti e nelle biografie dei secoli XIII-XIV, Edizioni Porziuncola, Assisi, 1981. Su ‘Assisi al tempo di San Francesco’ si vedano gli Atti del V convegno internazionale di Studi Francescani, Assisi, 1978, nonché A. Fortini, Francesco d’Assisi e l’Italia del suo tempo, Biblioteca di Storia Patria, Roma, 1968, e Assisi nel medioevo, Carocci editore, Roma, 1940.
Si veda G. Andreozzi, San Nicolò “de pede paletae” dove nacque il movimento francescano, Edirice Franciscanum,
7Roma 1986, anche con riguardo al c.d. messale di Baltimora.
Nel 1238 Fra Elia – diretto a Cremona, dove si trovava il campo imperiale, come Legato Pontificio – passando da Parma accolse nell’ordine francescano fra Salimbene da Parma, il quale – nella sua Cronaca – ci ha descritto a tratti vivaci i particolari di quell’incontro (giovedì 4 febbraio). Il mancato successo della missione affidata a Fra Elia dal papa Gregorio IX segnò la sua disgrazia. Si suole ricondurre a Fra Elia il progetto della Basilica di S. Francesco (ma il santo aveva lasciato scritto nel suo Testamento che nessuna chiesa si sarebbe dovuta edificare a suo nome), e la successiva cura dei grandi lavori fino al loro completamento. Alquanto incerte sono le origini di Fra Elia. Secondo la testimonianza di fra Salimbene, suo padre era di Bologna e la madre di Assisi (il suo nome secolare sarebbe stato quello di Bonusbaro). Secondo Tommaso da Eccleston Fra Elia sarebbe stato notaio (scriptor) a Bologna. La sua effigie – accanto a quella di Federico II – comparirebbe in un angolo esterno del Sacro Convento della Basilica, affacciando sulla pianura: vedi P. F. Calzolari, Massoneria Francescanesimo Alchimia, Parma, 1998; E. Lunghi, Presenza di Federico II nella chiesa di S.Francesco ad Assisi, in Atti Accademia Properziana del Subasio, serie IV, n. 23, anno 1995, nonché Assisi al tempo di Federico II. Su La corte papale a Perugia nel ducento, vedi l’organica monografia di F. Frascarelli, in Annali della facoltà di lettere e filosofia, Università degli Studi di Perugia, volume XV, nuova serie volume I, 1977/1978, pag.155-213. Un Bonusbaro fu console di Assisi alla fine del dodicesimo secolo. Il Fortini non ha dubbi che si trattasse di Fra Elia. Da qui altri più recenti sviluppi, in ordine ad un certo episodio, rimasto oscuro, della vita del santo, prima della conversione (dc rom di Marcello Betti).
Cfr. Salimbene, Cronica, 441. Presentata al Capitolo generale di Pisa del 1263, la Leggenda Maggiore di San Bonaventura incontrò il plauso incondizionato del gruppo dirigente. Il Capitolo Generale di Parigi del 1266 ordinò la distruzione di tutte le precedenti biografie. La Vita prima di Tommaso da Celano (commissionata nel 1228 da Papa Gregorio IX ) fu recuperata soltanto nel 1768. Il Capitolo di Parigi affermò che San Francesco era ad litteram l’angelo apocalittico del sesto sigillo. Dante Alighieri si ispira nel canto XI del Paradiso al poemetto allegorico del Sacrum commercium beati Francisci cum domina Paupertate, forse erroneamente attribuito a Giovanni da Parma. Nella temperie storica di questa delicatissima fase di passaggio del movimento francescano, che vede prevalere San Bonaventura, venne travolto lo stesso ministro generale dell’Ordine, Giovanni da Parma, compromesso dall’azione di Gerardo da Borgo San Donnino, accanito fautore delle attese di renovatio di Gioacchino da Fiore, profeticamente fissate per l’anno 1260, in cui, appunto, si manifestarono i movimenti epocali dei ‘flagellanti’ in Umbria (una ripresa di ebbe nel 1399 col Passaggio dei Bianchi).
Cfr. F. Heer, Il Medioevo, Mondadori, 1991, pag. 216, capitolo Sinistra e destra nei movimenti religiosi particolari.
