Pinax della c.d. “domus del lararium” ad Assisi
<< AT TIBI SAEPE NOVO DEDUXI CARMINA VERSU >>
ovvero
“PROPERZIO E IL SUO DOPPPIO”
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Io che un tempo venivo spalancata per i superbi trionfi,
porta di Tarpeia nota per l’antico pudore,
ché i carri tutti d’oro adornavano le mie soglie,
umide per le lacrime dei prigionieri,
ora, sfregiata dalle risse notturne degli ubriachi
mi dolgo d’essere spesso percossa da indegne mani
e ai miei battenti pendono infamanti corone,
e fiaccole per terra, lasciate come segno dagli esclusi
……
Tu, tu sola sei la massima causa del mio dolore,
o porta, non mai vinta dai miei doni,
eppure non ti ha mai colpito offesa della mia lingua,
che nulla tace nei momenti d’ira,
per lasciarmi così, rauco oramai per i lunghi lamenti,
vegliare in strada in angosciosa attesa:
eppure ho composto per te poesie in nuovi versi,
ho impresso baci, premendo le labbra sui tuoi gradini.
Quante volte, o perfida, voltai le spalle alle tue soglie
e recai on gesto furtivo i doni dovuti >>
“Questo egli dice, e tutto il resto che voi amanti ben sapete,
e canta con gli uccellini mattutini.
Così ora sono per sempre diffamata per i vizi della mia padrona
e per i pianti continui di questo amante escluso”
- Properzio, elegia I, 16 – vv. 35-48 (trad. T. Gazich)
Essi alternan lor vita, a vicenda passando l’un giorno vicino
al padre diletto, in Olimpo,
l’altro in terrestri latébre, nell’adito sacro a Terapne,
stretti a una sorte: ché questo
scelse Polluce, piuttosto che sempre esser Nume, ed in cielo
vivere, quando in battaglia fu a Castore spenta la vita.
Ida, tutto ira pei bovi
furati, l’avea con la cuspide dell’asta di bronzo trafitto.
……
Dal Tegèto spiando, Lincèo scoperto l’avea, che sovresso
Il tronco sedea d’una quercia:
ch’ei più di tutti i mortali aveva acutissimo l’occhio.
Presto lo giunser coi piedi
rapidi; e in breve compieron lo scempio famoso. Ma grave
pena le mani di Giove inflisser d’Afàrete ai figli:
l’altro rampollo di Leda
accorse: essi atteser fermi vicini alla tomba del padre…
- Pindaro. I Diuscuri (trad. E. Romagnoli)
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* Dedico il testo rielaborato e allargato di questa conferenza del 2011, Assisi, Palazzo Bernabei, Sala del Caminetto, alla sempre viva memoria di alcuni grandi Accademici Properziani, qui in Assisi, “Città di Poeti”: Arnaldo e Gemma Fortini, Fioravante Caldari, Francesco Sergiacomi, Marcello Tanci, Piero Mirti, Salvatore Vivona, Giuseppe Catanzaro, e Aldo Calzolari (l’ultimo ad andarsene).
“Nell’ombra, che le ultime braci / lasciavan assopita nel sonno, / tra ‘l bianco delle nevi di gennaio, / il sogno prese corpo, / ed uscivamo all’alba, / da Casa Fortini , / con l’anima della Luna”.
ABSTRACT:
Sesto Properzio in età augustea fu il poeta più giovane di una almeno generazione alla corte letteraria di Mecenate sull’Esquilino. Autore di una sola opera, le Elegie, il cantore di Cinzia fu a stretto contatto con poeti più anziani del calibro di Virgilio e di Orazio, distinguendosi per il rifiuto sistematico a mutare genere letterario, ad abbandonare cioè la “musa lieve”, ispirandosi apparentemente a Filita di Cos e a Callimaco di Cirene. Alcuni temi poetici sembrano affini a quelli di Tibullo, sebbene risolti in altra maniera. Tibullo era certamente più anziano di Properzio, che sarebbe nato ad Assisi, verso il 48 a.C., per terminare il quarto e ultimo libro delle Elegie verso il 15 a.C., dopo di che il silenzio. Esordì giovanissimo, nel 29, probabilmente all’età di 19 anni, con un’operetta raffinata per la sua unica donna, Cinzia appunto, dedicata al giovane coetaneo Tullio Volcacio. Nell’ultimo libro delle Elegie, pur non abbandonando il tema di Cinzia (tre elegie), sarebbe passato al genere antiquario, sul modello degli “aitia” di Callimanco (c.d. elegie romane). Tuttavia la sua opera, definita da Vertumnus, il dio etrusco delle mutazioni, come unum opus, presenta decine di ‘enigmi’, che non trovano adeguata spiegazione: troppi, per appartenere le Elegie al genere soggettivo dell’elegia erotica soggettiva latina. L’enigma fondamentale è quello delle misteriose, ambigue e taciute identità del morto di Perugia, Gallus, e di una certa “sorella” (sorella di chi? – si domandava Ettore Paratore, primo fautore, nel 1936, dell’integrazione difficile di Properzio, sotto Augusto). La soluzione di questo enigma, secondo elementi testuali, stranamente mai colti in precedenza, comporta un ribaltamento del paradigma e un’estensione agli altri misteri di quest’opera solitaria che assurge, adesso, a un livello più unico che raro nel panorama della letteratura mondiale. Il morto anonimo di Perugia è Gallus Propertius, padre del poeta, e la sorella di Gallus è una Propertia, madre di Tullo Volcacio. Compariranno nel Monobiblos o Cynthia, il primo canzoniere amoroso del 29, col nome ‘ante tempus’ di Mecenate, anche l’Esquilino, Assisi, e la firma mancante di Properzio, insieme al vero scopo dell’opera unica. “Cinzia” è una creazione letteraria, senza alcun possibile riscontro in una Hostia di Tivoli o in una Roscia di lanuvio, come matrona stolata di quel tempo oppure come anonima meretrix. Con la ricompensa di una grande scoperta abbiamo riportato al suo padrone, che stava sull’Esquilino, le perdute tabellae. Properzio è un poeta sommo, ritornato alle origini dell’antico genere elegiaco, che era canto d’amore e compianto funebre (dire ahi, ahi). La sua “ombra” sovrasta persino il grande Virgilio costretto, suo malgrado, a un grande poema in onore di Augusto, dove però mancherà il nome di Mecenate. Nella presente esposizione, partendo dagli spunti di un prezioso libricino di Luca Canali, gettiamo le premesse generali per una serie d’interventi successivi, su argomenti specifici, che continueremo a pubblicare in serie sul nostro sito web < misteridiassisi.it >, occupandoci tra l’altro della c.d. domus Musae, scoperta nei primi anni ‘50 da Fioravante Caldari, allora Presidente della storica Accademia Properziana di Assisi, e valorizzata negli anni ‘70 da Margherita Garducci, come “casa di poeti” e casa natale di Sesto Properzio. Da questo insieme di interventi si potranno infine cogliere il valore e il grado di serietà della nostra ricerca, che non facendo alcun torto al testo letterario, vi aggiunge una componente fortemente innovativa, capace di ricondurre a vera unità ciò che invece sembra appartenere a una sorta di variazione di genere, soprattutto nel quarto e ultimo delle Elegie, recuperando i dati nascosti della vera autobiografia di Sesto Properzio.
1. “OMBRE” NELLA POESIA LATINA D’ETA’ AUGUSTEA
Inaugurando un nuovo percorso rispetto ai canoni tradizionali, che ci porterà alla scoperta di Properzio e il suo doppio, riportiamo un frammento dell’Eneide di Virgilio: Ognuno soffre la sua ombra (VI, 743 – Quisque suos patimur Manes).
Enea è penetrato nei recessi degli Inferi per ritrovare l’ombra di suo padre, il vecchio Anchise, che l’eroe aveva salvato dall’incendio di Troia, portandolo sulle sue spalle, tenendo in braccio il figlioletto Iulo. Adesso, il padre, si trova << in una verde valletta, anime lì chiuse pronte a salire alla luce, che Anchise passava in rassegna >>.
Il vecchio genitore dell’eroe troiano, il cui destino è fondare in Italia una nuova dinastia – la gens Iulia cara a Venere che un giorno dominerà l’orbe –, gli indica tra l’altro, in una visione oltre il tempo, << l’Augusto Cesare, il figlio del Dio, che aprirà di nuovo per il Lazio il secolo d’oro, nei campi regnati da Saturno una volta; e sui Garamanti e sugli Indi allargherà il regno >>. [Caio Ottaviano “Augusto” sarà il nuovo Alessandro Magno, di cui - appunto - il vincitore di Marco Antonio, volle contemplare le fattezze, facendone scoperchiare il sepolcro, che si trovava ad Alessandria d’Egitto, conquistata nell’estate dell’anno 30 a.C., allorché Antonio e Cleopatra si daranno ciascuno la propria morte].
Quando Cleopatra, a Canopo, decise di morire del velenoso morso di uno o di due serpenti (chissà però come andarono veramente le cose), Augusto (il primo di agosto dell’anno 30 a.C.) era già entrato vincitore ad Alessandria. Nonostante la modestia della battaglia, quel giorno divenne festività pubblica, perché era il giorno in cui Caio Ottaviano salvò lo stato: per lo stesso motivo il vincitore scelse tale mese, intitolato in seguito ad “Augusto”, anziché il mese di settembre, in cui era nato, il 23, ma in realtà il 22, secondo il calendario giuliano, sotto i segni della bilancia e dello scorpione (suo tema astrale). Il poeta elegiaco d’amore Cornelio Gallo, importante generale di Ottaviano nell’ultima campagna militare contro Marco Antonio, si trovava nei pressi del mausoleo in cui Cleopatra si era rifugiata prima di morire. Properzio scriverà: Ho veduto (vidi) i sacri aspidiazzannare / vicino al seno, e tutto il suo corpo / scivolare lento nella strada oscura / del sonnoinfinito. Sembrerebbe quasi che abbia assistito alla morte della regina egiziana, in realtà era statua di Cleopatra o di Iside, che figurò nel trionfo a Roma (Properzio la vide con i propri occhi). Potrebbe essere stata un’immagine di Iside (così Michael Grant, “Cleopatra”). Il bello delle Elegie sta anche nell’ambiguità, talvolta spinta agli eccessi. Iperbolico e ambiguo quando magnificherà Augusto e il trionfo di Anzio, lo scontro decisivo. Sottili accenti, piccole incrinature e venature ironiche di possibili sottintesi, impediscono di prendere sul serio questi elogi (ed è anche il caso dell’elegia III,11 sulla quale nel 1936 si appuntò l’attenzione di Ettore Paratore per individuarne l’ “integrazione difficile”).
Il verso finale di III, 11: Caesaris in toto sis memor Ionio (Tu, nocchiero, se dirigi al porto o se lo lasci / sii memore di Cesare per tutto il mar Ionio), si presta infatti a un sorprendente rovesciamento di significato: < os memor sis Antonii si Actio ore > – O nocchiero del mar Ionio, che tu sia la bocca memore di Antonio se (dirigi) al golfo di Azio (ovviamente, qui non c’entra Ettore Paratore).
Lo scontro navale del golfo di Azio, nello Ionio, fu decisivo. Virgilio declamerà la presenza fisica di Apollo, con un nimbo che circondava il capo di Ottaviano (in realtà tutto il merito della grande vittoria era di Marco Vipsiano Agrippa, grande navarca). Ionio sembra richiamare il nome di Marco Antonio, ed è questo probabilmente uno dei trucchi verbali ai quali fece ricorso Properzio, mago della parola (le maiuscole sono rispettate, chiave d’anagramma sono Antonio e il golfo di Azio, con un aggiuntivo gioco di parole: bocca e golfo, in latino sinonimi con os).
Da dove derivava a Properzio una così vasta e profonda conoscenza della letteratura alessandrina (e dell’astronomia)? Mecenate, forse, compì un viaggio in Egitto, nel 30, si dice accompagnato da Virgilio. Qui egli ebbe vaste proprietà. Ma la cosa sorprendente, mai notata, è che nell’elegia IV, 6 dedicata (con profonda ironia) ad Augusto, e al tempio di Apollo da lui fatto erigere sul Palatino in ricordo della decisiva vittoria navale di Azio, l’avversario non solo è una donna, ma è Iside. Difatti l’acrostico ISIS è stato abilmente inserito da Properzio, senza doverlo rendere troppo evidente, nei versi finali di questa elegia, in cui figura soltanto il nome di Cleopatra!
La tecnica dell’acrostico, utilizzata dagli alessandrini, era stata ripresa sia da Virgilio (Bucoliche e Georgiche), sia da Orazio (su questi aspetti, vedi, ad es., P. Domenicucci, Astra Caesarum, 1996).
L’acrostico ISIS in Properzio, del tutto ignoto, trova una conferma nei graffiti latini repertati da Margherita Guarducci nella c.d. domusMusae di Assisi (o “casa di poeti”), se il caso di specie è correttamente risolto (vedi altro nostro pezzo sul web). Di questi segnali ne esistono tanti altri, molto più importanti. Da qui la possibilità di snidare “Properzio segreto” dopo due millenni (non è poco ed è anche vero, perché siamo in grado dimostrarlo in modo testuale: vedi parte terza).
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<< Quisque suos patimur Manes >> può essere tradotto (nel passo virgiliano che lo contiene: prima della liberazione delle anime nell’Elisio), come: Patiamo tutti la nostramorte .
La parola “ombra”, qui impiegata al posto di “morte”, appare più appropriata, almeno nell’uso che ne fa Luca Canali, in un suo meraviglioso libretto, pubblicato nel 2003 (sottotitolo: “Da Catulloa Giovenale: I grandi nevrotici della poesia latina”); ed è, essa stessa, altresì utile ai nostri fini.
“Properzio e il suo doppio” è il titolo del capitolo, che in questo delizioso saggio sulla poesia latina dell’età d’oro, Canali dedica al poeta di Assisi. Né va scordato che un “doppio” di Properzio esiste veramente. Si tratta, infatti, dell’indovino Horos, che risponde alle parole di Propertius, dicendo sottilmente la verità, tutta la verità, nella grandiosa ed enigmatica elegia proemiale che inaugura il quarto e ultimo libro delle Elegie, molto probabilmente composta per ultima, e che, perciò, dovrebbe racchiudere in sé, arcanamente, il vero significato dell’opera, un’opera unica, dopodiché il grande silenzio di Properzio, che è stato interpretato come improvvisa morte del poeta, verso il 15 o il 14 a.C. [Properzio sarebbe nato nel maggio del 48: ne forniremo una prova; l’unica cosa certa è che nell’anno 2 a.C. egli era sicuramente morto, come appunto si ricava da un passo di Ovidio, col poeta di Sulmona depositario tacito e accorto di qualche buon ‘segreto’ su Properzio più vecchio di lui di appena qualche anni, poiché è certo che Ovidio nacque nel 43].
Luca Canali, grande latinista e grande traduttore di Properzio nella prestigiosa edizione filologica delle Elegie a cura di Paolo Fedeli, richiamando in vita il famoso medico di Caio Ottaviano Augusto (che era di salute assai cagionevole), Antonio Musa, l’ha trasformato immaginariamente, accanto a un altro medico dell’antichità, Tessalo di Tralles, in uno degli ‘psicanalisti’ dei grandi poeti latini dell’età aurea. La mirabolante finzione di Canali, che nell’elenco dei poeti latini da psicanalizzare ignora ad esempio Tibullo e Ovidio, è per così dire un elegante pretesto per penetrare nei più intimi recessi di alcuni grandi poeti come Virgilio, Properzio, e Orazio.
Se pensiamo a Virgilio, il grande mantovano – nato una generazione prima di Properzio – di “segreti” ne aveva diversi, a partire già dall’arcana architettura delle Bucoliche, per tacere delle allegorie nelle Georgiche e dell’impianto numerologico dell’Eneide. Non ci soffermeremo su questi aspetti e neppure ci cureremo d’aggiungere delle note e un apparato bibliografico minimo. Questo è il testo eretico, fuori dai canoni, di una conferenza tenuta agli altri Soci, nel 2011, da un socio non pubblicato dell’Accademia Properziana del Subasio, e, come tale, non abbisogna di note, bastando i soli richiami testuali.
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Siamo sul lettino dello psicanalista, durante una seduta. Musa incalzò Virgilio con queste parole: << Allora avevo visto giusto, almeno in parte. Ora poi che ti ho udito leggere alla presenza di Augusto i pochi canti dell’Eneide, i miei dubbi si sono accresciuti, non già sulla qualità della tua poesia, ma sull’equilibrio della tua mente pervasa attualmente, quale essa è, da una teoria filosofica in forte contrasto con le altre due di cui abbiamo appena parlato (l’epicureismo e lo stoicismo – n.d.r.): il neopitagorismo, con il suo disprezzo per il corpo e l’esaltazione del ‘celeste spirito’ e dell’‘igneo vigore’, che nell’oltretomba, attraverso punizioni diverse, e ormai libero dal greve involucro carnale e dalle sue mille tentazioni che tu chiami “il proprio demone” – e io definirei il ‘lato-ombra’ –, potrà di nuovo incarnarsi e tornare alla luce sotto altre spoglie, in una eterna mutazione di identità. In alcuni versi tu parli addirittura di un “dio che tutto muove”. Mi pare che tutto ciò sia espresso nell’Eneide dall’anima eletta del padre di Enea, Anchise. Correggimi, se sbaglio >>.
Properzio, nato più di venti anni dopo, subendo in Umbria altre espropriazioni di terre, era rimasto precocemente orfano. L’indovino Horos glielo ricorda: << Ossaque legisti non illaaetate legenda / patris et in tenuis cogeris lares >> (“Nella tua infanzia raccogliesti anzitempo le ossa di tuo padre / e in modesta condizione ti sei ridotto”). In questo passo autobiografico, che è di capitale importanza, si nota pure – e in netta evidenza – il raccordo “padre / madre”: << Mox ubi bulla rudi dimissa est aurea collo, / matris et ante deos libera sumpta toga >> (“Poi, tolta l’aurea bolla del tuo collo giovinetto, / davanti agli dei di tua madre indossasti la toga dei liberi”).
E’evidente la simmetria, che lega tra loro i due fondamentali momenti autobiografici della prima giovinezza di Properzio, e su queste coppie di distici elegiaci si potrebbe già scrivere un libro. Qui si celano, difatti, un’infinità di cose. Quel “mox” è uno straordinario concentrato temporale. Seguirà un “tum”, altrettanto importante (Apollo gli detterà i primi versi).
Il rito della maggiore età – quando verso i 16-17 anni si diventava viri o sui iuris a tutti gli effetti, per un orfano di padre, abbandonando la “toga pretesta” dei minorenni – è avvenuto (a Roma), secondo il costume degli “avi materni”, indicando la possibilità che la madre di Properzio fosse di nobile stirpe etrusca di Perugia (forse legata ai Maecenates, anch’essi originari di Perugia: cfr. M. Pallottino, Etruscologia).
La stessa “bulla aurea” richiama – simbolicamente – la fase della pienezza della luna, quando appunto vi si può leggere un volto, con la brillantezza – in basso – del grande cratere Tycho.
Secondo recenti studi di archeo-astronomia (cfr. A. Aveni, Scale fino alle stelle, 2000, pag.43), il rito della bolla d’oro, insieme alla dismissione della toga pretesta, appartiene a una simbologia di tipo lunare, a significare la pienezza generativa raggiunta dal corpo, e la maturità fisica e mentale.
Cynthia stessa, la donna elegiaca – ambigua e paradossale – cantata da Properzio, è “ilvolto della luna” (a prescindere dall’operetta di Plutarco, che viene due secoli dopo).
