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La “ricomparsa” di Ettore Majorana

 

Da La Repubblica di domenica 17 ottobre 2010: articolo di Luca Fraioli in cui è stato fatto il mio nome

 

LA RICOMPARSA DI ETTORE MAJORANA

Presentazione delle questioni coinvolte

Domenica 17 ottobre 2010 l’inserto settimanale del quotidiano a diffusione nazionale La Repubblica dedicò tre pagine intere alla Ricomparsa di Ettore Majorana, di fatto riaprendo il caso della misteriosa scomparsa nel marzo del 1938 (un caso differente, come scrisse a Carrelli, sabato 26 marzo, con un espresso proveniente da Palermo, dopo di che scomparve).

Secondo il Prof. Giorgio Dragoni, Docente ordinario di Storia della Fisica presso l’Università di Bologna, in una data fotografia, scattata a bordo della nave “Giovanna C.”, che alla fine di giugno del 1950 era salpata dal porto di Genova ed era diretta a Buenos Aires, (immagine che era stata pubblicata – diversi anni prima – dal noto ricercatore di ex nazisti, Simon Wiesenthall, inserendola nell’apparato documentario del famoso libro Giustizia e non vendetta, Mondadori 1989), si poteva riconoscere, con un elevato grado di probabilità, il misterioso scomparso alla fine di marzo del 1938 da Napoli, dove da circa tre mesi il genio della fisica nucleare Ettore Majorana aveva iniziato a insegnare, con una assegnazione fuori concorso della cattedra di fisica teorica, avvenuta con decreto del 2 novembre 1937, per l’alta fama di singolare perizia.

Era stato lo scrivente a segnalare a Dragoni quella fotografia, che mi era già nota da anni. Dragoni mi aveva chiesto una prova esterna rispetto alle dichiarazioni che gli aveva fatto il fisico Gilberto Bernardini a Pisa nel gennaio del 1974 (40 anni fa) e alla ricostruzione del caso Majorana in base ai criteri ermeneutici che ho già illustrato in precedenti interventi su questo sito, di cui il presente scritto è un seguito.

Lo stesso Prof. Dragoni, già a conoscenza di una traccia importante, provvide poi a rivolgersi direttamente a un ente pubblico specializzato in riconoscimenti di persone, ottenendone un parere di “alto grado di probabilità”. A complicare il riconoscimento fotografico, che avrebbe potuto dimostrare che si era trattato di una fuga dolosa, e non di una scomparsa con proposito di suicidio, come da lettere da lui lasciate (verbale del 18 aprile 1938 davanti al Capo della Polizia Arturo Bocchini), c’era però la scandalosa, e sicuramente ingombrante presenza, in quella stessa fotografia, presa a bordo della nave italiana “Giovanna C.”, diretta da Genova a Buenos Aires, di due membri delle SS: il famigerato Adolf Eichmann, e il tenente colonnello Herbert Kuhlmann (ripreso accanto ad Eichmann, ambedue sorridenti, Kuhlmann è quello con la pipa in mano).

Herbert Kuhlmann, nato nel 1915 e morto nel 1985, non ebbe mai a che fare con la giustizia internazionale per crimini di guerra. Era un nazista profugo, che si era nascosto, e che stava adesso recandosi in un paese lontano, per rifarsi una vita.

Il criminale di guerra Adolf Eichmann, uno dei massimi responsabili del genocidio, catturato nel maggio del 1960 in Argentina, in un sobborgo di Buenos Aires, dove abitava con la famiglia, da un commando speciale dei servizi segreti israeliani, e poi trasportato segretamente in Israele con un aereo di linea, nel 1961 fu condannato a morte, per crimini contro l’umanità (processo di Tel Aviv).

Il terzo uomo di questa fotografia: capelli neri, minuto e piccolo di statura, occhiali neri, espressione seria e riservata, era o no lo ‘scomparso’ del 1938? [Preferiamo impiegare un tempo verbale al passato per evitare ogni equivoco].

Il Prof. Dragoni si era rivolto a un ente specializzato, fermo restando che per il c.d. riconoscimento fotografico di valore forense, occorre comunque un quadro indiziario di supporto.

Quella fotografia gliela avevo segnalata come materiale da verificare meglio, dopo aver svolto, da solo, alcuni esami iniziali di tipo elementare, sui principali ‘invarianti antropometrici’, come ad esempio la corrispondenza dei tre principali triangoli del volto, assumendo come base gli occhi, che appunto certe trasparenze al computer permettevano di individuare con sufficiente sicurezza nell’immagine debitamente filtrata e ingrandita. Risultava, da tali esami preliminari, che i rapporti coincidevano.