Appartiene al novero dei misteri francescani anche la famosa benedizione per Fra Leone, scritta di pugno di Francesco e portata dal compagno sul petto, fino alla morte. A parte l’invito a che il Signore mostri il suo volto, e si tratta di un passo evangelico, la benedizione è caratterizzata da un Tau fuoriuscente dalla bocca di un volto incorniciato dalla barba, che si può presumere sia quello di Cristo, ma questo viso, sembra emergere da un lenzuolo. Si tratta forse della Sindone, che fino alla conquista crociata del 1204 si conservava a Costantinopoli, e che finì dunque in mano ai templari, per poi essere conservata dai catari o ugonotti in Burgundia durante la persecuzione di Filippo il Bello, e riapparire finalmente presso i Savoia? Tuttavia è certo che il Tau (in ebraico ‘segno’ ) era il simbolo col quale si sottoscrivevano i cavalieri templari, poi accusati di venerare una strana immagine scurita, chiamata Bafometto. Invece il mistero ‘properziano’ concernerebbe i risvolti segreti delle Elegie, finora sfuggiti agli studiosi, compresi gli arcana della domus Musae. Su questo stesso argomento, altri miei lavori non canonici, pubblicati sul sito web “Misteri di Assisi”.
Sembra che Dante Alighieri, il ghibellin fuggiasco, durante le sue peregrinazioni avesse bussato una volta all’eremo di Fonte Avellana, invocando appunto la “pace”. L’episodio del lupo di Gubbio, riportato dai Fioretti, nasconde a sua volta un atto di pacificazione. La famosa Concordia del 1210, preceduta da un atto consimile del 1203, sembra riflettere la presenza in Assisi del messaggio benedettino di pace, originatosi dal testo teologico di magister Rufinus. L’insieme delle connessioni sarebbe tale da restituire un interessantissimo tracciato. Tuttavia la critica non è concorde, preferendo parlare di autonomia di eventi storici, in reazione a fattori distinti.
L’affresco di Subiaco pone diversi problemi, primo dei quali è se siano autentici o meno i tratti somatici di Francesco (cioè capelli chiari e
13occhi azzurri, corpo esile e slanciato: un ritratto diremmo di tipo “francese”), nel qual caso sarebbe falsa la descrizione di Tommaso da Celano (Vita I, 1228), e persino non autentiche le spoglie del santo tumulate nel 1230 da Frate Elia in tutta segretezza sotto l’altare maggiore della Basilica inferiore, in un pozzo di pietra. Il Fortini lo riteneva autentico, databile verso il 1223. Chiara Frugoni e Nicolangelo D’Acunto lo ritengono un falso (il rimaneggiamento o reimpiego di un’opera precedente), non spiegando però come ciò sia potuto avvenire tecnicamente. Della questione si occupa la monografia di Francesco Mores, Alle origini dell’immagine di Francesco di Assisi, Editrici Francescane 2004, pp. 410. Il problema non è immaginario. L’iconografia francescana, studiata dalla Frugoni, varia da Cimabue a Giotto. Quale l’aspetto fisico di un “cavaliere” mercante, che sognava la gloria delle armi con la spedizione in Puglia? I cavalli e i cavalieri del medioevo non si discostavano troppo dalle altezze moderne. La ricognizione del corpo del santo effettuata nel 1818, e poi nel 1982, indica un’altezza di 158 cm. Tutto è possibile, ma la personalità del santo non s’intonerebbe con un fisico ‘minuscolo’, anche rispetto agli standard dell’epoca. Carlo Magno era alto circa due metri. Santa Chiara era di stirpe longobarda. Ed è difficile immaginare che il mercante Pietro di Bernardone, padre di Francesco, fosse anche lui di corporatura esile e inadatta al suo mestiere, che lo portava a lunghi e difficili viaggi. Perché il padre lo avrebbe chiamato “Francesco”, se il figlio non avesse avuto tratti gallici? Sebbene Tommaso da Celano avesse conosciuto san Francesco di persona, la descrizione che ne dà sembra riflettere lo schema altrettanto stereotipo e inattendibile di san Bernardo di Chiaravalle, per quanto i compagni di san Francesco fossero tutti quanti in vita. Qual era l’aspetto fisico reale di Bernardo di Chiaravalle? I problemi si rincorrono, mentre san Francesco a cavallo (ad es. nell’episodio dell’incontro con i lebbrosi e prima ancora nella guerra contro Perugia o a Spoleto), non indicherebbe una corporatura minuta, pressoché inadatta alla battaglia. Ma a questo punto dovremmo arguire che il corpo del santo non fu quello tumulato da Frate Elia nella tomba. Si aprirebbe dunque lo scenario alternativo della conservazione del corpo nel quadriennio precedente (dall’ottobre del 1226 al maggio del 1230), e dell’effettività delle spoglie (magari, seguendone la volontà, Francesco fu sepolto nella fossa comune, all’insaputa dei frati). Su La tomba di S. Francesco nei secoli si veda l’imponente monografia di Padre Isidoro Gatti, Casa Editrice Francescana, Assisi 1983, pp. 530, con tavole descrittive e documentazione fotografica, nonché un ultimo lavoro di Padre Marino Bigaroni sulla Cassa di san Francesco presso la chiesa di San Giorgio ad Assisi.