Con l’assunto tradizionale che lo pseudonimo metrico ed elegiaco scelto da Properzio dipenda invece da Apollo Cinzio, viene pressoché meno il carattere ‘lunare’ di Cynthia. Tale prerogativa è invece ben presente e viva, altro enigma o voluta allegoria delle Elegie, testimoniata non solo dal nome di Cynthia – che è quello della “luna” in Orazio, in Claudiano, e persino in Galileo Galilei –, ma è anche corroborato da una grande ragnatela di allusioni, già dalla prima elegia del primo libro, ove si accenna al mito di Milanione che “domò la veloce fanciulla” (I, 1, v. 15), e subito dopo (vv. 19 e ss.) compare infatti l’aspetto lunare di Cinzia, in modo ancor più evidente: << Ma voi, che possedete l’arte di trar giù al cielo la luna / e che sui magici fuochi sapete compiere incanti, / avanti, trasformate l’animo della nostra tiranna, / che il suo viso diventi più pallido del mio! >> (trad. di T. Gazich).
Nessuno l’ha mai colto a fondo, ma è questo un invito, o meglio ancora, una sfida del poeta, a comprendere che cosa “Cinzia” rappresenti, oppure nasconda. Enigma parallelo è quello della vicenda esistenziale e dei dati biografici del cantore di Cinzia. Gallus, la pietosa vittima di un oscuro episodio del bellum perusinum (siamo ormai nel marzo del 40 a.C.), è propinquus o parente stretto del poeta. In realtà non è uno zio, o un congiunto, ad es. un fratello, ma si tratta veramente del padre di Sesto Properzio, che si chiamava Gallo. Non ci possono essere dubbi, nonostante che tale ipotesi non abbia mai avuto degno risalto e corretta comprensione. L’indovino Horos, alter ego di Propertius, ha detto il vero, come del resto non avrebbe potuto mentire o creare confusione. Non ci sono, e non ci potevano essere ambiguità e/o vicende biografiche distinte tra quanto risulta dal Monobiblos dell’esordio e dalla prima elegia del IV libro, quella scritta per ultima. La versione di Horos è il perfetto riassunto della vera e unica vicenda del poeta. Lo ribadisce Vertumnus (IV, 2). Properzio ha perduto suo padre da piccolo. Il padre del poeta si chiamava GallusPropertius. Costui è il morto di Perugia. Suo figlio, genio sommo, un genio della grandezza di Omero, consapevole di sé fin dall’esordio, è stato costretto a fingere, a nascondere, a intorbidare le acque, a tacere l’amara vicenda della morte di suo padre (l’elegia epigrammatica I, 21 è modulata alla grande, con potenza immane, sugli epigrammi sepolcrali greci, ma l’episodio di Gallus non è reale: la realtà fu peggiore assai, più drammatica e più crudele, ingiusta e feroce).
Non esiste alcuna scissione o separazione tra le elegie I, 21 – 22 e la IV, 1. Qui compare di nuovo un Gallus, esattamente come ‘indicatore’. La serie ‘enigmatica’ dei vari Gallus (che compaiono nel primo libro e poi una volta nel quarto), fa parte di uno schema ad hoc. La gemellarità tra Gallus e Lupercus (in IV, 1) assolve lo stesso scopo. La ripetizione martellante dei “pro” in I, 21 e 22 parla come un linguaggio diretto. In VI,1 Horos riassume senza alcuna ambiguità sostanziale il quadro biografico di Propertius. Non poteva essere diversamente giacché si tratta di un’autobiografia essenziale, quindi necessariamente completa, e il genio di chi ce l’ha, consiste esattamente nel dire tacendo, glissando od omettendo. Horos ‘serve’ per capire Propertius, e viceversa. Le Elegie esibiscono enigmi su enigmi, indicando una doppiezza fondamentale: ma c’è molto di più. Le Elegie di Properzio sono un’allegoria e un manifesto politico occulto. Anche se per due millenni sono state lette e apprezzate per i loro molti pregi, ce n’è uno che tutti li raccoglie tutti quanti: ed è l’unum opus (IV, 2). Vertumus aggiungerà quanto Horos non poteva già dire di suo. Non credete alle apparenze. Properzio non è un poeta d’amore. Cinzia non è mai esistita. Il suo cantore è un poeta di morte, un epico passato per forza di cose all’elegia, al carme amoroso: ma non è Apollo e non è Calliope, e nemmeno una donna reale, Cynthia-Hostia, la fonte d’ispirazione (necessaria) di Properzio, falso “Callimaco Romano” nel quarto libro.
Ciascuno ha la sua ombra, e la patisce. Properzio è un gigante della letteratura che ha il suo “doppio”. Ed è bene saperlo, per poterlo apprezzare e gustare meglio: d’ora in poi, scoperto il suo segreto, le Elegie giganteggeranno sull’Esquilino, dove i frammenti dolorosi della verità del ‘cuore’ e dell’ ‘anima’, potenze sublimi, dovranno essere riportati da chi li abbia ritrovati, per riceve il giusto premio, la vera ricompensa (elegia III, 23: le perditae “tabellae” – o tavolette incerate – che Properzio dichiara smarrite, utilizzando alla grande un ‘topos’ elegiaco). Il poeta non abitava sull’Esquilino: ma qui Cinzia era idealmente di casa, alla corte di Mecenate. E qui ritornerà da viva, immortale, dopo che il suo cadavere sarà stato consunto dalla pira funebre (l’anello di berillo al dito, consumato dalla fiamma, è quello di Mecenate, come il “cocchio britannico”, essedum, dell’ultima sua apparizione, di ritorno da Lanuvio – IV,8).
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La critica ha messo in risalto che l’incipit del monobiblos (così Marziale chiamava il primo libro delle elegie, da lui detto anche Cynthia) dipende dal modello o calco di un epigramma di Meleagro (AP 12,101): << Il mio petto ancora non era stato ferito dai Desideri. / Fu Muisco a colpirlo con gli strali degli occhi, e gridava: / “Ho catturato l’audace! Ecco: calpesto coi piedi / il suo orgoglio di sapientone austero”. / Ed io, ripreso il fiato un istante: “Di che ti stupisci, caro ragazzo? / Eros ha cacciato anche Zeus giù dall’Olimpo >> (Deus Caesar et magnusCaesar agnus…: capirete alla fine). La genialità di Properzio è superlativa. Di che vi stupite, se “Cinzia” è un trucco? Per trarre giù dal suo Olimpo romano il principe crudele (Caio Ottaviano diverrà Augusto nel gennaio del 27), Properzio aveva bisogno di introdurre una donna elegiaca, fingendo poi di cantare il vincitore di Marco Antonio e l’egemone crudele (ma nascondendo in certi versi i suoi strali avvelenati).
Che senso avrebbe, per un giovanissimo poeta esordiente di appena 19 anni, che lascerà subito intendere d’essere più grande di Mimnermo, e, persino, di Omero, prender le mosse da “Cinzia”, una donna dai terribili poteri, partendo dal modello ellenistico di un epigramma omosessuale per Muisco? Che senso ha (aldilà dell’aspetto formale di una polemica letteraria con il Virgilio delle Bucoliche e Cornelio Gallo degli Amores, messa in luce da Ciro Monteleone) l’elegia I, 20 in cui, col nome del poeta elegiaco Cornelio Gallo (importante generale romano della campagna d’Egitto nell’estate del 30, poi condannato a morte – e morto suicida nel 26 – per assecondare l’odio di Augusto), si ritorna a un amore efebico col nel mito alessandrino di Ila ed Ercole? Ila sparirà in una fonte, rapito dalle ninfe, le Driadi, come in gioco ottico di rifrazione (il ramo spezzato nell’acqua).
C’è un solo collante, una sola linea guida nella galleria di ‘quadri’ delle Elegie (elegie d’amore ed elegie elogiative di Augusto e del suo potere): ed è una vicenda nascosta e l’odio occulto per il principe. Il resto è un gioco illusorio, un geniale gioco di specchi, il cui senso ultimo non è tanto l’integrazione difficile (oggi, persino contestata, ma in nome delle vuote forme letterarie), bensì l’integrazione impossibile (complice Linceo- Mecenate, il grande dissimulatore).
Cinzia conquistò il giovanissimo poeta coi suoi occhi, e gli pose il piede sul capo. L’epigramma di Meleagro è un pretesto formale, una pura analogia letteraria, la cui evocazione, però, non rimane fine a se stessa, come si è pensato fino a oggi, ma conduce bensì a una sostanza nascosta (l’opera unica è una sola, fin dal suo inizio).
<< Tum mihi constantis deiecit luninafastus / et caput impositis pressit Amorpedibus >> (I, 1: vv. 3 e 4: “E mi spense l’ardito lampo degli occhi / e Amore mi premette il capo coi suoi piedi”). L’analogia formale con Meleagro è un pretesto. Non è stato Amor a calpestare il poeta innamorato, ma fu Roma a schiacciare la sua vita di puer (a 8 anni non ancora compiuti), con un atroce delitto, risucchiandolo poi con la madre, rimasta vedova di Gallus, sacrificato a Perugia, presso il parentado romano (Mecenate compreso). Andare a Roma, da bambino, fu l’occasione perché il genio di Assisi, rimasto orfano, potesse raggiungere i vertici della sapienza letteraria e della cultura del suo tempo, perché potesse educarsi e maturare. Avviandosi, nuovo Demostene e nuovo Cicerone, alla carriera del “Foro”, non poteva proseguirla, perché ormai “delirante”, sotto il principe di Roma, crudele e potente (tonare verba sarebbe stato un suicidio).
“Apollo” gli dettò allora alcuni pochi versi (i due epigrammi del Monobiblos, capolavori assoluti), e le Elegie – piene di finzioni – saranno gli “accampamenti militari” vittoriosi e vendicatori davanti agli dei e alla moira. Gli Etruschi scrivevano al contrario. Etrusco, il cangiante dio Vertumnus. Etruschi gli “dei materni” [Etrusco –la famiglia paterna era originaria di Perugia - anche Mecenate, discendente dagli antichi re di Arezzo, i Cilnii, per linea materna]. La vicenda biografica di Sesato Properzio è proprio questa, sempre che Gallus sia stato suo padre. Ma così effettivamente risulta, interpretando i segnali, e riconducendoli alla verità nascosta (per cui il “Linceo” di II, 34 che gli insidierebbe Cinzia – ma che non è un vecchio poeta epicureo come Vario – è invece Mecenate, e del resto col suo nome iniziava il libro secondo delle Elegie, la cui “amicizia” sfuma addirittura in un rapporto di “cognazione”: la prova è contenuta in I, 22, ultima composizione del Monobiblos, verso 7, e l’abbiamo rivenuta dove esattamente doveva stare: tu proiecta mei perpessa es membrapropinqui, dove pro – per – pro è la chiave da utilizzare).
La sorella di Gallus (la misteriosa soror di I, 21), lo scopriremo dal testo poetico, è una Pro-per-tia, madre di Tullo Volcacio (i Velcha – Volcacii da Perugia si erano trasferiti a Roma attingendo due volte al consolato e ad altri importanti incarichi: Orazio assocerà Mecenate al vecchio console Volcacio, con un’eloquente anfora di vino, sigillata nel 66 a.C.). Cinzia è un pretesto, una geniale creazione letteraria, pertanto accostabile al nome altisonante e venerato di Augusto, giacché donna inesistente (Apuleio si sbagliava di grosso, rifacendosi a grammatici precedenti: nessuna Hostia da Tivoli, figlia del mostro sessuale Hostius Quadra, e nessuna Roscia da Lanuvio). Va da sé che Properzio non nomini Orazio nelle Elegie, ignorandolo: il poeta di Venosa, intimo di Mecenate, era un cantore di Augusto (il Carme Secolare fu composto nel 17, per il ciclo dei 110 anni, soprattutto con lo scopo di celebrare la politica di Augusto).
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Questo lascia intendere Properzio, esagerando il suo furor, l’insania e la nequitia; la causa non è Apollo, non è Calliope, e nemmeno Cinzia, donna inesistente. E il suo “doppio”, l’indovino verace Horos, tramite un’inversione di ruoli lo confermerà con abbondanza di particolari, se si riesce a seguirne il filo nascosto. Il poeta dell’antica Umbria avvilita dai “pallidi roghi” (le famigerate arae perusinae delle idi di marzo nell’anno 40), il falso “Callimaco Romano” non canterà mai “Roma”, rifugiandosi nella sua “Musa lieve”, ma grondante di “lacrime” e di “dolore”: fino a quando una parousa, una revenante alla Flegonte di Tralle, gli comparirà da morta, per poi stabilire “nuovi patti sull’acquoso Esquilino” (elegie IV, 7 e 8) Cinzia è immortale, antica e nuova come la luna (e come l’Umbria, che è terra ‘deucalionica’, di lacrime e pioggia).
Propertius non aveva compiuto otto anni quando suo padre Gallus fu sacrificato dal crudelissimo Ottaviano alle idi di marzo del 40. Spiegherò in seguito come possiamo sapere che fine fece Gallus, e, addirittura, perché possiamo conoscere anche il mese stesso in cui Properzio è nato, mentre Cinzia ha ben tre “compleanni” (IV, 5, vv. 35-36), di cui quello vero (elegia III, 10), per “Cinzia-Luna”, è il solstizio d’estate, quando appunto la ‘casa della luna’ si trova astrologicamente collocata nel segno del “Cancro”.
Le parole dell’indovino Horos (nell’anno 33 a.C. Ottaviano aveva cacciato da Roma gli astrologi) si chiudono con un severo ammonimento, apparentemente incomprensibile: << octipedis Cancri terga sinistra time! >> (“temi il dorso funesto del Cancro dagli otto piedi!”). Ed è una maledizione per Caio Ottaviano, con un gioco di parole, e uno strano oroscopo, che non ha nulla a che vedere con quello di Orazio (Carmina II, 17: vv. 17 – 30), ma riporta a una data (l’anno 15) attraverso i calcoli del grande anno planetario (con i pianeti esterni Marte, Giove e Saturno).
Nessuno è riuscito a comprendere perché la grande elegia proemiale (IV,1 cit.) del quarto libro, molto probabilmente quella scritta per ultima, possa concludersi in questa maniera, nell’illusione che Propertius veramente aspirasse a essere il Callimaco Romano, però nato nell’anticaUmbria.
E’ parsa incerta la struttura del quarto libro, misteriosa quella primo, probabilmente i due libri intermedi (frammentari) sono invece i tres libelli per Persefone (caeca luna, la dea dei morti).
In base alle indicazioni fornite da Apuleio (Apologia, I, 10) lo pseudonimo metrico di Cynthia, come nel caso degli altri poeti elegiaci d’amore, avrebbe un corrispondente effettivo in una donna reale, che sarebbe stata una Hostia di Tivoli, forse addirittura figlia del malfamato Hostius Quadra, ricordato in un passo delle Questioni Naturali di Seneca, e, comunque, discendente dal dotto romano Hostius, autore di un poema epico-annalistico sul Bellum Histricum del 129 a.C., la guerra vinta da Sempronio Tuditano. Cinzia potrebbe, viceversa, essere stata una Roscia (ed è questa l’ipotesi formulata da un grande studioso J. P. Boucher). Tuttavia, a rivelarne la scelta letteraria, e con ciò l’escamotage, è l’allegoria lunare di Cinzia, mai analizzata a fondo, che invece può essere facilmente dimostrata, raccogliendo e analizzando i molti passi o citazioni che hanno tale carattere, per escludere una donna reale, individuabile e riconoscibile (l’identificazione di Apuleio in una Hostia, che sembra derivargli di seconda mano, potrebbe essere stata falsata dal riferimento testuale al “dotto avo”, traslato da commentatori e grammatici d’età precedente).
Nessuna donna d’avventura, meretix o infamata matrona stolata o vidua, poteva essere accostata, nelle Elegie, accanto al nome di Augusto. La Cynthia del Monobiblos seguita, nei libri successivi, fino all’ultimo, solo e soltanto perché, già dall’inizio, era stata una creazione letteraria necessaria, in cui nascondere e rendere invisibile ben altra bruciante e struggente passione. Il “signor Ego” di Paul Veyne la sapeva lunga. “Killing Cynthia”, un articolo di Paolo Fedeli (2006), finalmente dà ragione a chi (come me) sosteneva che Cinzia non ha alcun riscontro concreto in una donna effettivamente esistita. Properzio non va preso alla lettera, è un caso del anomalo (un caso più unico che raro).
L’inversione Muisco-Cinzia serviva a uno scopo. L’opera è ingannevole (fallax opus dirà Horos). Cynthia – cioè la “luna” – è invece il volto della fanciulla (occhi neri: i due mari lunari). Quel volto, che scorgiamo, a occhio nudo, nell’immagine azzurrina e chiaroscurale della luna piena. Però nella luna rotonda che sorge a ovest si può ‘vedere’ anche un teschio, con le sue due grandi orbite vuote.
La puella amata dal giovanissimo Properzio – Cynthia – in realtà una donna più anziana di lui, e col nome stesso della luna, una donna d’alto bordo, ma decaduta a rango di cortigiana, se non una quadrantaria, una meretrix, donna sfuggente, che tra l’altro sembra abitare in più luoghi e avere addirittura più compleanni, sarebbe invece legata alla tragica morte crudele e spietata all’epilogo del bellum Perusinum del misterioso “propinquus”, o parente stretto del poeta, il non identificato Gallus di I, 21, eccezionale epicedio funebre di rara potenza e con struggenti segnali ad hoc. In altre parole, Cinzia sarebbe il simbolo – dolente e ambiguo – dell’Umbria durante il bellum perusinum. [Per cui nel venale “pretore dell’Illirico” – I,8 e II, 16 – andrebbe visto Caio Ottaviano e Augusto nella mezzana che prostituirà Cinzia ormai sul viale del tramonto – elegia VI, 5 seguita da quella su Augusto, contenente l’acrostico ISIS opportunamente defilato per evitarne l’immediato riscontro].
Se potessimo risalire con certezza all’identità del morto di Perugia (l’anno e il mese sono certi), avremmo risolto il più grande mistero delle Elegie. Il fatto che ne stiamo scrivendo, comporta già un’anticipazione clamorosa: siamo certissimi di aver risolto quest’enigma su base testuale e con tanto di riprova (ne tratteremo diffusamente in altri interventi, qui fissando i principi fondamentali su cui si basa la dimostrazione, saldamente ancorata al testo poetico).
Il morto di Perugia è il padre del poeta. La reticenza, tipicamente “alessandrina”, a dichiararne esplicitamente l’identità, deriva dal fatto non gli era possibile farne il nome, e questo dovevano ben saperlo il giovane coetaneo Tullo Volcacio, dedicatario dei Monobiblos, e Mecenate (ma Tullo, nel 29, l’anno dell’esordio poetico di Properzio nella tarda estate, a Roma, doveva già trovarsi a Cizico, almeno da marzo-aprile).
Da qui l’ambivalenza e la doppiezza dell’opera unica (unum opus – dirà Vertumnus), che ha due volti: apparente, formale e di superficie, per chi legge le Elegie soltanto come opera amorosa; e nascosto l’altro, un volto che non si mostra, e che non può neppure essere esibito, ma che nemmeno soggiace. Ed è dunque l’endiadi vita-morte, eros-tanathos, nella pienezza originaria del genere letterario “elegiaco”, che è cantare l’amore e dire parimenti il dolore (ahi-ahi, anche se l’etimologia è assai incerta).
In definitiva, sebbene continui a sfuggire il significato etimologicamente esatto del termine greco elegia, che tuttavia in origine era canto d’amore e anche lamento funebre (con un “piede” in meno nel pentametro, a differenza del metro epico in esametri marziali), “Properzio e il suo doppio” rappresenterebbero l’unità invisibile e indivisibile di un’opera unica, più unica che rara, in cui le ricusazioni verso il genere epico, a favore della Musa lieve, fanno parte del “gioco nascondere”, per usare un’espressione del poeta novecentesco Lucio Piccolo.