Sapevo, già da anni, che in quella “fotografia” potevano essere individuate fattezze ‘corrispondenti’a quelle di Majorana, a prescindere che potesse o no essere lui in persona. Non avendo a disposizione la strumentazione necessaria, come ad esempio il programma informatico “Morphe”, utilizzato dalla polizia americana per confronti e raffronti in 2D e in 3D, non ero in grado di andare oltre.

Nel 2002, pubblicando provocatoriamente un articolo sulla “scomparsa” di Majorana, volutamente oscuro e reticente, intitolato Ipotesi Klingsor, avevo taciuto anche su altri possibili elementi in mio possesso, preferendo ‘suggerire’, in modo cauto e velato, anziché ‘affrontare’ di petto un argomento così spinoso, complesso e aleatorio. All’epoca avevo iniziato a studiare più attentamente il caso, avendo intuito che determinati elementi, combinati tra loro, permettevano di ‘cogliere’ il movente segreto di una messinscena di scopo, a esclusivo danno dei poveri familiari, che non ne erano stati informati prima. Il che non escludeva, ma anzi includeva, che potessero esserlo comunque, in base alle stesse lettere di scomparsa, certamente contraddittorie e a prima vista disorientanti, ferma restando la distinzione fondamentale tra Carrelli e qualsiasi estraneo, rispetto alla posizione peculiare dei propri cari. Dal 19 marzo al 26 marzo le lettere sono quattro, ed esiste un collegamento tra di esse, che poteva essere fatto emergere con adeguato acume. Anzi, esiste con certezza un collegamento seriale per tutte le lettere scritte nel 1938.

Da Palermo, con l’ultima lettera ‘espresso’ del 26 marzo, indirizzata al prof. Carrelli, direttore dell’Istituto di fisica sperimentale di Napoli, era giunto un ‘sole’ all’alba, sottolineandosi nella missiva, dopo di che il silenzio, quello stesso foglio e ulteriori dettagli (“a disposizione”).

Prendendo in esame altre ‘filigrane’, si sarebbe potuto individuare il filo conduttore della verità autentica ‘nascosta’, da scoprire, per la famiglia, e soltanto i suoi cari, a cose fatte, dopo l’inevitabile allarme di quella scomparsa clamorosa, e le infruttuose ricerche che ne erano seguite. Majorana non stava giocando a nascondino, come di recente si avuta la pretesa, assurda, di affacciare, mentre sarebbe morto prima del mes di settembre del 1939, ma senza alcun riscontro: non il certificato di morte, non la tomba, non il cadavere (e nemmeno il passaporto che con certezza assoluta aveva con sé).

Il mio articolo del 2002 si basava su questa intuizione, senza rivelare nulla, se non l’esplicita indicazione che le stesse lettere dello scomparso ‘per lettera’, ne dovevano contenere di nascosto, ma in forma autentica, le vere ragioni. Il che è vero, in base di tre livelli coordinati tra loro, ma anche distinti, due di essi di carattere testuale, e il terzo inserito dallo scomparente per traslitterazione. Questa scoperta sarà ampiamente illustrata in seguito, quando si tratterà la “scomparsa” (al momento stiamo parlando della presunta “ricomparsa” in fotografia).

Non è dato sapere cosa compresero i familiari, sebbene lo scomparso non si fosse più fatto vivo con essi; ma che fosse rimasto in vita, nonostante il silenzio e le affannose ricerche senza esito, questo era loro presente, tanto è vero che dispiegarono ogni mezzo per rintracciarlo. Che sia stato infine ritrovato, questo è per ora un asserto gratuito, formulato nel 2012-2013 da due autori distinti, nemmeno in sintonia tra di loro.

Perché agire in questa maniera, dando luogo a uno scandalo clamoroso, che potendo essere evitato, invece era stato fatto scoppiare proprio come una bomba a orologeria?

Con una semplice telefonata, Majorana avrebbe comodamente potuto mettere tutto a tacere, se appunto fossero state effettive le iniziali intenzioni di suicidio, rientrate poche ore dopo. Diversamente, il “caso” avrebbe un’ottica “differente”, cioè quella di una fuga dolosa, mai e poi mai potendo attingere all’ipotesi di un complotto, cui intendesse sottrarsi, fingendosi morto per un certo periodo. Ciò è lampante. Appena la mattina “dopo” Ettore Majorana aveva revocato gli atti epistolari precedenti.