Questo ritratto di frate Francesco proverebbe lo stretto collegamento tra i benedettini e il Santo, che viene rappresentato non ancora stigmatizzato. Come evidenzia il Fortini – vedi Francesco d’Assisi e l’Italia del suo tempo, op. cit. pag. 353 -, il ritratto di Subiaco risulterebbe fedele alla descrizione data dal Celano (1228 ) nella Vita prima, 465: << Era uomo facondissimo, di aspetto gioviale, di sguardo buono, mai indolente, mai altezzoso. Di statura piuttosto piccola, testa regolare e rotonda, volto un po’ ovale proteso, fronte piana e piccola, occhi neri, di misura normale e tutto semplicità, capelli pure oscuri, sopracciglia diritte, naso giusto, sottile diritto, orecchie dritte ma piccole, tempie piane, lingua mite, bruciante penetrante, voce robusta, dolce, chiara e sonora, denti uniti, uguali e bianchi, labbra piccole e sottili, barba nera e rada, collo sottile, spalle diritte, braccia corte, mani scarne, dita lunghe, unghie sporgenti, gambe snelle, piedi piccoli, pelle delicata, magro, veste ruvida, sonno brevissimo, mano generosissima >>. Sembra il ritratto di un trovatore, di un poeta, e, allo stesso tempo, di un uomo di azione. Invece Chiara Frugoni e altri ritengono non pertinente l’affresco di Subiaco, rimanendo a nostro avviso scoperto il problema del vero aspetto fisico di Francesco. Qui ricordando che doveva essere un uomo d’arme, un cavaliere militare.
Ci sarà poi – iconograficamente parlando – un Francesco con la barba e un Francesco senza barba (quello degli Angiò): vedi L. Bellosi, La pecora di Giotto, op.cit. Enormi problemi suscitano la datazione e l’attribuzione dei cicli pittorici della Basilica, in cui si è verificato il succedersi di varie scuole, e, molto probabilmente, si registrano anche le diverse vicende politiche che si sono succedute durante il lungo periodo del suo totale completamento.
La scritta di pace evangelica compare in Matteo 10, 13, oltrechè nel De Bono Pacis di Magister Rufinus , Libro I, Cap. IV, De pace Dei ad Homines. Il messaggio francescano è essenzialmente quello della Pace. La parola minores voleva indicare che i francescani si mettevano dalla parte del popolo, dei deboli, dei minori, in opposizione ai maggiori, agli aristocratici, ai potenti, alla casta militare dei cavalieri armati. L’impressione che il toponimo di Assisi evochi un culto solare non è una gratuita fantasia. Lo intuisce forse Dante Alighieri, e lo stesso Angelo del Sesto Sigillo della lectio bonaventuriana è proprio l’angelo apocalittico che appare dall’oriente, recando sulle mani il segno del dio vivo (quest’angelo, col segno del Dio vivente, è effigiato nel tondo centrale del rosone piccolo di sinistra della facciata del Duomo: Vidi alterum Angelum ascendentem ab ortu solis, habentem signum Dei vivi – Apocalisse, 7, 2). Si tratterebbe di connessioni significative, che non andrebbero sottovalutate.
Cfr. Elegie, III, 5, che riportiamo nella traduzione di Gemma Fortini: Amore è un dio di pace, noi amanti veneriamo la pace. Dunque – a piena ragione – Assisi può essere definita la “città della pace”: Benedicat tibi dominus sancta civitas deo fidelis, quia per te animae multae salvabuntur, in te servi altissimi habitabunt, de te multi eligentur ad regnum aeternum. Se non fosse che – come racconta il Fortini in Assisi nel medioevo – ci fu una volta che i frati conventuali invitarono al sacro Convento i cappuccini di Santa Maria degli Angeli e ne nacque una zuffa con molti feriti e contusi.
Circa le acque salutari di Assisi vedi A. Tufani, L’anfiteatro di Assisi, Assisi, 1999. Vengono ricordate le singolari proprietà terapeutiche dell’acqua sorgiva del perlasio (secondo il Fortini il nome richiamerebbe il primo luogo di raduno popolare dell’insorgente comune medievale, col significato di parlascio o parlamento). Si trattava di una fons o gurgha perlasii, che secondo le memorie della antica famiglia Paolucci, conduceva a numerose guarigioni miracolose, grazie all’aspersione corporea e all’assunzione di acqua santa. La Tufani rammenta altresì che l’invaso dell’anfiteatro (gurgha) era utilizzato nel medioevo per la tintura delle stoffe.