I primi tre libri delle Elegie, i “tres libelli”, sebbene soltanto il primo libro sia un vero e proprio canzoniere amoroso, contenendo gli altri due libri delle composizioni extra, dedicate a Ottaviano Augusto, con excursus vari di “metapoesia” (discorso in poesia sulla poesia), non hanno comunque perduto il loro carattere ‘lunare’, con molte allusioni in questo senso, e se – appunto – dedicati a Persefone (la luna nera della caeca nox nell’intervallo dei tre giorni senza luna, prima che il falcetto della luna nuova rispunti a est, da Perugia per chi vive da quelle parti). Il simbolo dell’antica Umbria, la verde e fertile pianura centrale solcata dal Clitunno e dal Tevere, tra Spoleto, Bevagna, Assisi, Todi e Perugia, era il sole (usil) che sorgeva dai monti e la luna (tvr) nuova che rispuntava a ovest, dopo circa 30 giorni, era il simbolo degli Etruschi di Perugia. Simboli coniugati dell’alleanza tra gli umbri e gli etruschi, separati dal corso del Tevere, ma ormai legati da forti interazioni: l’antico fanum di Spello era collegato al fanumVoltumnae della lega delle dodici città etrusche (lo sappiamo dall’età di Costantino per mezzo del rescritto di Spello: il fanum Umbriae – cancellato dal culto e dalla memoria degli Umbri per interdetto di Caio Ottaviano a causa del bellum perusinum – era caratterizzato dalla prerogativa astronomica di trovarsi esattamente a 43 gradi di latitudine, per cui l’altezza stagionale del sole variava in funzione dell’inclinazione dell’eclittica, ovvero dell’asse di rotazione terrestre in termini di astronomia eliocentrica, costituendo l’umbilicus Italiae).
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Il Monobiblos fu pubblicato nell’anno 29, e non nel settembre del 28, che è il termine ultimo possibile. I Fasti Siculi riportano che il 20 agosto del 29 a.C. ci fu a Roma un’eclissi totale di sole. Si è soliti affacciare l’anno 25 per la pubblicazione del secondo libro, l’anno 22 per il terzo, e l’anno 15 per il quarto libro. Queste datazioni, ricavate in base ai riferimenti interni, potrebbero essere errate per diverse ragioni: una riedizione dei tres libelli, con aggiunte; la frammentazione dell’opera, trasmessaci dai codici, di cui nessuno è veramente antico; la suddivisione originaria probabilmente in 5 libri, anziché in 4. Tra l’altro, alcune elegie potrebbero mancare all’appello, molte di esse potrebbero aver avuto una diversa sistemazione, mentre altre elegie del secondo libro, il più tormentato, appaiono senz’altro frammentarie. Ciò nonostante, l’opera possiede una sua profonda unità. Tranne il Monobiblos, opera dell’esordio composta di 22 elegie (20 + 2 epigrammi di sphragìs), che non è firmato, gli altri libri contengono al loro interno il ‘nome’ dell’autore, e c’è una ragione anche per questo. Tullo Volcacio, giovane coetaneo di Properzio, ne è il dedicatario, ma non il finanziatore (del resto Tullo doveva già trovarsi a Cizico, in Asia Minore). C’è un gruppo di amici sullo sfondo (amici patrii), e, in particolare, due poeti (dei puri nomi, poiché di essi nulla è restato): il poeta epico Pontico e il poeta giambico Basso. Ci sono poi vari Gallus, uno diverso dall’altro (tutto fatto apposta: i nomi delle Elegie nascondono le identità, che dovevano però essere note in un gruppo ristretto, in cui forse circolava, nel massimo segreto, qualche sottinteso pesante).
Fu Mecenate a pagare la bottega dei famosi fratelli Sosii, editori altresì di Orazio, che stavano nel vicus tuscus, a due passi dal “Foro”, accanto all’arco di Giano, al tempio dei Dioscuri, e alla statua ammiccante di Vertumnus che proveniva dall’antica Volsinii, saccheggiata dai romani nel 264 a.C. [Le Elegie vanno lette così, per poterle intendere]. Ligdamo, che comparirà in seguito, negli ultimi due libri, dapprima come servo di Cinzia, e poi come servo di Properzio, molto probabilmente è Ovidio. Rimangono invece incomprensibili i riferimenti ad altri pseudonimi, come “Panto” e “Demofoonte”. A Lycinna (III, 15), la schiavetta che avrebbe introdotto Properzio all’amore, negando il primato di Cynthia, non appena gli fu tolta la “toga pretesta”, sono dedicati 10 versi, segue poi il mito di Dirce (32 versi), con una conclusione di 4 versi, che sembra riferita a “Cinzia”, senza farne il nome. Ciò rende un’idea sull’inattendibilità di Cinzia donna reale e sulle stranezze di Properzio. “Sono passati tre anni (o poco meno)”, con Licinna ha scambiato dieci parole, e dieci sono i versi. Licinna, la schiavetta (se accettiamo una radice etrusca del nome), o una piccola ‘luna’.
Il sentimento del tempo, nelle Elegie, è costantemente rivolto al ricordo: mancano diacronia e sviluppi, c’è una ‘storia’ d’amore, che già nata da più di un anno, e che non avrà mai termine. Ci sono invece delle lezioni di poesia, e una storia letteraria dell’elegia; e c’è un Lynceus (II, 34), che può essere solo Mecenate. [‘Properzio segreto’ ci metterà in grado di capire anche le lezioni di poesia e di intendere il suo disprezzo per la nascente Eneide, ma non per il suo grande autore, Virgilio, accanto alla distanza che corre tra lui stesso e i suoi predecessori romani nell’elegia soggettiva: scopriremo persino che la definizione di “Callimaco Romano” che applica a se stesso, è provocatoria e insincera, almeno nel senso che lui, Properzio, non solo è il più grande di tutti, ma non assomiglia a nessuno]. “Ombre”, come queste, ombre di pena e di passione struggente, intervallate dal lusus, ma con frecce velenose nei riguardi di Augusto, investono in pieno la storia della letteratura latina in età augustea, con l’Esquilino, che è la reggia letteraria, non il colle dove il poeta abitava, e la complessa – e ambigua – figura di Mecenate, il cui nome sta nascosto nel Monobiblos, prima d’inaugurare in modo palese il secondo libro. E’ vero che il testo delle Elegie non ci è pervenuto integro, che nessuno dei codici è veramente antico, che il prototipo di tali codici è andato perduto, e che il testo è incerto. Ma possiamo ritenere che i due epigrammi di ‘sigillo’ che chiudono il Monobiblos siano rimasti inalterati. Il prototipo era un codice conservato in Francia, probabilmente nella biblioteca palatina di Carlo Magno (forse era la trascrizione di un altro codice appartenuto a Decimo Magno Ausonio che era originario di Bordeaux).
Persefone è la dea generativa delle messi, il grano che matura sotto terra. In realtà, è la luna infera. Ed è questo il senso in cui Properzio la cita (cfr. II, 13, 25-26 e II, 28, 47-48). Anche tali richiami, tra i tanti che potremmo fare, comportano sempre la medesima allusione a un substrato nascosto. Sarebbe troppo lungo soffermarsi analiticamente sui tanti nessi occulti, ma è certamente strano, ed è quantomeno singolare, che nel secondo libro si accenni già al terzo (tres libelli), quando poi in altri luoghi il poeta indugia a rimarcare che queste elegie per “Cinzia” procedono a getto continuo. Si dovrebbe invece cogliere il sottinteso costantemente allusivo di una reale doppiezza, in primo luogo concettuale, cioè anomala rispetto agli elegiaci in genere, e in particolare Tibullo, suo contemporaneo, ma sempre taciuto, proprio per evitare che le Elegie per Cinzia possano essere confuse con quelle per Delia (elegie dedicate a una donna reale).
Il linguaggio poetico di Properzio è singolare: appare ‘desultorio’, con rapidi passaggi concettuali e sintattici, inaspettate svolte, sbalzi di tessitura ecc. Lo sfoggio mitologico e antiquario è un dato caratteristico. Sembra, cioè, che voglia perseguire uno scopo occulto, che va oltre Cinzia elegiaca, pur mettendola in primo piano. La forma letteraria, colta e a sfondo erotico, è un’illusione di facciata: degna di un genio devastante. La sostanza dell’arte del grande poeta umbro riposa in un segreto condizionante. Molte elegie, in sostanza, sono come l’incalzante orazione o discorso di un grande avvocato, con tanto di sintetica conclusione lapidaria. Assomigliando a dimostrazioni, in realtà appartengono a un intricatissimo labirinto di anticipazioni e di rimandi continui, a un discorso occulto.
Il quarto e ultimo libro non è una raccolta occasionale, come qualcuno ha sostenuto, ma lo scrigno dei segreti. Properzio ha raggiunto intenzionalmente la sua vetta: di nascosto, altro fingendo, ha sistematicamente falsificato le visioni dello “scudo di Enea” nel sesto libro dell’Eneide (Ottaviano, nel gennaio del 27, quando fu proclamato “Augusto”, con un termine su cui Svetonio ha cercato di fornire qualche stramba indicazione filologica riconnessa all’avium gestum o gustum, ricevette uno scudo aureo), con la contraffazione (elegia IV, 6, volutamente inserita all’interno del singolare gruppo delle tre sorprendenti elegie per Cinzia) del Carme Secolare di Orazio, celebrativo nel 17 di Roma e del suo principe, crudele assassino di Gallus, il misterioso morto di Perugia, al termine del bellum perusinum. Fili intrecciati legano tra loro i carmi (falsamente) celebrativi di Augusto, già a partire dall’allegoria del pretore dell’Illiria (I, 8, e, specularmente, II, 16), nei cui rozzi panni si cela il giovane Ottaviano diciannovenne. Svetonio ricorda, accanto agli episodi di crudeltà scatenatisi a Perugia, nel marzo del 40, che il principe non temeva libelli denigratori e che amava i vocaboli curiosi e i giochi di parole. Properzio, suo nemico giurato a ragione della tragica morte del padre, sacrificato a Perugia, alle idi di marzo, sull’altare di Giulio Cesare, non potrà che odiarlo. [Gallus, il morto parlante anonimo di I, 21, che sarebbe stato ucciso nelle retrovie, in un’imboscata, nel marzo del 40, credendosi ormai in salvo, non è solo una maschera di sangue, come un eroe antico, ma è un preciso capo d’accusa nei confronti del “principe di Roma”: Properzio tacerà, inventerà un’altra storia, alquanto improbabile, erano ormai trascorsi dieci anni e nessuno del Foro dei suoi lettori si domanderà a chi alludesse, ma vorrà concludere la Cynthia - “letta in tutto il foro” - con questo episodio accuratamente preparato, nel quale si concentra, si focalizza e si risolve automaticamente il significato dell’opera d’esordio poetico che non avrebbe esposto a rischi Tullo Volcacio, già a Cizico, ma chi c’era effettivamente dietro, vale a dire Mecenate. “Ombre” di questa grandezza patiscono i “Mani” e sfidano il “Fato”. Un verso di Horos, militiam Veneris blandis patiere subarmis, “scriverai elegie ingannevoli, qui i tuoi eserciti”, e militerai sotto le dolci armi di Venere , contiene in sé racchiusa un’altra rivelazione: < silenda verba sub armis mei paterni militis > con una riprova nei versi a seguire: nil erit hoc: rostro te premet ansa tuo – “i trofei di vittoria li rende vani una donna, anche se riuscirai a liberarti dall’uncino, che ti sta confitto nel mento, a niente servirà: l’amo ti terrà saldo per il becco = <Horos terret Caesarem: potiti nolunt >] .
Fingendo di rimanere nel coro letterario degli adulatori, guidato e controllato da Mecenate fino all’anno 23, Properzio si è servito delle sue Elegie come di un “cavallo di Troia”, tessendo “una tela di Penelope, arte diMinerva Pallade”.
Paradossalmente, Mecenate, fautore etrusco dell’antica monarchia, eccelso diplomatico di Caio Ottaviano, ha assecondato il giovane Properzio, fin già dall’esordio la “Cynthia”. Consapevole del rischio, Mecenate ovviamente non si esposto, anzi è stato ben defilato: per comparire, in chiaro, subito dopo (nella prima elegia del secondo libro), quando scombinando la cronologia degli eventi (chiaramente lo ha fatto apposta), Properzio concludeva, davanti a Mecenate, con gli eversos focos della “antica gente” di Perugia, ribadendo la pulvis etrusca, dolor! del finale anonimo del primo libro. Se vogliamo chiudere gli occhi davanti al mistero, che esiste, e che reclama soltanto di essere snidato, non possiamo tuttavia rimanere sordi davanti alla potenza sublime di certi versi. La grande arte dei sommi poeti è fatta di finzioni e di verità potenti. E’ necessario rimanere “vigili”, non arrestarsi alle (pur magnifiche) apparenze: la “veste Coa” di Cinzia è forma potens e verbalevis – come il contrario: Ho veduto i roseti profumati di Paestum, pareva fossero eterni; / l’indomani, giacevano appassiti al soffio di Scirocco (IV, 5, vv. 61-62). Propertius si è sottratto agli obblighi del poeta cortigiano. Il suo argomento è Cinzia (una finzione), la sua vocazione è l’elegia. Canterà Augusto, ma ne ha già preso le distanze. Si ritiene che Mecenate abbia cooptato il giovane poeta subito dopo il successo del Monobiblos, ma ciò è falso, anche se il libro secondo sembra intervallato da un paio di anni. Anche Properzio è un poeta promosso (e finanziato) da Mecenate, che ne conosceva i segreti.
Horos va compreso. Il suo discorso serve a capire “Properzio segreto”. Non è per Cinzia. Il cruccio, il dolore sommo, la passione di Propertius sono altre; né mai canterà i destini, i fata di “Roma”. Sotto le Elegie si nascondono le ‘armi segrete’ di Gallus. Il nemico è Caio Ottaviano Augusto. Sarà maledetto di nascosto. Le ultime parole di Horos: octipedis Cancri tergasinistratime!, verso misterioso, contiene le iniziali di Caio Ottaviano. Questo verso, marcato dalla presenza seriale di tre parole, può essere trasformato in una maledizione (C. Oct. irrita sede criminis petat signa), e la sequenza ordinata terga – sinistra – time è un rinvio progressivo ai corrispondenti versi della conclusione del terzo libro (elegie III, 24 e 25 del “discidium” da Cinzia), che contengono la stessa o affine parola (questi tre versi si trasformano in altrettante maledizioni contro Roma e Caio Ottaviano Augusto, giustificate anche dal tema astrale del segno del Cancro, che è la casa della luna, e dalla dottrina neopitagorica delle anime tra Cancro e Capricorno).
* In ogni caso, anche se tali estensioni fossero troppo azzardate, Caius e Gaius sono la stessa cosa, rimane che i due epigrammi di dieci versi ciascuno, conclusivi del Monobiblos, contengono effettivamente il segreto di Properzio, che attendeva solo di essere scoperto.
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La facies lunae quae in orbe apparet – come scriverà Plutarco due secoli dopo – è l’ambiguità di Cinzia, falsa donna elegiaca, sebbene cantata come tale, alla quale perciò tutti hanno prestato fede, come se Properzio fosse un altro Tibullo, cioè un vero elegiaco d’amore, senza accorgersi che nelle Elegie, a partire dal Monobiblos, sono presenti segnali e avvertimenti di falsificazione, ovvero di doppiezza. Se si riesce a dimostrare che “Cinzia” è una protagonista elegiaca inattendibile, ecco che le apparenze si dileguano. Cinzia è più di Cinzia, è molto più “potente” ed è molto più “sottile”. La Musa di Properzio non è Apollo, non è Calliope. La follia del dolore implacabile ha un’altra causa. Viceversa, se dall’ombra i cui sono state nascoste le rispettive identità: di Gallus, della soror, di Mecenate e di Properzio quale autore, compreso l’Esquilino, emergeranno i nomi al termine del primo libro, che è apparentemente anonimo, avremo conseguito la medesima prova della strumentalità di Cinzia.
Le vicende dell’ultimo Virgilio nel 19 a. C., anno della morte, la sorte poi toccata a Ovidio (la relegatio nel lontano Ponto Eusino dell’anno 8 d. C.), l’esclusione stessa di Mecenate dalla direzione delle lettere dopo la congiura di Murena nel 23 a.C. (Murena era il fratellastro della moglie di Mecenate), non lasciano intravedere alcun quadro idilliaco nella letteratura augustea, che si è soliti elogiare per altri valori. Augusto è un tiranno, tiranna è anche Roma. Con Augusto è iniziato l’Impero, con l’impero siamo entrati un’epoca dove tutto muterà.
Racchiuso già nei primi versi, il Monobiblos contiene il segreto inconfessabile di Cynthia-Luna,con la “doppiezza” del suo cantore. Chi vuole scoprire il segreto di Cinzia deve comprendere ciò che di singolare e anomalo suggeriscono le stesse prime immagini d’ouverture. Cinzia, da subito, si nasconde nell’allegoria amorosa – e mortuaria – della luna. La sua tremenda potenza sembra derivarle da un fondo invisibile. E sarebbe il primo caso, in tutta l’elegia antica: un caso unico nella storia mondiale della letteratura, che le nostre osservazioni e i nostri risultati confermano in pieno.
Il giovanissimo Properzio, al suo esordio nel 29 (un anno dopo la sconfitta di Marco Antonio e la conquista dell’Egitto), sa già di essere di più grande di Mimnermo, e più grande di Omero (‘colui-che-non vede’), come egli stesso suggerisce (I, 7 e I, 9, vv. 11-12).
<< Plus in amore valet Mimnermi versusHomero: /carmina mansuetis lenia quaerit Amor >> (“In amore vale più di Omero il verso di Mimnerno” / e perciò poesie delicate esige il teneroAmore”). Poesie delicate, quelle del dolore? Se è Properzio stesso ad adombrare con orgoglio la sua grandezza, una ragione ci deve essere, a parte l’ardito passaggio che i versi d’amore supererebbero il genere epico. Non fatevi ingannare da un falso poeta d’amore costretto per primo all’inganno. “Amore tenero” e “furore” non si conciliano. Dunque, è vero: Properzio si è dovuto nascondere. Ed ecco che il famoso distico (I,9: sopra riportato), si rivela nel suo vero significato: Memor Homeri versus Minerva pellit manu: / quia Roma erat lena carmini manet usus. E’ vero, è saltata la metrica; ma ciò che conta è l’elemento sostanziale rivelato: Minerva memore d’Omero respinge i versi con la mano: / poiché Roma era ruffiana al mio carme rimane l’uso appropriato. Qui avremmo la smentita della “metapoesia” elegiaca. Cinzia è una finzione, anche se consegnerà Properzio all’immortalità.
< Minerva memor Omeri >. Gigante letterario, Properzio è stato costretto a fingersi altro da sé. Il folle delirio del poeta ha un’altra ragione. << E’ già tutto un anno che la passione mi ha avvinto, / costretto a vivere con gli deiavversi >> (“adversos Deos”, cioè “contrari”). Significa che c’è anche un’inversione del canto (“odes” è un anagramma). Il sovvertimento della ragione (nullo consilio) riguarda i versi stessi, i pedes, nel significato nascosto di odium, il contrario di Amor (id est Roma). Deus Amor contrapposto a Deus Caesar. Col grande Augusto, Magnus Caesar, che sarà trasformato (IV, 8) nel “nano Magno”. Certo, non basta giocare agli anagrammi (in tal caso dispregiativi e rivelatori, come elogiativi erano invece quelli, molto brevi, di Licofrone di Calcide, nei confronti della Coppia regale alessandrina, Tolomeo e la bella regina Arsinoe). Tuttavia Properzio si è veramente criptato nelle due elegie epigrammatiche di sphragìs o “sigillo” del Monobiblos (I, 21 e 22), e questa scoperta basta e avanza per mettere in crisi il paradigma, Cinzia per prima.
Le ombre sulla letteratura latina d’età augustea derivano da “Properzio segreto”.
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Il nostro Properzio lo ritroviamo sul lettino da ‘psicanalista’ di Antonio Musa: << La perdita di tuo padre, la morte tragica di altre persone non possono non averti profondamente segnato fin nella fanciullezza. Il dolore, vissuto come ‘ingiustizia’, ha sicuramente fatto di te un bambino che si avvinghia all’oggetto amato nel tentativo di non perderlo mai più Ma ciò provoca l’insaziabilità del desiderio, l’esperienza di fratture seguite da vani tentativi di ricomposizione, Soltanto la adulta consapevolezza delle tue ferite, della tua fragilità e del dolore che determinano oscuramente ogni tuo comportamento, ti condurrà a vivere la tua persona nella interezza e non solo nei suoi più vistosi e bizzarri tratti interiori >> (Luca Canali, op. cit.).
Sembra che Antonio Musa abbia scoperto il segreto del poeta, ma non è così. Egli accenna a delle “ombre”, che stanno in tutti noi, che dobbiamo saper riconoscere. << Ecco, Properzio: Cinzia non rappresenta altro che l’espressione viva di questo tuo ditirambo interiore (un canto in onore di Dioniso). Ribalti il sentimento di abbandono in un delirio del tuo “io”, un delirio di potenza, e di non indispensabilità dell’altra. Non è forse questo il motivo dominante anche in tutte le altre aree della tua vita? Questo il segno della tua fragilità…>>.
Musa non ha compreso a fondo, sebbene abbia colto che il poeta ha un suo “doppio”. Ecco poi, quanto – sempre come psicanalista – Musa afferma di Cinzia: << Potremmo tuttavia dire che con il tuo libertinaggio ti sei messo in condizione di averne una moltitudine. Poi è entrata nella tua vita Cinzia, una donna libera di costumi, anch’essa aggressiva, incostante ma appassionata, che ti ha sempre restituito i colpi che tu le vibravi. E così sei divento un fascio di rabbia e di nervi. Ce l’hai col mondo, con i rivali, con la tua stessa donna… Conosco le tue Elegie; v’è in esse tutto di te, la passione sfrenata, la carnalità, il dolore, tristezza, ma anche l’estasi. Quando scrivi, allora soltanto attingi alle fonti primitive e genuine della tua anima, attingi alle tue ‘ferite’, a quel tuo anticodolore fondamentale per la morte prematura di tuo padre, a quel tuo sradicamento cui hai contrapposto un vitalismo eccessivo, fatto anche di collera. Ma quando le tue difese e i tuoi schemi si abbassano, il dolore rampolla con nuova veemenza, e sorge in te il bisogno di un legame intensamente affettivo con un altro essere umano, naturalmente femminile >>.
Musa ha scrutato nell’ombra, vi ha visto la morte, intuisce che si tratta di “eros-thanatos”, ma non ne comprende le più nascoste, indicibili ragioni. Semplicemente, come tutti noi per due millenni, Musa non ha letto bene l’opera di Properzio, crede di conoscerla, ma non è così. Non si è reso conto che le Elegie sono veramente “ingannevoli”, che esse rappresentano una specie di “cavallo di Troia vincitore”, un’inesausta “tela di Penelope”, cioè le arti – ma anche gli inganni – di Minerva Pallade, la grande dea dell’intelletto protettrice di Assisi, come lo era stata per Ulisse. E la città dell’Umbria antica, sconfitta nel bellum Perusinum per inganni politici e nelle torbide trame romane, come Troia s’incendia ai tramonti dalle mura fino all’arce sacra.
Dimostreremo che Properzio è veramente nato ad Assisi; che a Perugia alle idi di marzo del 40 trovò la morte, crudele e ingiusta, suo padre Gallo, sacrificato sulle are di Perugia insieme con altri trecento personaggi o capi umbri che si erano ribellati alle requisizioni delle terre, la triste pertica, e alle contorte e faziose trame romane; che Propertius-Horos, elegia per eccellenza della doppiezza, rappresenta anche il suo ‘ritorno a casa’ (come Ulisse, ritornato finalmente a Itaca). Minerva e l’arce sacra alla dea di Assisi, mens Bona, rappresentano lo sfondo sottinteso del ritorno da Roma.
[Mens bona, si qua dea es, la recuperata saggezza, dopo la rottura con Cinzia (finale del terzo libro), altro non è che Minerva, mens bona deaque Asis].
Che Assisi sia la città natale di Properzio, lo proclamerebbe Horos, al quale è stato affidato un compito biografico essenziale, completo e dettagliato, ancorché nelle sue linee strette: Asis è Assisi.
Le trascrizioni dei codici hanno reso incerta quest’indicazione, nella triplice forma di Asis – secondo l’emendamento metrico di G. Bonamente rispetto a quello in Assisi del Lachmann – oppure arcis o axis, nonostante che una copia di lapidi assisiati ricordi la gens Propertia e la stessa domus Musae o “casa di poeti” rimandi, secondo Margherita Guarducci, al poeta delle Elegie. Che sia “Assisi” lo conferma più volte “Properzio segreto”, a riprova della genuinità delle cifre nascoste. La trascrizione Asis è poi quella corretta, in base al numero omogeneo delle “esse” (6), tra IV, 1, vv. 65 – 66 (Propertius) e vv. 125-126 (Horos).
Il poeta discendeva da una nobile schiatta, che aveva già dato dei maroni (cfr. Ve 236), e, forse, anche un antico re del Lazio. Alla gens Propertia, di rango senatoriale, appartenevano vaste proprietà terriere, che da Assisi potevano estendersi a Bevagna e a Bettona. Chi fa nascere Properzio a Collemancio, cioè Orvino Ortense, oppure a Spello ecc., non ha afferrato nulla – in buona compagnia – degli arcani ‘risvolti’, delle ‘ombre’ misteriose delle Elegie, dei suoi ‘luoghi’ innominabili.
Nel regno delle “ombre”, nel “doppio” del poeta della “patria sua dell’Umbria”, aruspice verace, si cela invece la traccia di un poema frammentario, come quelle “ossa disperse sui monti Etruschi”, le povere “ossa” dell’innominato martire di Perugia e dagli altri eroi sacrificati da Caio Ottaviano.
La parola ossa, insieme a Cynthia e amor (cioè ‘Roma’), è quella più ricorrente. Queste frequenze costituiscono altrettante indicazioni. La storia d’amore con Cinzia, “non toccato ancora dalla passione”, nasce già al passato. “Ormai tutto un anno”. Essa è dichiaratamente un racconto, una galleria di quadri o topoi elegiaci, una narrazione altrettanto frammentaria, senza diacronia, ma di una straordinaria bellezza, che si accresce nella misura in cui Cinzia sfugge alla comprensione razionale e di lei si toccano le tante, troppe inconciliabili contraddizioni.
La luna, nel suo andare e ritornare del ciclo mensile in 4 fasi di 7 giorni ciascuna, era l’antico orologio che scandiva il tempo. Il mese lunare costituiva la base del primitivo calendario agricolo ‘numano’. A Nortia, la dea lunare di Volsinii etrusca, era dedicato il tempio degli annali, sulle cui lignee porte era piantato un chiodo per ogni anno trascorso (l’anno lunare è composto di 354 giorni).
Gli studiosi hanno cercato di individuare la struttura del Monobiblos proponendo elaborate soluzioni formali. Un tentativo fu compiuto da Otto Skutsth, nel 1963, ritenendo che il progetto iniziale contemplasse 20 elegie, alle quali sarebbero stati aggiunti i due epigrammi di sphragìs o di ‘sigillo’ poetico (negli altri libri Properzio si firma in un modo o nell’altro, mentre la Cynthia rimane anonima, sebbene attribuibile a un poeta nato in un luogo posto nel cuore dell’Umbria, vicino a Perugia). Questo e molti altri dotti tentativi (da parte di Rothstein, Hosius, Butler – Barber, Camps ecc.), estesi anche agli altri libri, non conducono a nessun chiaro risultato. Si tratta di elaborazioni troppo complicate, di alchimie alquanto improbabili, che poi non potrebbero corrispondere alle schiette intenzioni di un poeta che si dirige ai propri lettori, i tanti avidi lettori del “Foro”, dove la Cynthia riportò successo, ma forse anche ai pochi iniziati di una congiura italica contro l’egemone di Roma, Augusto, tra i quali un testo occulto dell’opera poteva circolare in modo riservatissimo (i patrii amici al capezzale di Cinzia ammalata).
Nel 1982, raccordandosi a Skutsch, Thomas N. Habineck, professore all’Unversità di California, Los Angeles, ha ipotizzato che la struttura di 353 distici complessivi (un numero primo – n.d.r.) del Monobiblos corrispondesse ai giorni dell’anno lunare, per cui lo scarto in un biennio rispetto all’anno solare (indicato da Arato di Soli in 731 giorni), sarebbe pari al numero stesso delle elegie del primo libro (22), corrispondente all’intercalare di giorni per il passaggio dal calendario lunare numano al calendario solare cesariano del 46 a. C.
Habineck si sofferma anche su alcuni esempi di acrostico, citando Virgilio (Georgiche, I, 427-433). Abbondante è la letteratura specialistica sui giochi di parole nell’antichità e ad Augusto piacevano i vocaboli curiosi e i giochi verbali (Svetonio 87, 1-2).
Qui contano i collegamenti tra la luna e Cynthia e l’acrostico sillabico verticale MA VE PU, cioè Maro Vergilius Publio, come esempio di allusività letteraria, tertio quoque versu. Leptè, “leggera” in greco, è la luna, nel doppio acrostico, orizzontale e verticale di Arato, nei Fenomeni (versi 783-787). Un esempio di acrostico anche in Orazio: DISCE – DISCERnunt (Carmina, 1, 18, 11-15).
Se al principe di Roma piacevano vocaboli curiosi e giochi di parole, a tali giochi o ad immagini paradossali ricorreva anche Mecenate (esempi riportati da Seneca). In Properzio non si rintracciano altri esempi di acrostici verticali, tranne ISIS, e di versi ricorrenti, del tipo famoso di Sidonio Apollinare. Ma creatore di brevi anagrammi fu Licofrone di Calcide, uno dei sette della Pleiade, al quale è erroneamente attribuito anche un oscuro poema profetico, in trimetri giambici, l’Alessandra o Cassandra, nel quale è riportata una saga di Enea e in un cui verso si citano gli antichi Umbri. Properzio ne avrebbe tratto impulso e metodo per la grande elegia criptica che inaugura il IV libro, Propetrius-Horos. Fatto è che in Properzio si possono notare moltissime indicazioni allusive a una sua “doppiezza” e nelle due elegie epigrammatiche di sfragìs del Monobilbos sono certamente presenti dei chiari segnali che conducono razionalmente ad anagrammi rivelatori. Il che, se non risolve il problema della ricostruzione per tentativi dell’eventuale testo soggiacente, tuttavia ne facilita di molto l’argomento di riferimento, la continua memoria di Gallo, fino alla sua possibile glorificazione celeste (ossa veahntur avis è alla fine dell’opera, sebbene alcuni codici portino aquis, ma ciò sarebbe un’interpretazione neopitagorica concettualmente conforme).
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Nel Monobiblos appartengono a Cinzia 7 elegie; misteriosi Gallus (uno diverso dall’altro) sono citati 5 volte; Tullo Volcacio è menzionato 4 volte; due volte Pontico, e una volta sola Basso. Costoro sarebbero gli amici di I,1, 25, che poi – in III, 24, 9 – s’affacciano nuovamente, al momento del (falso) discidium da Cinzia, divenendo patrii amici. Ecco dunque una serie di esempi intrecciati degli enigmi che le Elegie contengono. A conclusione del terzo libro, filtrata da elegie allusive, come quella dello smarrimento delle tavolette d’amore, però scritte da Cinzia, sembra che Properzio abbia riacquistato la sua sanità mentale, mens Bona, per dirigersi a nuovi temi (le elegie antiquarie del quarto libro, con 11 composizioni in tutto, il cui numero sembra corrispondere all’intercalare di giorni tra il calendario lunare e quello solare: 22 giorni per un biennio, cioè il numero delle elegie del Monobiblos). Eppure Cinzia compare di nuovo tre volte nel quarto libro, smentendo il discidium [cfr. I, 11, v. 28 - per l’uso primitivo del termine, con Cinzia a Baia: multis ista dabunt litora discidium, “queste spiagge per molti saranno causa di separazione” e d’addio = discidium), che nemmeno la teoria del carmen mixti generis – elegie d’amore e temi antiquari – può artificialmente giustificare (Properzio non ha imitato Callimaco nelle c.d. elegie romane del quarto libro, contrariamente a tale teoria).
Per forza di cose, quest’opera unica – “opera fallace” dai “molti aspetti o pregi differenti” – deve contenere un suo massimo segreto, cui tutto sarebbe asservito, compreso il servitium amoris e il furor. Un amor che dunque va oltre l’ombra della morte, che non contempla alcun discidium e che anzi si risolverà in un ritorno celeste agli avi gloriosi delle ossa del morto (anonimo) di Perugia (formalmente le ossa di Cornelia nell’elegia della fedeltà che chiude il capolavoro solitario di un poeta diverso).
Nel breve spazio di una conferenza, per un ‘tema’ tanto ardito quanto rivoluzionario, ci dobbiamo accontentare delle “ombre”, con la suggestione di “amore/morte”: << Non ego nunc tristis vereor, mea Cynthia, Manis, / nec moror extremo debita fata rogo >> (I,19 – Cinzia, io non temo le tristiombre di Mani, / né destinato al rogo mi curo del fato). Con questo filtro, e poi anche attraverso l’elegia I, 20, quella del mito alessandrino di Ila, si arriva ai due epigrammi gemelli di sfragìs, che costituendo il finale inatteso dl primo libro, contengono il grande segreto di tutta quanta l’opera unica, ovviamente intesa nella sua unità. “O mia Cinzia, non temo la morte, e dei miei fati non mi curo: ma è il timore che tu venga a mancarmi, questo è il vero lutto ”. L’arte va oltre il tempo. Properzio lo sa benissimo. Com’è possibile tanto attaccamento per una donna mai esistita? La finzione letteraria, che tuttavia nasconde nel suo “doppio” una potenza tragica, serve a introdurre al culmine del Monobiblos la sfragìs, che dà significato a tutto il libro e poi a tutta quanta l’opera, che è unum opus - fallax opus (Vertumno e Horos).
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<< Cynthia prima fuit, Cynthia finis erit >>. “Cinzia è stata la prima, e Cinzia sarà l’ultima”. Il proclama elegiaco di Properzio, così come unica e unitaria è l’opera: appunto, unum opus, possiede una seconda verità: < Cynthia pristini iure fati, Cynthia F. M. > (Cinzia, secondo l’atavico fato, è Cinzia, la mia vera moglie – Foemina Mea). Oppure, < quidquidRomae ynthiaefuit, causadic Roma > (anagramma del verso 26 di I, 11 – con Cinzia che è andata a Baia: << quidquid ero, dicam: “Cynthia causa fuit” >> - Comunque sia, dirò: la causa fu Cinzia). E ancora: < Cynthia vera foro manet S.P., Cynthia velabis > (anagramma di II, 5, 28: << Cynthia, forma potens: Cynthia, verba levis >>, Cinzia potente e leggera). [“Cinzia, tu dissimulerai, la vera Cinzia rimane nascosta nel ‘foro’ di Sesto Poperzio” (mancato Demostene). “Qualunque cosa fu per Roma, tu dì: la causa fu Cinzia”]. Sono possibili esempi, accanto ad altri, ma è possibile dimostrare che le cifre nascoste nella sphragìs del Monobiblos sono sicuramente autentiche.
Un famoso distico di IV, 7 – Cinzia morta è apparsa in sogno a Properzio: “Esistono i Mani e qualcosa c’è dunque che dura oltre morte”, ce la rappresenta così: << Hic tiburtina iacetCynthia aurea terra: / accesserit ripae laus, Aniene, tuae >>. Ecco che cosa c’è ‘sotto’: < Hic terra tibi, Cynthia, tacite aurea urna: / ac ceris est laus neniae tuae >>. [Per “aurea urna”, cfr. II, 26, v. 50: << l’urna d’oro riversò acquedivine >>; Qui nella terra che t’appartiene, tacitamente un’aurea urna / e con le tavolette incerate è una lode funebre per le tue esequie - nenia].
Questa elegia del secondo libro (II, 26), che sembra anticipare la visione di IV, 7 – Cinzia morta che appare in sogno a Properzio –, così si conclude: Se sul tuo corpo dovessi deporre la mia vita, / morire in questo modo non sarebbe inglorioso. Properzio è sempre accanto al suo “doppio”, ovunque, anche nei luoghi più impensabili (e stridenti). Anche questi altri anagrammi nascondono la verità di “Cinzia”, che non è difatti ciò che appare: “Sub visa cera, Cynthia, altam legem teges” (anagramma di II, 7, 1): “ Sotto la tavoletta incerata, o Cinzia, tunascondi una profonda legge” (le leggi augustee sui matrimoni entrarono in vigore solo molti anni dopo). E’ la trasformazione dell’incipit dell’elegia: << Gavisa es certe sublatam, Cynthia, legem >>. [Cinzia, avrai gioitoquando hanno abrogato quella legge che ci avrebbe divisi… - Cioè, nell’iperbole, l’impossibilità anche per Giove, e non solo per Augusto, di dividere i due ‘amanti’: in altre parole, il verso apparente non separabile dal secondo significato che vi è stato nascosto).
Forse non abbiamo brillato per chiarezza nel portare questi esempi, frutto di un’esplorazione per anagrammi, ma abbiamo cercato di rendere ugualmente un’idea della complessità dei problemi sottesi. Per ora non interessano i ‘risultati’ certi, ma il metodo, e, soprattutto, la giustificazione del suo impiego, che sarà fornita in seguito. Certamente non bisogna esagerare, ma nemmeno sottrarsi all’esperimento.
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Empedocle di Agrigento non è citato nelle Elegie, sebbene il famosissimo odi et amo di Catullo (di cui il poeta veronese sostiene di non conoscere la ragione, ma di avvertire soltanto che è così), rappresenti una singolare versione poetica, in termini psicologici, di due forze opposte. Confessa Catullo, al suo psicanalista Antonio Musa: << La nascita ci strappa al grembo materno. La crescita è la perdita della simbiosi, la perdita della dipendenza, che non sempre avviene in modo naturale, o non sempre avviene >>. << Io sento invece di essere legato a Lesbia da una terribile simbiosi. Noi due ci apparteniamo visceralmente, o meglio, io avverto una totale dipendenza da lei. Questo mi fa orrore. Per ciò la amo e la odio! La amo nella più assoluta dipendenza, e me ne vergogno >> (Luca Canali, op. cit.).
Amore e odio, in Properzio, hanno ben altro spessore. Cinzia non è Lesbia. “Giammai mi disse tiamo” (II, 8, 12). L’inganno, che proviene dal poeta stesso (cfr. II, 34, vv. 87 ss.), ha in sé racchiuse altre misure. Il lascivo Catullo non è un suo epigono. Anzi, Properzio è un aruspice ispirato, verus haruspex (III, 8, 17) “delle afflizioni dell’anima”, ed è il “vate sacro” della sua Patria avvilita nei pallidi roghi (III, 13, 59 – IV, 7, 1-2). Il suo “genio”, potentissimo e ispirato, corrisponde sul serio al frammento 108 del poema di Empedocle: Fra quelli c’era un uomo di superiore sapienza, / che possedeva la più ampia ricchezza dell’animo, / ed abile veramente in opere d’ogni genere e sagge; / perché, quando si tendeva con tutta la forza dell’anima, / egli riusciva a vedere facilmente ognuna di tutte le cose esistenti, / anche in dieci e poi in venti generazioni d’uomini .
Cinzia è la luna. La luna era sacra a Minerva. *Il tempio di Assisi ha carattere lunare. E’ rimasto perfettamente in piedi, dopo due millenni, circondato dal grande porticato dell’arce sacra, mentre del tempio di Apollo sul Palatino (cfr. II, 31: perché questa collocazione, verso la fine del secondo libro?), con l’aureo portico di Febo, eretto orgogliosamente accanto alla casa stessa di Ottaviano per celebrare la grande vittoria navale di Azio del 31, non restano oggi che pochi mattoni dei tanti marmi che l’adornavano. Properzio l’ha spuntata sui Fati. *Il tempio di Minerva, mens bona, ad Assisi è rimasto intatto, mentre la statua di Augusto nei panni di “pontefice massimo”, che vi era stata aggiunta nel marzo del 12 a.C., in occasione del Quinquatrus, presa a randellate e sconciata in epoca cristiano-barbarica (V-VI secolo d.C.), fu gettata tra le rovine del foro sottostante, per essere ritrovata nel 1841, negli scavi di Charles Famin (vedi nostro pezzo su Augusto).