Gioacchino da Fiore nacque probabilmente verso il 1130 (non verso il 1145 come altri sostengono ) e morì nell’anno 1201 o 1202, quando Francesco aveva circa venti anni. Le sue principali opere sono la Concordia Novi et veteris Testamenti, l’Expositio in Apocalypism, il Psalterium decem chordarum, il commento Super quatruor Evangelia e probabilmente anche il Liber figurarum. Secondo l’opinione di molti studiosi, l’influsso gioachimita su San Francesco fu inevitabile. Si ritiene che umilissime fossero le origini di Gioacchino. Non trova eccessivo credito l’ipotesi che lo vuole figlio di un notaio della corte normanna. Gioacchino si mostra precursore dei movimenti spirituali che si realizzeranno in seguito. Secondo il francescano di Erfurt (Cronica minor risalente al 1261/1268) sembra che nella sua cella Gioacchino avesse fatto dipingere, prima ancora che sorgessero, le immagini dei due nuovi ordini da lui profetati, poi identificati nel movimento francescano e in quello domenicano. Tali ‘immagini’ si scorgono anche sulla facciata di San Rufino, ai lati del piccolo rosone di sinistra. Gioacchino era in origine un “cistercense”, ma poi si ritirò, fondando un ordine proprio. I Cistercensi erano sorti da una derivazione dei Cluniacensi. Nel 1184 lo ritroviamo a Veroli, presso il pontefice Lucio III, cioè quel Rolando Bandinelli, che insieme a Magister Rufinus, era stato tra i principali allievi di Graziano all’Università di Bologna. I teologi di Parigi, e i membri di altri ordini, perseguitarono Gioacchino come eretico. Tuttavia egli ebbe entrature notevoli anche con Urbano III, che lo incontrò a Verona nel 1186, e lo esortò a scrivere l’Expositio in Apocalypsim, la sua seconda grande opera. Il Psalterium Decem Chordarum era stato già in buona parte abbozzato nel 1173, anno della pace di Costanza, e quello della probabile composizione, da parte di magister Rufinus, del De Bono Pacis. Nel 1196 una bolla di Celestino III, recante la data del 25 aprile, regolarizzava l’ordine “florense”. Le principali notizie su Giacchino ci provengono da Gregorio da Lauro che scriveva nel 1660. Altre importanti fonti gioachimite sono Ruggero di Hovden, Benedetto di Peterborough e Raul di Coggeahall (quest’ultimo in relazione alla profezia di Riccardo Cuor di Leone). L’ordine “florense” è esistito fino al 1570. Come abate e come erudito – non come politico – Gioacchino intrattenne rapporti personali con la casa reale di Enrico VI: cfr. H. Grundmann, Studi su Gioacchino da Fiore, Marietti, 1989, I ed. Leipzig-Berlin 1927, pag. 16. Entrato nel monastero cistercense di Corazzo, ne fu abate dal 1178 al 1188. Nel 1225 la Commissione di Anagni, nominata da Alessandro IV, ne valutò la dottrina a seguito di una denuncia dei maestri di Parigi nei confronti del gioachimita francescano Gerardo da Borgo S. Donnino. Secondo Stanislao da Campagnola la novitas francescana, a differenza di quella di Gioacchino da Fiore, fu rivolta alla trasformazione attiva del presente, piuttosto che all’attesa contemplante del futuro. Su Gioacchino da Fiore e il Salterio a dieci corde, cfr. E. Zolla, I mistici dell’occidente, III, Rizzoli, Milano, 1977, Mistici medievali, pag. 111 ss.
Oppure una viella o uno strumento musicale simile. Dipende dalla ricostruzione dei particolari, scarsamente leggibili.
Tale espressione è presente nel Salterio a dieci corde con evidente riguardo al Salmo 144, 9, Lode di Davide: O Dio, ti canterò un cantico nuovo, con l’arpa a dieci corde inneggerò a te, a te che desti vittoria ai re, a te che hai scampato Davide tuo servo dalla spada iniqua – cfr. I Salmi, Rizzoli, Milano, 2001, pag. 415-416, con introduzione, traduzione e commento di G.Ravasi.
Il grande catalogo illustrato delle intense opere scultoree del prof. Francesco Prosperi, con apparati critici e filologici a cura del figlio prof. Franco, è stato pubblicato dall’Accademia Properziana del Subasio, ed. Porziuncola, 1997. Un lavoro artistico di Francesco Prosperi – S. Francesco ascendente al cielo in un carro di fuoco come il profeta Elia – è presente nella antica cripta della Chiesa di San Rufino.
F. Prosperi, La facciata della cattedrale di Assisi – La mistica gioacchimita prefrancescana nella simbologia delle sculture, Stampa grafica Perugia, 1968. Sembra che negli anni ottanta il dott. Francesco Brunelli di Perugia abbia prodotto un lavoro originale su questa facciata, non potuto reperire. Per la bibliografia inerente al Duomo di San Rufino si rimanda a Franco Prosperi.