Properzio paragona la sua Cynthia alle altre donne elegiache, scegliendo la linea dolorosa del lutto (come per la misera Quintilia del dotto Calvo). I filologi penseranno che io sia impazzito, ma sbaglierebbero. La ‘metapoesia’ di Properzio ha un altro valore. Non sarebbe certamente facile spiegarlo in breve, però potrebbe bastare quest’altro esperimento. Prendiamo l’elegia II, 25 che esordisce con un verso veramente struggente: Tu, mio dolcissimo pensiero, tu sola nata per il mio dolore…Non è Cinzia, la “Cynthia” o l’opera tutta. *Calve, tua venia, pace, Catulle [la tua bellezza diverrà più famosa per la mia arte, / col tuo permesso, o Calvo, e con tua buona pace, o Catullo (poeti elegiaci già morti, e Cinzia che in questa elegia non è stata mai nominata)]. L’esperimento – molto interessante, se si tiene conto del rapporto formale tra II, 25 e II, 34 – conduce a questo risultato: < *Ave Tulle, caput, Velcana, tua acie > (Ave, Tullo, sei tu il capo, la tua schiera Velcana – cioè i Velcha etruschi, latinizzati in Volcacii).
Facciamo dunque conto di voler giocare con le parole. Continuando in questo gioco “labirintico”, possiamo ‘rivelare’ l’incipit segreto del Monobiblos, primi 8 versi, distrutta la metrica elegiaca (ma per chi l’abbia già compreso, novoversu – come nella poesia moderna).
Cynthia optima musis primus ecce ille miser,
sub luna inclitum os cupidi cantent.
Iste sum dicit mihi fatum constantis lunae,
et impositis pedibus Roma caput pressit,
dolus sit ecce sancta ode lupam odisse
primo et vivere sub nullo consilio,
octo mihi iam non fit anno et hic edit furor,
haberem ego sancto corde adversum os.
O Cinzia, eccellente tra le Muse, ecco per primo quel misero,
sotto il potere della luna l’inclito teschio desiosi canteranno.
‘Costui io sono’, così mi dice il vaticinio della costante luna,
e, posti i piedi sul mio capo, Roma mi schiacciò:
inganno sia, ecco che un’ode santa avrà detestato la lupa
e, prima ancora, sconsideratamente, vivere come un folle.
Non avevo ancora compiuto otto anni, e qui già il mio furore,
potessi avere, con cuore consacrato, contraria bocca.
Nessuno ci crederà, ma non è questo ciò che conta: il meglio, e il vero dimostrato, vengono dopo. Ma riporto i versi originali di Properzio, in metrica elegiaca (esametro e pentametro), che si ispirano all’epigramma efebico di Meleagro per il giovinetto Muisco:
Cynthia prima suis miserum me cepit ocellis,
contactum nullis ante Cupidinibus.
Tum mihi constantis deiecit lumina fastus
et caput impositis pressit Amor pedibus,
donec me docuit castas odisse puellas
improbus, et nullo vivre consilio.
Et mihi iam toto furor hoc non deficit anno,
cum tamen adversos cogor habere deos.
Cinzia con i suoi occhi prima mi prese, io il misero,
non toccato ancora dalle Passioni.
Allora mi spense lo sguardo ardito,
e posti, Amore, i suoi piedi sul mio capo,
mi insegnò a disprezzare la caste fanciulle,
perfido, vivendo senza alcun criterio.
Ed è già per me più di un anno, che il furore
mi costringe a vivere, avversi gli dei.
Nel nome di Cinzia incominciavano le Elegie, con un inizio modulato su Meleagro. In Properzio c’è già di più: il testo poetico contiene anche la valenza di un’eclisse di sole, quello dell’estate del 29, visibile a Roma. La luna, frapponendosi, ne ha oscurato il disco, e la natura rabbrividisce. Se Cinzia è la luna, il sole è Properzio: la luna gli ha posto sul “capo” i suoi “piedi”. Ciò che dura al massimo qualche minuto, invece durava già da più di un anno. Ma è questa l’allegoria della doppiezza. Il brivido dell’eclisse, che sconvolge il paesaggio, allude a ciò che Cinzia ha nascosto. Sarà così al termine del Monobiblos, nel punto focale di quest’apparente primo canzoniere d’amore: i due brevi epigrammi del “sigillo” di un libro, altrimenti anonimo, che contengono di nascosto la verità indicibile.
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L’elegia II, 14 – che s’inserisce in un gruppo di tre composizioni in cui il poeta sembra far riferimento a sue presunte volontà testamentarie (*un elemento importante per quanto concerne il sepolcro assisiate col mito lunare di Endimione), fa riferimento al “labirinticocammino” dell’opera di Dedalo (Dadalium iter), lungo il quale – per mezzo di un filo: “cum lino” – Arianna aveva condotto Teseo in salvo. Questo “filo”, che ci fa da guida nel misterioso “labirinto” delle Elegie, noi lo abbiamo ritrovato. Ecco perché possiamo riportare il testo soggiacente al distico funerario di II,14, 27 e 28, che da HAS PONO ANTE TUAS TIBI, DIVA, PROPERTIUS AEDIS / EXUVIAS, TOTA NOCTE RECPETUS AMANS (Nel tuo tempio queste spoglie io, Properzio, pongo / inquanto accolto per un’intera notte a far l’amore) si trasforma in : << Ossa Properti habeant dii, avidus poeta intus / exuvias receptas, tota nocte, manus >>, che utilizzando le tre virgole, muta radicalmente di significato: Abbiano gli dei le ossa di Properzio, c’è un avido poeta dentro / le spoglie accolte, tutta nell’ombra, la mano).
Chi sia il “Properzio” di queste ossa, che infine raggiungeranno il cielo degli avi gloriosi, e le cui spoglie (excuvias) ha accolto un avido poeta che si cela nell’ombra, è presto detto: sono le ossa di Gallus Propertius, l’innominato propinquus, o parente stretto, dell’epigramma funerario di I,2: il morto di Perugia, cui fa da specchio una misteriosa soror, che è Propertia nostra soror et materamici , cioè la madre di Tullo Volcacio. Di questo sarà dato puntualmente conto.
2. “ARCANA PROPERTI”
Cinzia elegiaca è un pretesto letterario. Fallace illusione che sia il personaggio centrale dell’opera. Un’illusione durata due millenni. Alimentata ad arte dal suo cantore, che altrimenti non avrebbe potuto scrivere nulla. Dice Properzio: << Forse che conta di più per me la cura di una cara madre? / Oppure senza di te la mia vita non ha più senso? / Tu sola sei la mia casa, Cinzia, tu sola i miei parenti, / tu sola la letizia della mia vita >> (I, 11, vv. 21-24). Allora, com’è possibile?
Cinzia si trova però a Baia, sul lago Lucrino, le cui acque sono “l’infamia dell’amore”. Basta andare all’elegia III, 18 – epicedio per Marcello, il nipote di Augusto, morto a 19 anni, cantato anche da Virgilio, con accorati accenti, fino al pianto dirotto della madre: Giovinetto ben degno di pianto, così vinca tu l’aspro fato, / tu Marcello sarai. A piene mani, oh!, mi date / gigli, che io sparga fiori porpurei, che l’anima colmi / di doni, e faccia, almeno, al nipote questo inutile onore (Eneide, VI, 882-885). [Così è che dalla bocca verace di Horos usciranno ancora molte altre verità nascoste: < Melis alba lilia date patris matri S. P. >, che è la trasformazione del verso 102 di IV, 7 << illa parit: libris est data palma meis! >> - < Con i canti, date bianchi gigli alla madre del padre di Sesto Properzio! >. La misteriosa Cinara ha finalmente partorito, dopo un lungo indugio: ai libri di Horos fu data la palma della vittoria. In realtà, bisognava che l’indovino Horos si facesse riconoscere, per parlare una seconda volta in segreto. Ciò avverrà. L’elegia IV, 1 è un concentrato di misteri. Forse l’indovino ha detto il vero. Perché tanta enfasi, in un episodio stranissimo come quello della sconosciuta Cinara, messo in bocca a Horos per dimostrare ch è degno di fede?].
Nell’elegia di Properzio per Marcello, le acque di Baia e il lago Lucrino, sono luoghi infernali. Stagni fumanti, e il mare chiuso, che si agita, dell’ombroso Averno. Cinzia, a Baia, non perde la sua natura segreta. Lo dicono degli anagrammi, che non qui il tempo di riportare, pressato da argomenti più urgenti. << Multis ista dabunt litora discidium, / litora quae fuerant castisinimica puellis: / a pereant Baiae, crimen Amoris, aquae! >> (“ Ah, scompaiano le acque di Baia, infamia dell’amore!” – il verso conclusivo dell’elegia non è un gran che, a meno di qualcosa che sfugge: Agrippa aveva fatto costruire una strada sul lago Lucrino, tentando di metterlo in comunicazione col lago d’Averno, da lui trasformato in portus Iulius. Ma qui verrà Enea per consultare la Sibilla e per rivedere Anchise nei Campi elisi: Eneide, libro VI, con le visioni finali dello scudo di Enea, mentre il famoso episodio virgiliano del giovane Marcello che è morto, è contenuto nel libro successivo: Manibus date lilia plenis).
Nel regno delle “ombre” si collocano i tre canzonieri d’amore. Ed è il grande dono di Properzio a Persefone, la “cieca regina” della notte: < < Sat mea sat magna est, si tres sint pompa libelli, / quos ego Persephonae maxima dona feram >> (Bastano, oh sì, bastano, tre libretti al corteo funebre (“pompa”), / che quali massimi doni offrirò a Persefone). Cinzia morirà, ma è immortale. In ogni caso non è ancora morta. E non morirà sul serio.
<< Due soli versi: COLUI CHE ADESSO GIACE SQUALLIDA POLVERE, / SCHIAVO FU UN TEMPO D’UN SOLO GRANDE AMORE >> (elegia II, 13, cit., vv. 35-36).
Il distico latino (che è una delle tante epigrafi funerarie inserite ad arte nelle Elegie), fa così: << Et duo sint versus: QUI NUNC IACET HORRIDA PULVIS / UNIUS HIC QUONDAM SERVUSAMORIS ERAT >>. Lo potete notare: “versus-servus”. O, se preferite, “versus-versus”.
Ciò significa che il “doppio” del poeta, il “secondo Properzio”, ha sempre la sua voce nascosta. < Duo hic sint versus: QUOD NAM UNIUS ARTIS QUI VERUS NUNTIAT: ECCE ROMA HORRIDA ES PULVIS >. Che così traduciamo: I ‘versi’ qui siano ‘due’: perché appartiene a un’arte sola chi, dicendo il vero, annuncia: ecco, o Roma, sei orrenda polvere .
“La fama di questa mia tomba non sarà minore del sepolcro cruento dell’eroe di Ftia” (verso immediatamente successivo: l’eroe di Ftia è Achille, lo sterminatore).
Il “Callimaco Romano”, però nato in Umbria, diventa: < Hinc Umbria patria illac ima Roma! >(da IV, 1, 64: Umbria Romanipatria Callimachi!), e cioè: < Qui la patria dell’Umbria, dall’altra parte la bassa Roma >. Parole più importanti che si ripetono, bastano poche variazioni e tutto cambia. “Callimaco” sparisce, e rimane la verità nascosta. Percsiò si può prestar fede al doppio di Properzio, aruspice verace della suapatria e delle afflizioni dell’anima.
“Cynthia” (che è “cenere” in II, 11), si rivela diversa da come appare, pur sempre in una veste Coa, semitrasparente. Ha patriiamici (III, 24,9). Falso è il discidium. << Vinctus eramversas in mea terga manus >> (“Ero legato con le mani avvinte dietro la schiena”). Anche qui, sempre nei momenti topici, c’è una verità criptata: < VERSA MANUS IN MEA TERGA VINCAM TERSUS TERGA > (< Che io vinca limpido, la mano è girata dietro le mia schiena >).S’intende l’assoluta novità, che rompe la metrica, ma crea un nuovo modo, novo versu, che è poi la poesia moderna [La modernità di Properzio era stata già avvertita nel secolo scorso, tra i primi da Ezra Pound]. Siamo entrati per quella “porta” degli “amanti esclusi”, che in I, 16 – ambientata misteriosamente nel Campidoglio notturno – parla a lungo in prima persona: ianua Tarpeiae, “e carri tutti d’oro”, “ora sfregiata dalle notturne risse” (dall’antica pudicizia non si discosterà mai il falso cantore elegiaco di “Cinzia” meretrix prostituita da Augusto).
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<< At tibi saepe novo deduxi carmina versu >> (I, 16, 41 – misteriosa elegia della porta, un topos elegiaco, risolto in un’atmosfera eccezionale, dove c’è tutto ciò che appartiene al cuore, alla notte, e alle atmosfere segrete, e dove ancora una volta manca Cinzia, fino al canto degli uccelli mattutini): << Eppure per te ho composto carmi in modo nuovo >>. Tralasciando la ‘crux propertiana’: ianua Tarpeiae nota pudicitiae, che ha fatto versare molto inchiostro, per un genitivo o un dativo, il significato è un altro.
“Properzio e il suo doppio” ci introducono nel Daedalium iter delle Elegie, in un labirinto di rimandi, di cui adesso possiamo dare soltanto degli accenni. Ma c’è sempre un filo conduttore.
Daedalium linocum duce rexit iter – Arianna diresse Teseo nel labirintico cammino – cum rex educit lino Daedaliumiter – quando la guida (rex) incanala (educit), con un filo, al labirintico percorso.
Le Elegie (ineguagliabile “opera fallace”) inglobano un secondo percorso, di cui Properzio si è servito per raggiungere le vette più luminose dell’immenso cielo notturno, fino alla bianca via dell’eternità. Qui saranno portate le povere ossa di suo padre, agli avi gloriosi (honoratis avis), e qui termina l’opera unica. Il protagonista notturno è suo padre, Gallo Properzio, il morto di Perugia. Come Ettore sconfitto da Achille, Gallo è un eroe. A perderlo non furono le armi, ma i tradimenti di Roma.
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L’acrostico MARS (Marte) è stato individuato da Flower nell’Eneide, libro settimo, versi 601-604. La parola “Marte” si trova già nel testo (verso 603), ma è ripetuta dalle lettere capoverso. Non è un caso, ma è un riferimento simbolico e sacro all’antico costume dell’esperio Lazio. Il “doppio” di Properzio canterà di nascosto, dissolta la metrica elegiaca, ma con versi ancor più belli, il nome del padre Gallo e il nome dell’Umbria. Il nonno o il bisnonno del poeta si chiamava Nerio, nome italico di Marte. Properzio si fingerà inadatto alla guerra, tutto avvolto dalla passione amorosa (tipico atteggiamento degli elegiaci). Ma chi si nasconde dietro a Cinzia, elevata a unico scopo della vita stessa di un poeta? Ferte per extremas gentis et ferte per undas, / qua non ulla meum femina norit iter! – Portatemi tra le genti più remote, portatemi agli estremi confini del mare, / là dove nessuna donna sappia il mio cammino! (E sembra quasi che Dante abbia dato una sbirciatina al Monobiblos recandosi forse a Parigi).
<< Felice chi poté conoscere le cause delle cose, e calpestò sotto i suoi piedi tutti i terrori / e l’inesorabile fato e lo strepito dell’avido Acheronte >> (Geor., II. 491 ss. – trad. L. Canali). Amore è tiranno dell’universo: << A tal punto ogni specie terrestre, di uomini, di fiere, / e la razza acquatica, e gli armenti, e i colorati uccelli / precipitano nella follia e nel fuoco; amore èuguale per tutti…>> (Geor. III, 242, fino a 285 – trad. L. Canali). Ciò è sufficiente per rendere un’idea dei temi dibattuti dai poeti ‘mecenatiani’ nella loro arte sublime.
Nel circolo sull’Esquilino regnavano ‘misteri’, poco conciliabili col puro epicureismo (avversato già da Cicerone, che tuttavia fu il grande editore di Lucrezio), impregnati da altre componenti, estranee se non antagoniste, come il misticismo pitagorico, divenuto “neopitagorismo” con Nigidio Figulo, le dottrine segrete degli aruspici, gli oracoli e i libri sibillini, i libri di Vegoia e le profezie di Tagete, ma soprattutto la grande letteratura greca e alessandrina; poi, il retaggio dei primi grandi scrittori e letterati romani (Livio Andronico, Nevio, Ennio, gli eruditi, gli storici e i poeti). Se Augusto fu magnificato non è detto che corrispondesse alle vere intenzioni dell’animo. Prendete ad esempio i versi 41- 42 di II, 16 (elegia speculare, nella quale compare di nuovo, e si raddoppia, il “pretore dell’Illiria”, già presente in I,8): << Caesaris haecvirtus et gloria Caesaris haec est: / illa, qua vicit, condidit arma manu >> (qui si nasconde un feroce sberleffo, uno dei tanti: “Questa è la virtù di Cesare Ottaviano, ed è la gloria di Cesare: / quella stessa mano, che fu già vittoriosa, le armi nascose”). Iperbole poetica – arma manu – tutt’altro che veritiera, giacché Ottaviano non era un condottiero, bensì un abilissimo politico, esperto negli intrighi e nella corruzione. La trasformazione in anagrammi dà un esito formidabile, conforme al testo già di per sé ‘ironico’: < Caesaris haec virtus et gloriaCaesaris hic aes est > (La gloria e la virtù di Cesare stanno qui, nel conio di questo ‘asse’, in questa moneta – ed è storicamente nota la grande abilità di Ottaviano nel comprare i suoi avversari e nel maneggio di denaro a fini di corruzione politica). Il denaro (aes) richiama la “mano”. Ed ecco il seguito del distico, in cui i ‘due punti’ hanno un valore dichiarativo-dimostrativo: << quamanuvicit, illa,condidit arma >> (“con la mano, per mezzo della quale vinse, egli, proprio con quella mano, fece a meno delle armi”!). Lo vedete sotto i vostri occhi: il “doppio” di Properzio dice il vero, e ambedue sono nemici giurati del grande ‘venditore di Roma’.
Non basta? Si potrebbe scrivere un intero saggio sulle accuse e sulle maledizioni di “Properzio segreto” nei riguardi di Augusto. Ma sarebbero fantasie, giochi, snaturamenti: questa, senz’altro, la facile accusa. A meno che non esista una prova regina, certa e luminosa.
Prendiamo l’elegia II, 7 che pone già di per sé l’arduo problema della legislazione augustea sui matrimoni. Properzio e Cinzia si rallegrano del fatto che la proposta di legge non è entrata in vigore, anche se ciò che avverrà nell’anno 17. Nessuno, neppure Giove in persona, può separare gli amanti, se costoro non vogliono. Verso 5: << At magnus Caesar: sed magnus Caesar in armis >> (Sì, Cesare è grande: ma Cesare è grande soltanto in guerra). Ed ecco come questo verso si trasforma: < “Magnus” Caesar: menda matris “agnus” Caesar > (Il ‘grande’ Cesare: un ‘agnello’ per difetto di madre – la madre di Caio Cesare Ottaviano, nato a Velletri, era Azia, la figlia di Giulia, sorella di Giulio Cesare). E potrei continuare a lungo su queste trasformazioni, su questi esperimenti curiosi, che però non appartengo al caso, bensì provengono dal genio di un sommo poeta, che ne aveva tutte le ragioni. Gallo Properzio, suo padre, fu scarificato alle idi di marzo del 40, da Caio Ottaviano, sull’altare di Cesare. Queste le povere ossa raccolte con la madre da un orfano che non aveva ancora compiuto otto anni.