La cattedrale di San Rufino in Assisi, Arti grafiche A. Pizzi s.p.a, Milano, 1999 (Accademia Properziana del Subasio e Capitolo della Cattedrale di San Rufino).
Nel famoso atto giuridico della Concordia del 1210 tra majores e minores di Assisi, riportato da tutte le storie del diritto italiano e col quale fu operato un massiccio affrancamento di manodopera servile, venne altresì fissato l’impegno del completamento dei lavori della facciata del Duomo. Ciò non esclude che la parte più bassa ed antica della facciata, quella comprensiva del bellissimo portale, fosse già stata terminata venti anni prima, col finanziamento imperiale in seguito venuto meno.
Il passo biblico di Isaia concerne “lo splendore di Gerusalemme”, inserendosi nella “processione del ritorno” e nella “nuova città di Dio”. Mi astengo da qualsiasi approfondimento, qui bastando l’allusione.
De Bono Pacis I, 2: Bisogna dunque sapere che la pace, secondo il canone della sacra Scritura, si divide in otto specie: la pace di Dio con se stesso, la pace di Dio con gli uomini, la pace del diavolo con se stesso, la pace del diavolo con gli uomini, la pace degli angeli con se stessi, la pace degli angeli con gi uomini, la pace degli uomini con se stessi, la pace degli uomini tra loro. La danza è il simbolo della pace come tale. I figurati di ciascun accoppiamento danzante rappresentano tali coppie di unioni il cui riconoscimento rimanda al De Bono Pacis di Magister Rufinus.
Fortini fu amico personale del re Vittorio Emanuele III e di Gabriele D’Annunzio. Il poeta di Pescara scrisse il Notturno a seguito degli stimoli spirituali che gli vennero da questa amicizia con Arnaldo Fortini e dalla frequentazione dei luoghi francescani: vedi A. Fortini, D‘Annunzio e il francescanesimo, Assisi, 1963.
L’autrice dell’articolo sulla facciata di San Rufino presente nella pubblicazione del 1999, Francesca Cristoferi, parla invece di un Cristo. I lavori di restauro presentano dei punti di sorprendente disposizione simmetrica, che andrebbero chiariti. Si tratta di macchie di colore di un rosso più vivo che non la pietra del lunotto e che sembrano segnare delle stimmate alle mani, una ferita appena sopra il cuore, con un punto centrale sulla fronte, ed infine, due tumefazioni agli zigomi di questo “Dio incoronato”, uno e trino, assiso in trono entro il cerchio del “rotondo sfero” della creazione, caratterizzato dalla luna, dal sole, e dalle altre stelle.
Cfr. R. Manselli, Francesco di Assisi, op.cit., pag. 29.
Così Arnaldo Fortini a proposito di magister Rufinus: Ecco una bella figura di vescovo che andrebbe studiata. Di Rufino, grande canonista e oratore, il Singer nel 1902 pubblicò in Germania la Summa Decretorum, con una prefazione di circa 130 pagine, fornendo vari particolari. Su Rufino si veda anche la prefazione al De Bono Pacis a cura di Don Aldo Brunacci e il profilo tracciato dal G.Catanzaro, Magister Rufinus vescovo di Assisi nel sec. XII, in Atti dell’Accademia Properziana del Subasio, Serie VI, n.14, 1987, pag. 243 ss. La data di nascita di Rufino potrebbe essere fissata intorno al 1130, come per Gioacchino da Fiore. Alcune idee presenti nel De bono pacis sembrano riflettere temi gioachimiti esposti nel Salterio a dieci corde. Riteniamo di poter affermare che Magister Rufinus subì influssi della Scuola di Chartres, sui cui caratteri di naturalismo platonico vedi M.Lemoine, Intorno a Chartres, Jiaca Book, Milano,1998.
Sui Vassalletto, architetti e lapicidi romani, si veda Enciclopedia dell’arte medievale Treccani, vol. II, Roma, 1991, pagg.625-653, voce “Roma”. Nel medesimo contesto enciclopedico, voce “Assisi”, si citano – a proposito della facciata del Duomo di San Rufino – i lavori del canonico G. Elisei (1893) e quello di F. Prosperi (1968). Dallo studio comparato tra gli altorilievi del candelabro in pietra della Basilica di San Paolo fuori le mura in Roma – opera di Niccolò d’Angelo e Pietro Vassalletto – e le sculture del portale del duomo di Assisi, sembra emergere la medesima mano. Ciò consente una ragionevole datazione del portale di Assisi, precedente alla morte di Gioacchino da Fiore (ivi, infatti, rappresentato in vita), e non, come si sostiene, posteriore al 1210. La presenza in loco dei lapicidi romani e dei loro cantieri è attestata ad es. ne L’arte nel medioevo (Duecento e trecento , pag.29), pubblicazione in più volumi del Turing Club italiano, risalente al 1965. Nicolò d’Angelo e i Vassalletto sono attestati al culmine della loro fama proprio nell’ultimo quarto del XIII secolo.
La bellissima piazza di Bevagna è adornata anche dalla chiesa di San Michele Arcangelo, sulla cui facciata compare l’effigie del giovane imperatore Enrico VI, morto prematuramente nel 1197, seguito diciotto mesi dopo dalla scomparsa anche di Costanza d’Altavilla, l’imperatrice normanna.
Nel sermone XXXVI di Pier Damiani leggiamo, in modo contraddittorio anche rispetto ai tempi necessari, che esisteva già una basilica di San Rufino, nella quale era stato accolto un tempo il corpo del santo, che sarebbe stato in seguito recuperato altrove (nei pressi del fiume Chiascio). Un folto catalogo di miracoli impossibili del santo patrono, mina alla radice la credibilità storica del racconto di Pier Damiani. Ugone costruì una grande basilica (la questione dei tempi è pressoché irrisolvibile) e la decorò degnamente secondo le sue possibilità. Poi fece deporre il corpo del beato martire nel sarcofago che era stato oggetto della contesa e vi consacrò sopra un altare alla presenza di tutto il popolo della diocesi (paragrafo 10 nella versione di Don Aldo Brunacci). La contraddizione temporale dei tempi di edificazione della magna basilica è diventata anche una contraddizione sostanziale, anche in ordine al sarcofago (che proveniva dai dintorni della chiesa e che è un bell’esempio di sarcofago pagano degli inizi del II secolo, non del terzo, recante il mito lunare di Endimione), e relativamente alle spoglie del martire (ossa).
Ci occuperemo della questione in un nuovo lavoro d’indagine analitica, tenendo conto delle passate soluzioni (in particolare quella di Padre G. Abate in disaccordo col Fortini negli anni ’50 del secolo scorso). Il problema del “duomo” di Assisi, che è precedente alle basiliche francescane che ampliarono notevolmente lo spazio urbano di Assisi, non è un problema settoriale, come fino a oggi è stato inquadrato, bensì attiene alla storia globale della città. L’inquadramento attuale appare insufficiente e del resto contraddittorio. Pertanto si può parlare di un altro “enigma”. Con una ricaduta diretta sull’importante archivio pergamenaceo del duomo, che ne è un riflesso per nulla trascurabile.
Secondo il Bonazzi, cfr. Storia di Perugia, I, pag. 94, S. Costanzo avrebbe dietro di sé una tradizione così poco credibile da farlo discendere – sic – dal conte Opizzone de’Bardi, signore di Sarteano, di Tottita e di Monteaffallonico. La tradizione seicentesca degli antichi santi martiri in Umbria è il massimo della “ciarlataneria”. Il rescritto di Costantino comporta che verso il 333-337 d.C. in Umbria continuavano gli antichi culti, nonostante si attribuisca all’imperatore il massimo favore nei riguardi del cristianesimo e dei nuovi luoghi di culto. Assisi non conobbe rilevanti aggregazioni cristiane prima dell’inizio del V secolo, con l’età dei Teodosii.
Cfr. A. Cristofani, Le Storie di Assisi, ristampa 1980, pag. 53. Sempre sul Cristofani si veda, da pag. 39 e ss., la diversa ricostruzione della questione del nuovo duomo e della sua descrizione. Il Cristofani ignora magister Rufinus, mentre G. Catanzaro (1987, Atti dell’Acc. Prop. Subasio n. 14) ne parla, addirittura, “come nativo di Assisi”.
Si veda A. Brunacci, prefazione al De Bono pacis, op. cit., personalmente riscoperto e valorizzato, e ottimamente tradotto e annotato dal G.Catanzaro. La Summa Decretorum di Rufino è stata pubblicata in Germania nel 1902 e nuovamente ristampata nel 1963, a Paderborn. E’ interessante notare che si ha notizia di ben tre codici contenenti il De bono pacis (il Cassinense 238, il Tegernsensis 779, e il Bambergensis perduto), di cui due sono codici tedeschi. Questo la direbbe lunga sull’equilibrata visione di Rufino in ordine ai rapporti tra papato ed impero.
La straordinaria conservazione del c.d. tempio di Minerva ad Assisi è dovuta a due fattori: la bellezza e funzionalità dell’intero impianto, di notevolissima estensione anche ai lati; il significato cultuale di Minerva protettrice dell’olivo, col reimpiego del tempio a sede civica in epoca bizantina e poi a sede religiosa da parte dei goti ariani, in ordine al culto di sant’Agata.