L’accusa di Paul Veyne nei riguardi di Properzio d’essere troppo il << Signor Ego >>, non vale perché esiste il suo “doppio”. Il paradigma properziano, durato due millenni, è fasullo. Non si tratta di un poeta d’amore in senso erotico. La complessità delle Elegie è quella del capolavoro d’altro genere, lasciate da parte apparenze formali, che sono come la superficie sferica, e non la sfera in sé.
Un antico re Propertius di Capena (e di Fidene) è forse un’eco leggendaria d’incerte memorie, d’incontrollabile autenticità e cronologia; ma la gens Propertia era di rango senatoriale, e non era certo una parva domus quella del poeta. [ *Si veda il mio pezzo sulla domus musae di Assisi, considerata la casa natale di Properzio].
Per l’antica Veio, compianta con accorati accenti di desolazione, si avrebbe un re Morrius o Mamorius, discendente di Halesus fondatore di Falerii (Servio, ad Aen. VIII, 285), e un re Propertius sarebbe invece connesso con le origini della città di Capena (Catone in Servio, ad Aen., VII, 297). Se il nonno o il bisnonno del poeta compare, come “marone” in un’antica lapide umbra di Assisi (Ve 236), l’antico rango c’è tutto ed è impossibile che Properzio ignorasse le sue origini (porta Capena è nominata nell’elegia IV, 3, composta sotto forma di “lettera di Eroidi”, la cui collocazione e relativo significato non sarebbero stati ben compresi).
Le falle del paradigma sono già evidenti nel Monoblibos. La struttura dell’operetta sarebbe certa, ma non si riesce a individuarla. La storia d’amore con Cinzia, che nasceva al passato, non ha una diacronia. Presenta una serie di meravigliosi quadri alternati, quasi scollegati l’uno dall’altro, di cui Cinzia è l’eroina sentimentale in positivo e in negativo, ma non la vera protagonista, perché la passione bruciante del poeta – furor, insania, nequitia ecc. – la trascendono immediatamente e non c’è alcun criterio ordinario che possa valere a ricondurre a una donna in carne ed ossa, che appunto non sia simbolo o trasfigurazione di qualcos’altro di più potente, a tale furioso delirio. Un delirio lucidissimo, in cui si alternano placamenti e rinnovate forme di follia, da cui emergono paragoni letterari, esempi mitici in continuazione, con effusioni sentimentali che vanno dalla gioia al dolore, che svariano dalla vicinanza alla solitudine, aldilà dei topoi elegiaci, dei calchi letterari, ma sempre secondo un enigmatico filo conduttore che dal sogno passa alla realtà e dalla realtà risale a vette metafisiche ove seguitano a pullulare vita e morte, chiudendo con un mito efebico, apparentemente fuor di luogo, e due brevi epigrammi funebri di 10 versi ciascuno. Il Monobiblos, a differenza degli tre libri, non reca una firma, ma porta un ‘sigillo’ che si fa notare per la sua reticenza, oltre che per l’immane densità poetica. Il primo canzoniere d’amore per Cinzia è di un’originalità tale che, con ogni evidenza pare il giovanissimo poeta voglia dire:‘Ecco, vedete, prendo questi materiali diversi, che appartengono al retaggio letterario, e li trasformo col mio ingegno in qualcosa che vi avvincerà, ma che non capirete, se non saprete cogliere la vera potenza di Cinzia’.
La Cynthia letta in tutto il foro (II, 24, altro epigramma di 10 versi), ‘nasconde’ un secondo testo.
I capolavori hanno diversi livelli di lettura. Non c’è soltanto un’apparenza formale, già bella in sé. C’è un livello più profondo, che poteva anche rimanere nascosto per secoli. C’è, infine, una struttura d’insieme, che sarebbe polisemica, come nei “Cantos” di Eztra Pound, grande ammiratore di Properzio. La “Cynthia” è già tutto questo. Il paradigma properziano deve avere nuovo impulso, non può più procedere di un moto uniforme ‘inerziale’.
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Il dotto grammatico cristiano Fulgenzio Planciade riporta stranamente un verso non elegiaco attribuito a Properzio. Si pensa a un frammento delle primissime composizioni, prima del vero esordio poetico, nell’anno 29. Antonio Frondini, dotto assisiate, annotava nel ‘700 la notizia che in una relazione di Felice Bini, nel secolo precedente, era stato riportato che presso il Padre Franchi, a Perugia, esisteva il Monobiblos bellissimo in pergamena (appartenuto forse all’umanista umbro Giovanni Pontano, che in una sua nota autografa accusava il patavino Sicco Polenton di aver fatto sparire quella parte del De Poetis di Svetonio che conteneva il profilo biografico di Properzio), ove eran versi diProperzio non dati alla luce. Prima un solo verso non elegiaco, poi altri versi (elegiaci?), non dati alla luce? Travisamenti, oppure notizie di gran peso? Ma il “doppio” di Properzio esiste, eccome. E’ lo stesso poeta che si è dato da fare per indicarlo in prima persona, suggerendo ‘cercate’, quaerite, ponetevi le giuste domande. Istanza pressante, la sua, perché il poeta dell’Umbria era imbavagliato.
Le ultime tre elegie del Monobiblos – il mito efebico del giovinetto Ila, ingorgato per sempre dalle ninfe delle acque, e i due epicedi di sfragìs – rappresentano tale urgenza, per cui è possibile che circolassero versi segreti, in un ambiente ristrettissimo di “congiurati italici” (magari quanto restava del complotto di Lepido, represso da Mecenate nel 31, al tempo della grande battaglia navale di Azio, di cui il capo schiera sarebbe forse diventato il giovanissimo Properzio?).
Il poeta dell’Umbria sconfitta, un falso Callimaco, ha esibito il suo “doppio” (IV,1), nei panni dell’indovino Horos.
Vertumnus (IV, 2) suggerisce qualcosa di più: << O fama mendace, mi nuoci: diverso è il sensodel mio nome >> (v. 19). Ed aggiunge: << Vestimi di stoffa di Cos: sarò una dolce fanciulla, che non ti resisterà >>. << Tu fidati di ciò che io ti dico come dio! >> (de se narranti tu modo crede deo!).
Giustapposta alla doppiezza di Propertius, la lettera di Aretusa al suo Licota, il voto fatto per la salvezza per il marito in guerra, e poi Tarpea (IV, 4), sepolta sotto gli scudi sabini di Tito Tazio, quindi Cinzia, che dopo il falso discidium, compare nuovamente – oramai sul viale del tramonto – prostituita dalla vecchia lena Acantide (la “Spinosa”, allegoria nefasta di Augusto, com’era già nelle elegie del pretore dell’Illiria e altrove), quindi ancora con la falsa celebrazione del tempio di Apollo sul Palatino e gli episodi di Cesare, tanti anni prima, ad Azio (qui compare il sidus Iulium), il quarto libro delle Elegie – che non è una raccolta editoriale collettanea post mortem –, ma che possiede una sua unità invisibile, un’unità totale e d’insieme (unum est opus), che non ha nulla a che fare col falso Callimaco Romano, nato in Umbria, e col carmen mixti generis (altra dotta invenzione), non ha nemmeno a che vedere anche con la teoria artificiale delle c.d. elegie romane (di cui, quella di Cornelia, sarebbe la regina). Cinzia è diventata una prostituta in mano a una vecchia mezzana, spinosa come le foglie di acanto.[*Altro mistero, che ritroveremo nella domus musae di Assisi]. Poi Cinzia muore, e compare in sogno a Properzio: mecum eris et mixtis ossibus ossa teram (sempre con me sarai e le mie ossa si ‘consumeranno’ con le tue). Infine Cinzia risorge più viva che mai, sull’Esquilino: et toto solvimus arma toro (e su quel letto riponemmo le ‘armi’). Il principe è caduto nel tranello. L’opera diverrà immortale. Il tema di Cinzia è stato un cavallo di Troia vincitore. Le Elegie, opera unica (unum opus), sono destinate all’inganno (fallax opus). L’esercito del suo grande poeta ha riportato la palma del trionfo. Nell’analogia drammatica della sorte di Tarpea, innamorata e tradita, schiacciata sotto gli scudi sabini del bel nemico Tito Tazio, al quale per amore aveva aperto le porte del Campidoglio, tradendo i Quiriti, si può cogliere un’altra allegoria.
Le elegie romane non hanno cambiato tema. Il senso nascosto è il medesimo. Un pretesto formale, letterario, quello degli aitia di Callimaco.
Cinzia è morta (IV, 7). Compare in sogno al poeta, protesa al disopra del suo letto. << Sunt aliquid Manes: letum non omia finit, / luridaque evictos effugit umbra rogos >> (Esiste qualcosa, non tutto la morte distrugge, / al rogo sfugge la pallida ombra e lo vince). Chi ami la grande poesia, chi ne avverta gli afflati è invitato a constatare la trasformazione del distico, riportato appena sopra: < Qualis edit manus: italum nomen non finit, / victaque Umbria effuget luridos rogos > (Non importa quale mano edita l’elegia: / l’italo nome non perisce e l’Umbria vinta – s’intende da Caio Ottaviano – sfuggirà ai pallidi roghi: naturalmente, sono i roghi di Perugia, alle idi di marzo dell’anno 40 – Svetonio, Vita di Augusto, XV).
A questo punto si dovrebbe sapere chi è Properzio. E’ il profeta verace della patria sua. Cinzia è un pretesto elegiaco per cantare in segreto la memoria eroica dei martiri umbri, la cui sorte fu decisa da sporchi giochi politici a Roma, dalle bianche e mutevoli toghe senatoriali, e dal mercato politico di Ottaviano, già accerchiato alle sue spalle, con i rinforzi di altre legioni, giunte a Foligno in aiuto di Fulvia e Lucio Antonio asserragliati entro le potenti mura di Perugia. La vittoria di Ottaviano nel bellum perusinum era stata frutto di un tradimento, comperato col denaro, La vendetta del vincitore fu spietata. I capi umbri della rivolta furono crudelmente decimati, Fulvia e Lucio Antonio lascioati andare. E’ Ottaviano il nemico giurato di Properzio. Apparentemente elogiato, in quegli stessi versi si celano maledizioni di ogni tipo contro di lui. Le Elegie furono concepite a questo scopo. L’opera è unica; anche se le sono attribuiti pregi diversi (basti pensare a Quintiliano), è un inganno.
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Horos – ripercorrendo le tappe fondamentali della vita di Propertius – fa un’importante rivelazione (IV,1, v.135), che non è stata mai correttamente intesa: << At tu finge elegos, fallax opus (haectua castra!) >>. E’ questa la testuale conferma dell’inganno, cioè che l’opera unica di un’intera vita poetica, ha introdotto un cavallo di Troia nella cittadella augustea delle lettere, che opera attraverso l’immagine di Cinzia, che nella sua “veste Coa” si lascerebbe cogliere in sottile trasparenza: forma potens, verba levis.
In effetti, non può trattarsi di una donna in carne ed ossa, come invece parrebbe: perciò le ossa di due amanti si rimescoleranno in eterno: << nunc te possideant aliae: mox sola tenebo: / mecum eris et mixtis ossibus ossa teram >>. A regnare nell’anima e sui destini di Properzio è il peso di un altro fato. Virtù del regno delle “ombre”, Cinzia-Arianna (cfr. I, 3), ella appartiene alle potenze nascoste dell’anima (la psicanalisi moderna), con Amore e Bacco. Per bocca di Cinzia, consumata ormai nel rogo funebre, ecco un’ombra che compare in sogno, vana all’abbraccio, in quello stesso momento in cui la notte acquista coscienza o consapevolezza, oltre il sonno, in un fondale di pienezza.
Esistono i Mani, la morte non tutto distrugge. Cinzia, dopo morta, è più viva che mai, ricomparendo sull’Esquilino, ricco d’acque, di ritorno da un antico rito sotterraneo di fertilità arvale, a Lanuvio. Cinzia sorprende Properzio in un banchetto libidinoso, con due voluttuose ancelle, il servo Ligdamo, e il nano Magno (un ossimoro, un gioco di parole che rimanda ancora ad Augusto). Nuovi patti d’amore saranno decretati sull’Esquilino, dove sorgeva il cenacolo di Mecenate, tra Properzio che non l’ha mai tradita, e Cinzia, furiosa per il creduto tradimento.
Sempre sull’Esquilino dovranno essere riportate le tabellae perdute, da chi eventualmente le avrà ritrovate (III, 23). Su di esse non scriverà i suoi conti, un “avaro” (Augusto, s’intende). E se lo smarrimento delle “tavolette”, o cerae, è stato erroneamente interpretato come l’anticipazione del discidium (III, 24 e 25) con Cinzia (non eri poi così bella), tutto ciò fa parte del trucco.
L’invenzione elegiaca richiede i suoi topoi, ma la sostanza vera dei sottintesi è stata genialmente defilata. Cinzia e il suo poeta non possono separarsi, una legge eterna li terrà avvinti per sempre. Neppure Giove può separare gli amanti, se costoro non lo vogliono. Ciò non toglie che la potenza di Cinzia, in elegie “lievi come pomice”, sia quella sotterranea di un vulcano tremendo, come l’Etna. Le Elegie celano alla vista ciò che è affidato alla potenza generativa dell’arte. Nel labirinto c’è un unico filo conduttore, tutto il resto è falso. Occorre ‘domandarsi’ – quaerere – le ragioni di questa singolarità, che la poesia properziana lascia intuire, ma non dichiara. Ragioni tanto più fondate e pressanti, quanto più la sua poesia s’innalza a vette di dolore metafisico, che Cinzia da sola non potrebbe mai giustificare.
<< Voi mi domandate (“quaeritis”) da dove mi vengano queste potenze dell’amore (“amores”), / da dove venga alle labbra un molle libro (“mollis liber”). / Non da Calliope o da Apollo che m’ispirano, / il mio genio proviene da una donna sola. / Se ella procede in una veste di Coos, / da quella veste verrà fuori tutto un volume…(“volumen erit”) >> (II,1, vv. 1-5).
I ‘proclami’ poetici di Properzio vanno correttamente intesi. Egli è poeta nascosto, che non può dire; è un grande arringatore mancato (il foro “delira”, ormai domato dal principe). Oggi (anno 29 a.C.) non è più possibile “tonare” dai rostri. Cinzia dovrà essere, sarà, un cavallo di Troia, una tela di Penelope, arti di Minerva. Properzio è aruspice verace della sua patria sconfitta. Lui saprà fare vendetta. Ed ha vinto realmente, proclamandosi umbro, e nascondendo Assisi!
“Calliope”, l’usignolo dalla voce melodiosa – kalòs òpos – , è la Musa dell’elegia tenue, ma anche la Musa dell’epica. Ovidio, elegiaco lezioso, che negli “Amores” per Corinna modula a larghi tratti Poperzio, impiegava ovviamente la Musa dagli undici piedi. Un solo piede metrico fa la differenza con l’esametro epico: una differenza fondamentale. L’esametro canta la guerra e le imprese degli eroi, ed è potenza virile. Il distico elegiaco – un esametro e un pentametro – è ‘sole’ e ‘luna’, sicché del ‘notturno’, si può cantare ugualmente l’amore e la morte. Amore e morte, endiadi terribile, come Amore e Bacco, potenze nascoste, la cui cifra occulta equivale in qualche misura al Cantico dei Cantici (aenigmata sunt illa, diceva Sant’Agostino), dove – appunto – “l’amore è più forte delle morte”.
Cinzia non ha casa, ella ‘abita’ in molti luoghi. Alla sua bellezza non occorrerebbero trucchi, ma vi è costretta. Cinzia è proprio come la luna. << La luna, oltrepassando la finestra dischiusa, / la luna che corre nella notte mentre i suoi raggi amano l’indugio, / col suo lieve chiarore le dischiuse gli occhi >> (I, 3,vv. 31-33). Ed è la meravigliosa clausola poetica “luna fenestras”, ripresa da Properzio esordiente con tutt’altro scopo.
Un notturno terrore, che traspare da qualche dettaglio nell’ombra, che è già inserito nella ‘morte’ apparente del sonno, e nei sogni più profondi, in “insolitos timores”, fa da contrasto con la bellezza di Cinzia, toccata da un raggio trascorrente di luna. Properzio le poneva furtivo dei pomi nelle mani, ne contemplava le chiome sparse, come in attesa di qualche segno. Vorrebbe interpretare i segreti stessi dell’anima. Al lieve chiarore lunare, Cinzia dischiuse gli occhi, e puntato il gomito sul soffice cuscino, gli rimprovera l’attesa. Forse qualche altra donna l’ha trattenuto così tardi. Cinzia, invece, ha filato “purpuree lane”, ha poi “suonato la lira piangendo”, e s’è addormentata. Dice Cinzia: “Il sonno m’ha avvolta nelle sue dolci ali, / e fu questo l’estremo conforto alle mie lacrime”. Le lacrime, quelle stesse “lacrime” che Horos richiamerà accostandosi geograficamente alla patria di Propertius.
La grandezza di Properzio sta nella sua stessa capacità di nascondersi. L’elegia properziana è un “flauto”che ha ammansito e trasfigurato il dolore cupo della triste “tuba”funebre. E’ il poeta della morte amara e silenziosa degli sconfitti o della tragedia dei vinti. Poeta muto degli eversos focos etruschi e dell’Umbria antiqua che gli ha dato i natali in una ridente vallata circondata da rocche d’altura e arata da moltigiovenchi, ove scorre l’umbro sentiero del Clitunno per raggiungere infine il Tevere che porta a Roma. Egli è il genio precoce e luminoso che Mecenate e i Velcha-Volcacii di Perugia hanno invitato a Roma, con sua madre rimasta vedova, per avviarlo agli studi, e che il grande etrusco, perugino dal ramo paterno, ha saputo guidare e proteggere dal suo stesso carattere impetuoso, irascibile, nervoso, impulsivo, portandolo alla grandezza e alla potenza dell’arte, e della dissimulazione. Il foro, e il metro epico, non si addicevano al fuoco interiore dell’animo devastato di un orfano nella tragedia della guerra di Perugia e delle crudeli vendette con cui era terminatasi.
Il metro elegiaco, mancante del dodicesimo piede, gli permise la contemplazione del dolore, superando la morte, per riportare le ossa di un eroe, Gallo suo padre, alle ampiezze immense della sorgente celeste, che si porge di nuovo alla vita senza fine nel ciclo delle discese e dei ritorni.
Gli ignes di Properzio – termine che compare nel Monibiblos (I, 6, v, 7: elegia in cui compare per la prima volta Tullo Volcacio), e che fu ripreso come definizione tipica da Ovidio, quando ricordò le letture che a lui, più giovane appena di qualche anno, faceva direttamente il poeta di Assisi – sono fuochi notturni, fuochi d’accampamento dei soldati dell’Umbria, dei militi gloriosi traditi alle spalle (illa mihi totis argutat noctibus ignes: è “Cinzia” che tutte le notti mi parla di passione).
Il “sigillo” che conclude gli Amores di Ovidio (III, XV), riprendendo il modello della sphragìs del Monobiblos col quale gli ‘autori’ di un’opera intendevano certificarsi, per Sulmona, piccola città natale di un grande poeta come Ovidio, si riconduce alle glorie dei Peligni durante la guerra sociale (90-89): Roma in ansia temette gli eserciti alleati (cioè i socii italici). Se Mantova è fiera di Virgilio e Verona di Catullo, la piccola e acquosa Sulmona, le cui mura occupano pochi iugeri di terra, andrà fiera di Ovidio, poeta dalla felice vena (nato nel 43 a.C.). Se Ovidio scrisse agli inizi qualche composizione elegiaca con lo pseudonimo di “Ligdamo” (un poeta del terzo libro del Corpustibullianum), ecco che lo ritroviamo nelle Elegie, prima come “servo” di Cinzia, e poi, a posizione invertita, come “servo” di Properzio. Un altro indizio per arguire che “Cinzia” non è esattamente la donna elegiaca quale invece apparirebbe.