Enciclopedia Treccani, voce ‘Rufino’:emerge chemagister Rufinus fosse di lingua e cultura francese, il che costituisce un interessantissimo indizio.
A tale leggenda, tuttavia razionale, prestava fede Gemma Fortini, che amava ripeterla.
Stanislao da Campagnola, L’Angelo del Sesto Sigillo, op. cit., pag.63.
Tra i tanti misteri francescani vi è anche quello della casa paterna che viene situata dove attualmente sorge la Chiesa Nuova, costruita nel seicento con i fondi messi a disposizione dal re di Spagna. Invece, come prova il Fortini, la casa di Francesco si trovava sinistra della piazza, a ridosso della chiesa di S. Nicolò, così come sembra anche dall’affresco di Giotto. Si veda comunque P. Chioccioni, La casa paterna di San Francesco, Roma,1966. Ciò proverebbe lo stretto collegamento tra il mercante Petrus Bernardonis e il monastero benedettino del Subasio.
La descrizione del Fortini si attaglia perfettamente alla lastra tombale incisa, la cui immagine è senza dubbio quella di un vescovo della fine del XII secolo. Il reperto è originale, appartiene indubbiamente al cimitero del monastero benedettino del Subasio, molto più antico delle sue prime attestazioni (pergamene del duomo di San Rufino). Diversi elementi fanno ritenere che il monastero sia piuttosto vicino all’epoca di san Benedetto, anziché posteriore di secoli. Non c’è dubbio che dipendesse da Farfa. Su questo monastero di ragguardevoli dimensioni e ben munito di strutture di servizio e di opere difensive, vedi – con opposte soluzioni – Fr Michelangelo Bacheca, La cripta triastila di San Benedetto al Subasio, in Atti Acc. Prop. Subasio, serie V, n. 4, 1956 e Aspetti di vita benedettina nella storia di Assisi , Atti dell’Acc. Pro. Sub., Serie VI, n. 5, 1981. Dedicheremo un intervento specifico agli enigmi di tale monastero. Ma la posizione dominante a 180 gradi sulla vallata spoletana, in direzione del Lacus Umber, ne rivelerebbe l’antichità ex se. A prescindere dai reperti archeologici in quella zona posta ad una altitudine di oltre 800 metri s.l.m.
G. Catanzaro, cit., poneva in luce il rapporto di amicizia tra magister Rufinus e Pietro II de insula, abate di Montecassino (1180). Una bolla cassinense, unitamente alla sottoscrizione al Concilio Vaticano III nel 1179, ne attestano inequivocabilmente la carica di vescovo di Assisi, come per primo si era accorto il Fortini. La vicinanza del maestro a Federico I Barbarossa è comprovata dalla conservazione in Germania degli altri due esemplari dl codice del De Bono Pacis. Da qui al collegamento con la Pace di Costanza il passo è breve e pressoché scontato. Le aquile imperiali dell’abside del duomo, insieme alla “testina” di uomo di mezza età accanto a san Rufino, comprovano l’ipotesi indiziaria che l’inspiratore del portale centrale, se non di tutta la facciata, sia stata una grande mente come quella di Rufino.
Tale ipotesi non viene a scartarsi poiché Francesco lasciò scritto che fece tutto da solo. Quando Francesco scelse di “uscire da mondo”, Rufino era morto da anni. E’ invece il legame di Francesco coi benedettini del Subasio a rivelare almeno due cose: che Pietro di Berbardone ne era il fiduciario commerciale, e che il rapporto diretto di Francesco coi monaci era di tipo speciale. Qui Francesco poté incontrare da vecchio Magister Rufinus, che gli accennò al sommo bene della Pace. Certe coincidenze non sono puramente casuali. Anche l’atto giuridico del 1210 si rifarà al bene della pace (Pro Bono Pacis). Ci sembrano questi i segni dell’ammaestramento di Rufino che la storia ci ha taciuto. La pianta dipende dal seme.
A. Fortini, Vita Nova, op.cit., vol.1, I, pag. 78.
Si è sempre pensato che il Capitolo del duomo fosse un’entità aliena rispetto ai benedettini del Subasio, e invece è possibile che i rispettivi interessi coincidessero: anche il Monastero aveva possessioni notevoli i città, mentre il Capitolo aveva interessi anche nei riguardi della montagna soprastante. Indubbiamente i monaci erano i fornitori di codici scritti e molto probabilmente la schola di San Giorgio, dove Francesco apprese a leggere e a scrivere, dove essere un’emanazione del Monastero, prima di trapassare al capitolo. Il messale di San Nicolò era un esempio della produzione amanuense dei monaci benedettini che conservavano una loro presenza in varie ‘entità’ cittadine. L’economia di Assisi nei secoli bui fu soprattutto di tipo curtense. La lavorazione della lana ne rappresentava la massima manifestazione.