L’antico poeta Mimnermo (VII secolo), di poco posteriore a Omero, contemporaneo di Tirteo e di Archiloco, avrebbe cantato Nannò, la “bambolina”, intitolandole una raccolta di elegie amorose. Di tutti i poeti che hanno sofferto e cantato l’infelicità della vita, Mimnerno è certamente il più efficace e ingenuo. I ‘modelli’ dichiarati da Properzio “elegiaco d’amore” sono Fileta di Cos (IV sec.), di cui rimane pochissimo, e Callimaco di Cirene (grande poeta alessandrino in polemica con i Telchini). Ombre di Callimaco, sacri riti di Fileta di Cos, / lasciate, vi prego, ch’io entri ne vostro bosco! / Primo m’avanzo,sacerdote di una pura fonte, a portare nei cori dei Greci italici riti (Itala orgia) (elegia III, 1, vv. 1- 4). E’ il tema letterario dell’elegia latina ‘soggettiva’, contrapposto all’elegia greca ‘oggettiva’, passando attraverso l’elegia erotica alessandrina.
L’incipit del secondo libro delle Elegie (elegia II, 1, vv. 1-4, dedicata a Mecenate che qui compare per la prima volta) indica che la ragione poetica di Properzio è “Cinzia”. Ciò avviene attraverso il raccordo sottile di un verbo – quarere – che al termine del Monobiblos era stato retoricamente rivolto a Tullo Volcacio (tu quaeris, tu chiedi chi io sia e quali i miei Penati), mentre all’inizio dl secondo libro è rivolto genericamente al plurale ai lettori della Cynthia:
Quaeritis undemihi totiens scribantur amores, Mi chiedete da dove vengano tanti versi d’amore
unde mues veniat mollis in ora liber. Da dove a me venga alla labbra il molle libro.
Non haec Calliope, non haec mihi cantat Apollo: Non è da Calliope, non è da Apollo:
ingennium nobis ipsa puella facit. il nostro ingegno lo fa la fanciulla stessa.
In questi versi iniziali, di stretto raccordo tra il primo e il secondo libro delle Elegie,non certo a caso si ripetono alcune parole, che sono molto importanti: quaerere – unde – mihi ecc. Altre parole che si ripetono, riportano a Horos (elegia fondamentale IV, I). E’ la prova certa che se il “sigillo” del Monobiblos e l’elegia proemiale del quarto libro nascondono il massimo segreto dell’opera unica (unum opus), allora è vero che ‘Cinzia’ è un pretesto letterario, che si rende poi evidente nella continuità del seguito, fino all’ultimo (fino al quarto libro). Se si potrà puntualmente dimostrare che i due epigrammi finali del primo libro contengono le chiavi testuali per definire le sfuggenti identità di Gallus e della soror, si arriverà anche a spiegare chi è ‘Cinzia’. Intanto, le parole che si ripetono dal finale del primo libro nell’inizio del secondo, sono dei segnali eccellenti, che ci autorizzano ad anticipare la possibile versione segreta dei versi sopra riportati.
Hi Quirites Roma ruant totiens scribes manu dei,
deus venit e manu mollis in ora liber.
<< Non haec Calliope, non haec mihi cantat Apollo >>:
fama lunae ubi igne inspicit sol P.
* Questi Quiriti cadano con Roma quando scrivi con la mano di un dio, / un dio che scaturisce dalla mano come molle libro alle labbra. / Questi versi non vengono da Calliope, non vengono da Apollo: / la fama della Luna sta dove col suo fuoco si affaccia il Sole di Properzio (luce riflessa).
Sembrerebbe impossibile pretendere di proporre trasformazioni come queste. Tuttavia potrebbe averlo preteso Properzio, inserendo cifre nascoste nella sua “opera fallace”. Haec tua castra!, dirà Horos. Qui stanno gli accampamenti militari di un capolavoro letterario, con l’inganno che sarebbe la quintessenza dell’opera? Cynthia – luna sarebbe un simbolo poetico, per ‘indicare’ Perugia, nella memoria dolente di notti insonni per un fanciullo rimasto tragicamente orfano: la luna nuova sorge sulla pianura dell’Umbria dalla parte di Perugia, mentre il sole sorge dal monte di Assisi, il Subasio.
Nell’abiezione di Cinzia-Umbria, ormai sul viale del tramonto, prostituita dalla vecchia lena Acantide, lo spinoso Augusto, Properzio ripete il medesimo distico (I, 2, vv. 1-2), col quale egli l’aveva immortalata nella trasparente veste Coa: << Quid iuvat ornatoprocedere, vita, capillo / et tenuis Coa veste movere sinus? >> (Ache giova, tu che sei la mia vita, procedere adorne le chiome / e muoverti in una tenue veste di Cos?). << Ho veduto i bianchi roseti profumati di Paestum: pareva fossero eterni; l’indomani, giacevano appassiti al soffio di Scirocco >>. ‘Approfitta finché sei giovane, che il domani non ti sottragga la luce del volto’. La bellissima Cinzia, che conquistò il giovanissimo Properzio al primo sguardo, non aveva bisogno di trucchi e di artifici. Eppure Cinzia continua a sfuggirci. Muore, ma è più viva che mai. Cifre occulte direbbero che Cinzia è il simbolo dell’Umbria sconfitta da Caio Ottaviano. << Sunt aliquid Manes: letum non omnia finit, / luridaque evictos effugit umbra rogos >>. Abbiamo già riportato la trasformazione: < Qualis edit manus: Italum nomen non finit, / victaque Umbria effuget luridos rogos > (*Quale mano scriva non conta: l’Italo nome non perisce, / e l’Umbria vinta sfuggirà ai pallidi roghi).
L’unico distico per Cinzia che sia stato ripetuto, quello della tenue veste Coa, che cosa potrebbe nascondere? Potrei riportare l’intera ‘striscia’, ma basta il distico: < Quid caput, pro, avoilli cedere vita, / secures tenet et movi saevo sinu >. [“Pro” qui sarebbe un interrogativo di dolore]. “Ahimè, perché un comandante militare si appresta a donare la vita per suo padre?” (Per salvare le terre paterne). “Egliimbraccia le scuri ed io fui profondamente colpito dal suoferoce sguardo” (ed è “Gallo Properzio”, figlio di “Nerio-Marte Properzio”, che per l’ultima volta rivolge gli occhi in tralice al figlioletto Sesto, di non ancora 8 anni).
La trasmutazione di Cinzia sarebbe sotto i nostri occhi. Le bianche rose del tempio di Atena-Minerva a Paestum, appassiscono in un sol giorno, al soffio di scirocco. La “rosa purpurea” è quella del sangue degli eroi, come le purpuree lane di “Cinzia-Arianna”. Nelle “ombre” della mente d’un prodigioso fanciullo si celava un ricordo drammatico e disperato. Un giovane condottiero umbro di Assisi non è morto sgozzato, in un’inverosimile imboscata nelle retrovie, sfuggito miracolosamente all’infuriare dell’ultima mischia, là sui monti Etruschi, trucidato da alcuni predoni.
Difendendo Perugia, è stato sopraffatto, catturato, e poi sacrificato da Caio Ottaviano su una di quelle tragiche e spietate araeperusinae alle idi marzo dell’anno 40 a.C. Questa, infatti, la vera sorte di Gallus Propertius, il padre del poeta, che al momento della morte così ingiusta e crudele, senza alcuna pietà, doveva avere all’incirca trent’anni. Dunque, Gallo era un coetaneo di Mecenate, poiché quest’ultimo era nato un 13 di aprile tra il 74 e il 70. La famiglia paterna di Mecenate era originaria di Perugia, come i Volcacii-Velcha. In un ambito geografico ristretto i rapporti tra queste gentes, famiglie umbre ed etrusche, dovevano essere connessi anche a vincoli di parentela, acquisiti per via matrimoniale (cognatio). Nulla di più probabile. Ed è effettivamente quanto Properzio ha inserito di nascosto nei due epigrammi, apparentemente enigmatici e insolubili, che cui termina il Monobiblos, unico libro non ‘firmato’ in modo espresso. Le Elegie sono l’aurea urna di un dolore implacabile, rispetto al quale Cynthia ha dovuto assumere il posto di Gallus. “Amore è un Dio di Pace”. Nel senso che la “concordia dei cittadini” eviterà lutti e pianto.
***
Fornendo, come segue, la puntuale e irrefutabile dimostrazione di esistenza di “Properzio e il suo doppio”, non ci potrà più discostare da questo paradigma rivoluzionario, che è poi la vera chiave di comprensione di un’opera unica, destinata all’inganno, capolavoro solitario di un genio sommo della letteratura mondiale.
3. IL “MORTO” DI PERUGIA E LA “SOROR”
Perché il Monobiblos del 29 si chiudeva con due epigrammi di sphragìs, reticenti e misteriosi, se era un canzoniere d’amore per Cinzia? Perché il poeta non si è firmato, come negli libri? Perché c’è un raccordo molto stretto tra il primo e il secondo libro, com’è stato già posto in evidenza? Perché il nome di Mecenate non compare nel Monobiblos, mentre l’unico riferimento testuale a Caio Ottaviano Cesare sta nell’epigramma funerario I, 21 (di soli 10 versi)? Chi è Gallus, chi è la soror (‘sorella di chi’)?
Sono stati versati fiumi d’inchiostro, ma i grandi interpreti delle Elegie, non si sono resi conto il ‘segreto’ di Properzio possedeva chiavi dirette, utilizzando le quali si sarebbe potuto penetrare nell’aurea urna del suo relativamente taciuto mistero, anche in termini biografici. Horos non ha dettato una linea biografica divergente da quella del propinquus o parente stretto del poeta, nei due epigrammi del “sigillo” anonimo del Monobiblos. L’unità dell’opera è inscindibile anche a livello autobiografico. La sua “fallacia” è una realtà di fatto, una stretta necessità, e non un altro possibile significato, di valore superficiale e trascurabile, nel senso ad esempio di “opera seducente”.
Il genio creativo di Properzio è semitrasparente come la veste Coa di Cinzia. Il bello dell’inganno è la sua doppia faccia, oppure il bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto. Le apparenze, illusorie, ingannevoli, erano già magnifiche apparenze: quelle, appunto, di una vera opera elegiaca d’amore. La sostanza è rimasta nascosta, sebbene Properzio – il grande mistificatore – vi abbia pressoché costantemente alluso. Per dimostrarlo basta riportare le due brevi composizioni con le quali termina il Monobiblos, che da sole sono un capolavoro di rara potenza. I segnali sono contenuti nel testo poetico (sicuramente integro), e basterà metterli in luce, e poi farli funzionare a dovere.
Quaerite – cercate. Era questo l’invito pressante di Properzio. E non è vero che saremmo noi, da Assisi, a inventare ciò che non esisterebbe, giacché, a quanto pare, nessuno se ne sarebbe accorto per due millenni. La scoperta di un tesoro indica due certezze: che qualcuno lo nascose, che altri lo hanno ritrovato. In effetti, Properzio nascose il suo indicibile segreto là dove aveva progettato di seppellirlo, al posto giusto. Nel testo poetico poperziano c’è un solo esempio, ma importantissimo, di acrostico ben mascherato, e comunque estraibile: Isis, che era poi l’identificativo sacro di Cleopatra). Mentre c’è una commistione, del resto necessaria, tra acronimi significativi e parole invertite, che segnalano la presenza di anagrammi, la cui identificazione è per così dire guidata.
Il calcolo combinatorio nei fattoriali è talmente smisurato che ben presto la stringa esplode. Non così, tuttavia, quando esista una specie di canale concettuale, degnamente suggerito. Un segreto per mezzo di anagrammi non avrebbe mai dato occasione a inconvenienti di sorta: il sistema è ottimo per nascondere, non per rivelare; ma se si aggiungono una serie di segnali comprensibili, collegati allo scopo, l’alea diminuisce fortemente, e in questa maniera si può essere certi di aver trovato il modo per comunicare. Ovviamente occorre del genio, e un serio motivo.
Che motivo aveva Properzio per ‘comunicare’ ai suoi lettori ciò che egli stava ‘nascondendo’? Perché un gioco del genere? Nell’anno 29 Gallus e la soror erano noti, e non occorreva aggiungere di più? Varrebbe anche per Cinzia, ma sappiamo già che non poteva, a priori, trattarsi di una donna identificabile. Sconosciuti erano anche Gallus e la soror oppure siamo già al confine di un segreto pericoloso, per cui il Monobiblos non è firmato, mentre Tullo Volcacio è già a Cizico, in Asia Minore, estraneo a quel suo audace amico e coetaneo, che poetava ‘sine nomine’? Chi starebbe dietro l’esordio giovanile di Sesto Properzio, se a Roma i circoli letterari erano ristretti ed esclusivi? A queste domande, e altre ancora, risponderà da solo “Properzio segreto”, in modo razionale ed esaustivo. Quanto basta per prestar fede ai ‘suoi’ segnali, alla loro efficacia e genuinità. “Cercate, e troverete le risposte ai quesiti”. L’impianto è corretto ed è giustificato. Nulla vi si oppone. I lettori del Foro non potevano afferrarlo: il segreto, che apparteneva a pochissimi, era stato consegnato al tempo futuro, ai secoli a venire. Era una sfida col Fato, un inganno per Caio Ottaviano. E quel che è il peggio, era un inganno in cui il nome di Mecenate – colpevole o innocente che fosse – era tirato in ballo. Ben nascosto dalle permutazioni fattoriali, ma al tempo stesso rilevabile, se si fosse agito secondo le corrette indicazioni (di questo livello il genio di Properzio, cosa mai sospettata finora, sebbene sia stato lui a reclamarlo direttamente, con forza e persuasione nei propri mezzi).
I suoi messaggi occulti erano per pochissimi, a conoscenza del trucco. In Umbria qualcuno certamente poteva sapere che Gallus era suo padre, se effettivamente si chiamava “Gallus”; ma di sicuro è un Propertius, ed è suo padre. Gallus non è morto come sta raccontando in agonia, a un suo commilitone, che salvandosi potrà raccontarne la sorte a una misteriosa sorella. Non è stato ucciso da predoni qualsiasi o da soldati di retrovia, miracolosamente scampato alle spade di Ottaviano nello scontro finale (Perugia cadde per fame). Gallus ha fatto una fine peggiore, crudele e ignominiosa. La vicenda delle famigerate arae perusinae era nota: Ottaviano aveva superato i limiti della crudeltà, i fatti luttuosi erano conosciuti, col nome delle trecento vittime sacrificate alle idi di marzo, ma su questo regnavano la paura e la soggezione. Era accaduto 11 anni prima. Properzio, all’epoca del Monobiblos, ne aveva ormai 19. In I, 21 non c’è alcuna accusa nei confronti di Ottaviano. La storia di Gallus è inverosimile, del tutto incredibile. Il morto parlante mente, tuttavia il suo vero discorso sta annidato e nascosto al disotto delle apparenze “fallaci”. L’artifizio è questo, incontrando la verità, se s’impiegano le chiavi giuste. All’identità certa di Gallus si arriva, infatti, attraverso l’identità riconoscibile della misteriosa soror, che difatti è stata posta specularmente, simmetricamente rispetto a lui: è Gallus a nominarla, in I, 21; mentre l’identità certa di questa sorella (‘sorella di chi?’ – si domandava Ettore Paratore), è ricavabile con certezza dall’epigramma successivo (I, 22). Da qui si coglie, dunque, la potenza geniale di Sesto Properzio; la capacità di raggiungere le vette della grande poesia, il suo dramma, la genialità assoluta nel nascondere e nel lasciar trasparire le ragioni di un capolavoro più unico che raro.
I, 21
<< Tu, qui consortem properas evadere casum, << Tu che fuggi, per evitare la mia stessa sorte,
miles ab Etruscis saucius aggeribus, soldato ferito delle trincee etrusche,
qui nostro gemuitu turgentia lumina torques? perché al nostro gemito distogli gli occhi?
Pars ego sum vestrae proxima militiae. Parte fui delle vostre schiere.
Sic te servato possint gaudere parentes, Tu in salvo, ne possano gioire i tuoi parenti,
ne soror acta tuis sentiat e lacrimis: ma dalle tue lacrime non apprenda la sorella:
Gallum per medios ereptum Caesaris ensis che Gallo, incolume tra le spade di Cesare,
effugere ignotas non potuisse manus; non poté sfuggire a ignote mani;
et quaecumque super dispersa invenerit ossa e di chiunque saranno trovate ossa disperse
montibus Etruscis, haec sciat esse mea >>. sui monti Etruschi, si sappia esser le mie >>.
Gallo, il morto di Perugia, narra in prima persona la sua tragica sorte. Si tratta di un epigramma sepolcrale di 10 versi, enigmatico e struggente. Propezio si è rifatto agli antichi epigrammi greci per le morti eroiche. Tuttavia la morte di Gallo, ucciso nelle retrovie, da ignote mani, quando ormai era in salvo, ha qualcosa d’ignominioso. Chi troverà delle ossa disperse sui monti intorno a Perugia le consideri le sue. Ma la “sorella” – sorella di chi? – nulla sappia di questa fine di Gallo. Insomma, non si racconti ciò che avvenne. Gallo è un “parente stretto” del poeta, suo propinquus. Lo apprendiamo dall’epigramma successivo, sempre di 10 versi (elegia I, 22), con la quale termina il Monobiblos, il primo canzoniere d’amore per Cinzia, però non firmato, come invece gli altri libri delle Elegie. Gli epigrammi I, 21 e I, 22 sono speculari. Nel primo compariva la soror, nel secondo veniamo a sapere della parentela stretta di Sesto Properzio con Gallo (che il poeta si chiamasse Sesto lo sappiamo altrimenti, non figurando il nomen dalle Elegie, se non forse da un sottile gioco concettuale di parole, a conclusione del secondo libro (elegia II, 34). Il racconto di Gallo morente poteva essere introdotto soltanto con l’artificio della testimonianza di un commilitone, che si è salvato, ma che dovrà tacerne i particolari. Affinché la “sorella” sappia con certezza della morte, ma anche non ne sappia i particolari (presumibilmente la sorella di Gallo: ma perché lei sola?).
I, 22
Qualis et unde genus, qui sint mihi, Tulle, Penates, Quali la mia stirpe, quali i miei Penati, Tullo,
quaeris pro nostra semper amicitia. tu chiedi per la nostra amicizia di sempre.
Si Perusina tibi patriae sunt nota sepulcra, Se a te noti i perugini sepolcri della Patria tua,
Italiae dura funera temporibus, funerali dell’Italia in tempi così duri,
cum Romana suos egit Discordia civis, la Romana Discordia che sconvolse i cives,
(sic mihi praecipue, pulvis Etrusca, dolor, (polvere Etrusca, per me così grande dolore,
tu proiecta mei perpessa es membra propinqui, lasciasti insepolto il corpo di un mio congiunto,
tu nullo miseri contegis ossa solo), non una zolla ricopre le sue ossa),
proxima supposito contingns Umbria campo l’Umbria vicina, contigua al piano sottostante,
me genuit terris fertilis uberibus. mi generò con mammelle di terre ricche e fertili.
Il morto di Perugia, che ha parlato in prima persona, e la sorella, rimangono sconosciuti. Perché questo segreto? Se l’autore del Monobiblos non avesse potuto proseguire nella sua opera unica – ripetiamo: un solitario capolavoro –, cosa avremmo saputo di lui? Il primo libro non è firmato, però si comprende che il giovane poeta è nato in Umbria, in un luogo non lontano da Perugia, posto in altura. Il riferimento dei due epigrammi è strettamente legato alla geografia del bellum perusinum, terminato 11 anni prima, con la vittoria decisiva di Caio Ottaviano su Fulvia e Lucio Antonio, che si erano asserragliati a Perugia, difesa da potenti mura. Gli epigrammi di sphragìs del primo libro delle Elegie e il seguito nella prima elegia del secondo libro, dedicata a Mecenate, si saldano tra loro. I connettivi tra il primo e il secondo libro, che investono anche Cinzia e Mecenate, con la ripetizione di certe parole e poi concettualmente, non solo riguardano le vicende di Caio Ottaviano, subito dopo l’assassinio di Gulio Cesare alle idi di marzo del 44, fino ad Azio e ad Alessandria (31-30), ma si rifanno alla tragedia di Perugia, nel marzo del 40: eversos focos antiquae gentis Etruriae.
Queste connessioni investono l’intero impianto delle Elegie, dal primo all’ultimo verso, per riassumersi infine nella grandiosa e misteriosa elegia Propertius-Horos (IV, 1 – quella però scritta per ultima). “Properzio e il suo doppio” sono una cosa sola, com’è unico e inscindibile il profilo autobiografico complessivo, senza alcun troncone separato. Gallus è il padre del poeta, sacrificato da Caio Ottaviano alle idi di marzo del 40 a Perugia. Tutto il resto è servente a quest’unico dolore, a questo solo ricordo. Properzio ci ha consentito di scoprire il suo necessario segreto.
In I, 21 è il morto di Perugia che ‘parla’. In I, 22 è Properzio, che si serve di Tullo Volcacio per completare un solo discorso, adesso prendendo lui la parola. Tullo, che stava ormai a Cizico, sa benissimo chi è Properzio. Lo sa anche Mecenate. Altri lo sanno. L’importante è che non lo sappiano i lettori, insomma che la cosa sia ben sfumata. Cosicché non l’hanno ‘saputo’ nemmeno i posteri, a meno che non avessero fatto attenzione ai particolari critici e ai segnali.
Nel primo verso di I, 21 leggiamo properas(tu che ti affretti). Questo verbo era già presente in I, 5, v. 4 (elegia in cui per la prima volta compare Tullo): infelix, properas ultima nosse mala (infelice, ti affretti aconoscere l’estremo di tutti i mali), ed è stato altresì utilizzato da Ovidio negli Amores. Ciò non toglie che pro – per – as possa stare per Propertius asisiensis. Nei due epigrammi si notato le martellanti ripetizioni pro – per. Ciò suggerisce che si tratti di Gallus Propertius. E’forse il fratello del padre dl poeta? No, la logica ermeneutica ci indica che la biografia tratteggiata da Horos non può diverger da quella di Propertius. Dunque Gallus è il padre del poeta, e quest’ultimo non doveva avere più di otto anni, quando Gallus fu sacrificato a Perugia, alle idi di marzo del 40.
Tuttavia c’è molto di più. Con tanto di riprove anche in ordine alla bontà del metodo. Se prendiamo il verso 2 di I, 22 (pentametro ‘femminile’), in pro nostra semper amicitia (riguardo ai rapporti tra coetanei di Sesto Poperzio con Tullo Volcacio), scopriamo la presenza nascosta di Propertianostrasem amici, cioè il vero tramite Sesto e Tullo: Propertia nostra soror et mater (s.e.m.) amici [Properzia nostra, sorella e madre dell’amico]. Sappiamo adesso che “Propertia” è la sorella di Gallo ed è la madre di Tullo, per cui i due amici sono cugini di primo grado. Tullo sa benissimo che fine fece Gallo. Ma che ne pensa Gallus di queste parentele? Occorre interrogarlo per anagrammi, giacché Properzio proprio questo ha suggerito e ha documentato nel suo testo poetico, nascondendovi la verità. Proviamo dunque col verso 7 di I, 21: Gallum per medios ereptum Caesaris ensis (il poeta ha fatto un nome solo: Gallus, chiamando in causa Caio Ottaviano Cesare). Proviamo a sostituire in questo verso l’accusativo Gallum col soggetto parlante Gallus Propertius così ottenendo il seguente anagramma: < Me idem Gallus Propertius mense Caesaris / effugerenon potui… >. “Effugere” regge l’accusativo: < Ugualmente io Gallo Properzio non riuscii asottrarmi nel mese di (Giulio) Cesare >, id est le idi di marzo del 40, a Perugia, con le famigerate arae perusinae sulle quali la crudeltà irremovibile di Caio Ottaviano sacrificò il ceto dirigente dell’Umbria e dell’Etruria, geograficamente e politicamente contigue. Com’è noto, Tito Livio (sue periochi), tacque sulle crudeltà di Ottaviano a Perugia, ma le altre fonti (Seneca, Svetonio, Appiano e Cassio Dione) narrano quanto accadde (dalla fame perugina, alle are sacrificali, all’incendio della città, agli interdetti, e alle espropriazioni terriere che impoverirono la famiglia di Sesto Properzio, per di più rimasto orfano). A queste fonti si aggiunge la testimonianza drammatica di Properzio, nato ad Assisi, che fu il vero poeta dell’Umbria, e non il “Romano Callimaco” del quarto libro, che potrebbe anche risalire a dopo la morte di Mecenate (settembre dell’anno 8 a.C.), perché il suo nome non è più presente (tuttavia Mecenate era stato rimosso da Augusto nel 23).
Ensis al plurale (in luogo di enses, ‘spade’), reca con sé nel verso 7 di I, 21 la < i > necessaria nell’anagramma per formare Gallus Propertius. Prendendo il corrispondente verso 7 di I, 22 (altro esametro maschile), noteremo di nuovo la serie pro – per – pro. Ciò indica che vi è nascosto un altro Properzio. In I, 21, 7 è Gallus Propertius, perché era lui a parlare. Adesso dovrebbe esserci l’identificazione del poeta, che stava parlando, ma che non si era firmato, come invece farà nei libri successivi.
Tu proiecta mei perpessa es membra propinqui (I, 22, verso 7), dovrà pertanto contenere Properti al genitivo, al posto di propinqui. “Tu, polvere Etrusca, terra di dolore, ha lasciato che giacesse insepolto il corpo di un mio congiunto, senza che una zolla di terra lo ricoprisse”. Ma la polvere etrusca non è terra, ma è cenere: eversos focos, focolari rovesciati, incendi, distruzioni, e sacrifici umani. La grande sorpresa, ancorché non del tutto inaspettata, è che qui compare anche il nome di Mecenate: < Maecenas eques spem propitia umbri Properti > [*O cavaliere Mecenate, favorisci le speranze dell’umbro Properzio] .
Ecco dove ci hanno condotto, col loro solido filo, i non ambigui segnali presenti nel testo poetico, dove già nel primo verso di I, 21: Tu, qui consortem properas evadere casum, si notavano col verbo properas un cadaver, una morte, ed infine una Musa, leggibili al contrario: cioè, in altre parole, il chiarissimo invito a provare a sviluppare, in anagrammi, l’intero testo dei due epigrammi conclusivi del Monobiblos (20 versi in tutto), seguendo pari ciascun verso.
Accogliendo questo invito, proponiamo i seguenti risultati:
I, 21
MUSA, PROPERTIUM SERVA ET QUOS CONCADERE,
AGGER SIT EIS CAUSA MELI SIC BUBUS RUS,
QUO AGIT GENITOR RESTAT QUIN URIT LUMEN DOMUS?
<< MILES EGO SUM PRO PATRIA VERA MIXTA EIS.
PERII UT SERVARE POSSENT CADENTES TOGAS,
SI E TOTO RELATU CRIMINA SACRA SENTIS:
GALLUS PROPERTIUS ME IDEM MENSE CAESARIS
EFFUGERE NON POTUI; SIGNET OSSA MANUS
OSSAQUE CUM INVENIRE PUTES ET QUARE DISPERSA
SITUS HABET, ECCE AMICE MONS ET RUS ASIS >>.
I,22
NIHIL PETET GENUS, NEQUIT, MANUS LUDET ESQUILIAS,
QUA PROPERTIA NOSTRA MATER AMICI SERIS NOS.
UBI SITA PERUSIA IN PATRE NOTA SINT SEPULCRA,
E ITALA RABIE FUNUS DURI TEMPORIS,
CONCORDIA CIVIUM SURGIT SI DEOS AMAS,
(SIC MIHI, PUERO SACRO LUPA LUDIT, PER VICES
MAECENAS EQUES SPEM PROPITIA UMBRI PROPERTI,
MISERTUS NULLO CONSILIO OSSA TEGO),
PROXIMO CAMPO UMBRIA PONIS NOS CAPUT GENTIS
UBI EREBUS TRISTI IGNE MILES FERTUR.
1, 21
O Musa, preserva Properzio e quanti caddero insieme,
sia per essi ragione di canto la trincea come ai buoi la campagna,
dove il genitore ha agito qui resta: a che arde il lume della casa?
<< Sono un soldato che ha difeso la patria con essi condivisa.
Sono morto perché potessero salvarsi le toghe vacillanti,
se da tutto il racconto senti dire di sacri crimini:
io, Gallo Properzio, ugualmente nello stesso mese di Cesare,
non potei fuggire; indicherà le ossa una mano,
e le ossa, quando reputi di ritrovarle e per quale ragione
le abbia un sito, ecco amico mio il monte e la campagna di Assisi >>.
1,22
<< Il sangue nulla domanderà, non ne è capace, la mano canterà l’Esquilino,
giacché tu, Properzia nostra, ci unisci come madre dell’amico.
Là dove è sta Perugia, siano famosi i sepolcri nel padre,
dell’italica rabbia il lutto d’un tempo spietato,
dall’amore degli dèi sorge la civile concordia,
(così come, a me fanciullo sacro, la Lupa irride, viceversa,
cavaliere Mecenate, favorisci tu la speranza dell’umbro Properzio,
misericordioso e sconsiderato, nascondo quelle ossa),
e tu Umbria ci poni a capo delle genti nel vicino accampamento,
là dove è l’Erebo col triste fuoco è condotto il guerriero >>.
Nel primo epigramma – cioè in I, 21 – dove c’era la sola voce del morto di Perugia, compare adesso un’invocazione epica rituale alla Musa, e Gallus seguita, in prima persona, a spiegare come invece andarono le cose. Egli ha difeso le sue terre, insieme agli etruschi di Perugia. Non gli è stato possibile, come Cesare alle idi di marzo dell’anno 44, di sottrarsi alla morte: è una vittima degli intrighi romani e di sporchi giochi politici, per odio e vendetta fu sacrificato. I “sacri crimini” alludono alle arae perusinae, confermando il testo poetico in relazione ai sepolcri di Perugia.
Le “ossa” di Gallo, padre del poeta, saranno indicate da una mano (quella di suo figlio), e quando il lettore amico crederà di averle rintracciate, e si chiederà dove quelle “ossa” giacciano, quale luogo geografico le possieda, e, soprattutto, per quale ragione, ecco dunque che è indicato il monte Subasio e la città di Assisi (Asis), col territorio circostante (rus). Le ossa di Gallo, e quelle dei suoi compagni, a difesa dell’Umbria e delle loro terre (Ottaviano interdirà Norcia perché lì i cittadini avevano elevato un monumento a ricordo dei combattenti umbri nella guerra di Perugia).
CONCLUSIONI
Se le Elegie contengono un ‘doppiofondo’, se l’opera unica è “unitaria” e “fallace”, se Cinzia non è mai esistita, allora Properzio ha il suo “doppio”, non solo sul lettino immaginario di Musa. La sua Musa non è “lieve” e l’opera “unica” (unum opus) è tragica, regno di lacrime, non potendo essere epica. Quindi, anche la grandiosa elegia IV, 1 – Propertius / Horos –, contiene altre ‘rivelazioni’.
Abbiamo dimostrato in modo impeccabile che nel Monobiblos c’è veramente un finale a sorpresa, degno di genio sommo, un caso più unico che raro in tutta la storia della letteratura mondiale.
Ma non vogliamo accontentarciedi questo risultato parziale, che come appare chiaro non può essere messo in discussione, e che rendiamo oggi di pubblico dominio, a riprova che i tentativi, molto più limitati in passato, da parte dello studioso portoghese Custodio Magueijo, e poi in seguito dello studioso americano Thomas Habineck, erano comunque metodologicamente fondati.
Il discorso generale è molto più ampio, investendo ‘in toto’ il significato delle Elegie e un nuovo approccio a questo straordinario capolavoro, che è stato confuso per secoli con ciò che non era, e che nemmeno poteva essere fin dall’inizio. Cinzia ha certamente ingannato Augusto, e la sua geniale invenzione letteraria, appunto come pretesto formale, ha finito per ingannare anche i moderni, nonostante le cautele di Ettore Paratore, sull’integrazione difficile di Properzio in ambito augusteo. In realtà, fu un’integrazioneimpossibile, e almeno Mecenate non doveva ignorarlo, pur standosene al riparo.
Nella elegia proemiale del quarto e ultimo libro, in realtà composta per ultima, non c’è alcuno sdoppiamento, nel senso che Propertius e Horos coincidono e combaciano l’uno con l’altro.
La vera filigrana di questa grandiosa composizione, che invero racchiude molteplici enigmi irrisolti, consiste nell’abbandono di Roma, al termine dell’opera compiuta, per far ritorno ad Assisi. Lo si afferra osservando una carta geografica e conoscendo i luoghi: lasciando Roma, l’ospite umbro, che si era finto il nuovo Callimaco Romano, dirige l’elegia lungo la linea geografica perfetta sud-nord, che da Roma, passando per Bevagna e il lacus Umber, va a scaricarsi sul vertice del tempio di Minerva ad Assisi, dove sorgeva l’arce sacra. Le parole veraci di Horos hanno lo scopo di restituire alla verità le tante finzioni di Propertius. I suoi enigmi, e il suo strano oroscopo, danno luogo a una maledizione di Augusto, e fissano parimenti la data dell’anno 15, secondo il grande anno planetario (ecco perciò il ritorno). Lo spiegherò in successivi interventi, qui bastando il solo accenno alle maledizioni per Augusto e Roma.
Il verso finale 150 di IV, 1 – octipedis Cancri terga sinistra time!, dice: < C.aio Ott.aviano richieda ai segni celesti i suoi crimini! >. La sequenza ordinata terga – sinistra – time rimanda all’indietro, a tre versi del discidium con Cinzia:
terga – vinctus eram versas in mea terga manus (III, 24, 14), “stavo legato con le mani avvinte aldorso”, insomma legate dietro la schiena come un prigioniero. Il verso si trasforma in: < vincamversus in mea terga tersa manus >, cioè: < supererò la bellezza metrica dei miei versi, sarò ancor più grande, la mia mano tersa è dietro la mia schiena, ho scritto anche così, con le mani rovesciate indietro >;
sinistra – et veniat forma rugae sinistra tuae! (III, 25, 32), “ e giunga alla tua bellezza una sinistraruga”. Che diventa: < et augusta terra veniat finis Romae >, “e in terra d’Augusto giunga la fine di Roma”;
time – eventum formae disce timere tuae! ( III, 25, 38, verso finale), “impara ad aver terrore dellafine della tua bellezza” (sempre rivolto a Cinzia, il cui nome però non viene fatto in queste due elegie conclusive del terzo libro). Col seguente esito: < e fatu Romae time discere eventum >; cioè, “temi di conoscere dal fato la sorte di Roma”. *[Quest’ultimo anagramma risente di un esempio di acrostico in Orazio (Carmina, I, 18, vv.11-15), tema disce / discernunt. “Contro il tuo volere non scuoterò il tirso, o Bacco Bassarèo, / né scoprirò i tuoi simboli celati sotto le fronde”. L’ode era dedicata a Quintilio Varo, nei campi di Tivoli: che egli pianti la vite, difatti solo il vino scaccia gli affanni. “Bacco e Venere bella”: ma “lungi dal cieco Egoismo, e dalla Superbia vana, o da un’eccessiva Fede, prodiga di segreti, più trasparente del vetro”. Discernunt avidi, con disce acrostico: “Quando, avidi di piaceri, fanno lecito l’illecito”].
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At tibi saepe novo deduxi carmina versu (Elegie, I, 16, verso 41). Letteralmente, Eppure spesso ti ho rivolto carmi, con un nuovo verso. Non c’è un nuovo verso elegiaco. Tu sola, o porta, sei la causa del mio dolore. La misteriosa porta, là sul Campidoglio, in una straordinaria atmosfera poetica notturna, di sconcertante ambientazione, resta chiusa davanti all’amante escluso. Per sempre rimarrà diffamata dai vizi della padrona di casa; ma Cinzia non è nominata. La porta, un tempo spalancata per superbi trionfi, porta di Tarpeia?, c’è traduttore e traduttore (ma è questa una crux propertiana mai risolta con chiarezza, anche perché nel quarto libro ci sarà un’intera elegia dedicata a Tarpeia – che è anagramma di ‘patriae’), assiste a risse e sconcezze. La padrona di casa sarebbe Cinzia, la donna amata da Properzio, il cui nome sarà accostato a quello altisonante di “Augusto”, e, nel Monobiblos, a Caio Ottaviano Cesare? “Killing Cynthia” (Paolo Fedeli, 2006). ‘Cinzia’ era un’invenzione letteraria: aggiungiamo noi, ad hoc; mentre Properzio è veramente il “doppio” di se stesso, in perfetta ed eccezionale “unità” (unum opus – fallax opus).
Postfazione:
Le prove fornite testualmente, nel medesimo contesto specifico, per quanto concerne le rispettive identità di Gallus e della soror nei due epigrammi di “sigillo” del Monobiblos, sono assolutamente ineccepibili. Ed è quanto gli studiosi di Properzio dovrebbero prendere come fatto dimostrato. A tal proposito, negli Atti del Convegno Internazionale Properziano del 2006 (Atti pubblicati nel 2008), il Relatore di sintesi, Prof. Giovanni Polara, ricordava brevemente qualcosa a proposito degli “anagrammi”, come “stimolante ricerca”. Nello stesso volume, di Paolo Fedeli era stato pubblicato un importante articolo, Killing Cynthia, appena ricordato, per cui Cinzia non è mai esistita come donna concreta, in carene e ossa, individuabile e riconoscibile a Roma (a tale conclusione ero giunto, da tempo, in conseguenza delle mie scoperte testuali). In seguito, il Prof. Polara non ha respinto, in comunicazioni private, il mio percorso d’identificazione di “Gallo” e della “sorella” (argomento si cui erano stati versati, in passato, fiumi d’inchiostro, senza scorgere la giusta chiave funzionante). La scoperta non ha avuto alcun risalto, anche perché ci sarebbe stata una resistenza silenziosa da parte dell’Accademia Properziana del Subasio, i membri del cui Direttivo, tranne il Presidente, non si occupano di Properzio. Il Presidente dell’Accademia, Prof. Giorgio Bonamente, animatore dei Congressi Properziani e autore d’importanti articoli su Properzio, pubblicati dagli Atti, non si è mai pronunciato, preferendo soprassedere e tacere. Ciò è avvenuto anche per altre mie scoperte, come quella della statua di Augusto come pontefice massimo, e i nuovi rilievi sulla c.d. domus Musae. Evidentemente i miei lavori non sono stati ritenuti degni di pubblicazione nemmeno sugli Atti ordinari dell’Accademia, distinti dagli Atti congressuali. Mi è stata concessa solo la possibilità di una relazione orale, il 28 gennaio 2011, ad Assisi, nei locali utilizzati dell’Accademia (Sala degli Sposi, Palazzo Vallemani). A quest’ultimo riguardo riporto un estratto di stampa locale (La Nazione – Umbria) del 27 gennaio, a mia insaputa: Con tale iniziativa l’Accademia – una delle più antiche d’Italia: n.d.r. – riattiva un’antica tradizione (da me più volte sollecita: n.d.r), quella di presentare alla città temi di studio, pubblicazioni ed opere di accademici. E’ stato scelto, per il primo incontro un argomento che è classico quanto al riferimento a Properzio, ma al tempo stesso innovativo, quanto alla tecnica di decrittazione del testo poetico… L’uso della lettura anagrammatica, consente al relatore di ricomporre lettere e sillabe dei versi in modo tale da cogliere segnali, riferimenti e allusioni(nulla di tutto ciò, ma l’esatto contrario: cioè, una differenza fondamentale – n.d.r.). Succede, quando non si fa attenzione, di sovvertire i fatti. Ed è il caso tipico.
Avv. Arcangelo Papi, gennaio 2014