51 J. Joergensen, San Francesco d’Assisi, op.cit.,pag.271.
Si veda al riguardo il dotto ed interessante lavoro di Don Aldo Brunacci, S. Rufino martire primo vescovo di Assisi, Libreria Fonteviva , Assisi, 2000, e si gusti poi il sermone di Pier Damiani, autore di un bell’inno in onore di san Rufino: magnum Rufini meritum turba canat fidelium, nell’eccellente traduzione dello stesso Brunacci.
A. Fortini. Assisi nel medioevo, op.cit., pag.49; U.Gnoli, L’antica Basilica Ugoniana e il Duomo di Giovanni da Gubbio in Assisi, in rivista Augusta Perusia, I, fascoli n. 11 e 12. La versione fornita da Pier Damiani (di tendenze fortemente popolari) è perlomeno dubbia.
Non può escludersi che ancora una volta abbia potuto risuonare l’enunciazione del De Bono Pacis di Magister Rufinus: Pace in Terra e nei Cieli, agli uomini di Buona Volontà. Francesco non si ridusse soltanto a una metafora, pure bellissima, ma fece sentire al vecchio papa un brivido nuovo. Cosa significava il “disprezzo del mondo” se la vita è un dono di Dio? La regola era come dover vivere, come essere fratelli. E ciò poneva il problema sulla uguaglianza umana. Francesco aveva i suoi cardini, nemmeno il papa poté resistergli. Oggi abbiamo un Papa che si chiama Francesco: ditemi se non è questo lo spirito profetico di Gioacchino, se Francesco non lo incarnò, inaugurando l’età dello Spirito Santo (la terza fascia di marmo bianco del “portale” di magister Rufinus).
Su Arnaldo da Brescia vedi A. Frugoni (1954), Einaudi 1989.
Si veda comunque Grado Giovanni Merlo, Valdo – L’eretico di Lione, Claudiana 2010.
Questa gotta o antro si trovava secondo Tommaso da Celano iuxta civitatis, cioè vicinissima alle mura. L’antro della c.d. domus Musae si presterebbe benissimo (Giovanni da Gubbio aveva dovuto sondare anche le fondamenta di Santa Maria Maggiore, prima dei lavori di rifacimento, cosicché erano venute in luce due o tre stanze, a confine con la cinta muraria umbro-romana). Ho sempre pensato che la grotta fosse questa, fino a quando Marcello Betti mi fece notare che la relazione – alquanto suggestiva – della c.d. “grotta di Cinicchia”, risalente ad epoca longobarda, col fianco destro della basilica di san Francesco e il campanile, perfettamente inquadrato, ipotizzando che lo sconosciuto compagno di Fancesco fosse Frate Elia, la cui famiglia proveniva da Beviglie, castello feudale a poca distanza dalla grotta. Betti nel maggio del 2010 ha prodotto un cd rom con interviste e ricostruzioni su tale ipotesi esplicativa.
Così come San Benedetto e Santa Scolastica rappresentano la coppia sacra dell’Ordine benedettino nel momento dell’oscurità e del farsi crudo della storia, ugualmente Chiara e Francesco sembrano rappresentarne la recuperata immagine all’aprirsi del medioevo comunale, tempo di nuova libertà. Vedi Le donne di Francesco santo e cavaliere, articolo di G. Duby pubblicato sul quotidiano La Repubblica del 27 novembre 1994 recensendo il libro di J. Dalarun, Francesco: un passaggio, Donna e donne negli scritti e nelle leggende di Francesco d’Assisi, a proposito dsel fascino esercitato sulle dame, tra le quali spicca la devotissima Jacopa dei Settesoli che da Roma accorse al capezzale del santo al momento della morte, recando si dice alcuni dolcetti (mostaccioli).
Circa l’ipotesi che il vecchio magister Rufinus, ormai prossimo a morire, sia stato in qualche modo una figura di riferimento per il giovane Francesco, sorprende la considerazione – secondo quanto risultava per bocca stessa di Gioacchino da Fiore nel Salterio a dieci corde – che la castitas è il “segno” del “fuoco” dello Spirito Santo. Così anche le altre due virtù francescane – l’umiltà e la povertà – sembrano riguardare – a loro volta – l’età del ‘padre’e quella del ‘figlio’. Quanto all’assunto che l’abbazia benedettina del monte Subasio abbia costituito, nell’alto medioevo, il centro di dell’economia curtense di Assisi, vedi in generale P. Cammarosano, Storia dell’Italia Medievale (dal VI al XI secolo), Laterza, Bari, 2001.