Il thema decidendum del caso differente da quello di una volubile ragazza ibseniana – prestabilito rigidamente da Majorana nelle sue lettere del 1938 – non lascia scampo all’ipotesi fumosa, contraddittoria, e del resto assurda, di un affaire internazionale di cui sarebbe rimasto vittima. La mancanza materiale del cadavere, anziché indicare un rapimento o un assassinio, indica soltanto una volontà specifica di sottrazione: ma per quale ragione?

C’è chi ha ritenuto che la scomparsa ebbe come epilogo il rifugio in un convento, chi ha pensato che fosse scappato in Argentina (per quale motivo?), e chi ha considerato ipotesi razionale e sostenibile il caso di un intervento luttuoso dall’esterno, con un Majorana che impaurito dalle minacce, si sarebbe finto ‘suicida’ per sottrarsi invano al grave pericolo di vita, ovviamente percepito in anticipo (c.d. teoria del complotto).

Altri hanno pensato al suicidio ‘di ritorno’. Da ultimo, dopo l’articolo su Repubblica nell’ottobre del 2010, si è ritenuto di poter provare, senza mai passare in esame quelle lettere, anzi, dopo aver tentato invano di eliminarne qualcuna giudicandole false, che lo scomparso, dopo aver girovagato qua e là (insomma, dopo aver giocato per mesi ‘a nascondino’: mentre i suoi cari e la polizia lo stavano cercando ovunque), sia morto precocemente, nel corso del 1939, poco prima dello scoppio della seconda guerra mondiale. [Una soluzione ad hoc, una soluzione di comodo, certamente assai tardiva, intervenuta soltanto ‘dopo’ la pubblicazione di quella fotografia su Repubblica?].

Tali versioni contrastanti, in un groviglio di ipotesi ognuna delle quali inconciliabile con l’altra, ma tutte quante irrazionali, hanno ricostruito e presentato i fatti con distorsioni concettuali, rifiutandone l’evidenza parlante. Cioè, che lo scomparso, che era un genio, non avesse agito per un caso personale, ma per ragioni “differenti”.

Il Prof. Dragoni rivelava, nel 2010, che nel lontano gennaio 1974 aveva ricevuto certe confidenze da parte del famoso fisico Gilberto Bernardini (nato nello stesso anno di Majorana e da lui citato in una lettera del 1933 da Lipsia), per cui Ettore sarebbe ‘scomparso’ nel marzo del 1938 per recarsi segretamente in Germania (due settimane dopo l’annessione dell’Austria, da parte di Hitler, il 12 aprile 1938).

Nelle lettere del 1938 si notano diversi rinvii temporali, e in data 25 marzo, giorno stesso della scomparsa, si registrano un poi orale (detto a voce all’allieva Gilda Senatore nell’atto di consegnarle a mano una cartella contenente il testo delle lezioni: compresa quella di sabato 26 marzo, andata perduta), e due dopo messi per iscritto. Tali ‘segnali’ mi erano presenti già nel 2002, ma il loro ‘significato’ l’ho scoperto soltanto in seguito.

Durante il soggiorno di studio a Lipsia, nel 1933, presso il famoso Istituto di fisica di Werner Heisemberg, al momento stesso in cui Hitler saliva al potere, Majorana si era lasciato andare, nella sua corrispondenza epistolare, a espressioni di consenso nei riguardi del nazismo, scrivendo il 22 maggio una pesante lettera a Emilio Segrè, che era ebreo, contenente giudizi taglienti sulla “questione ebraica”, che al destinatario non fecero certamente piacere. Questa lettera che come poi si disse era andata perduta nel 1956 col naufragio del transatlantico italiano Andrea Doria che faceva rotta per New York, fu invece pubblicata da Segrè nel 1988, 50 anni dopo la “scomparsa” di Majorana. Come ‘interpretare’ anche questa coincidenza?

Segrè, nella sua autobiografia, pubblicata postuma nel 1995, asserì che Majorana si era buttato in mare dal piroscafo, durante il viaggio di ritorno a Napoli da Palermo (suicidio ritardato). Quest’affermazione di Segrè, fatta propria da altri autori, non ha alcun riscontro nelle lettere e nel comportamento di Majorana, anzi è contraddetta dal fatto, certo e accertato, che egli avesse con sé una cospicua somma di denaro e anche il passaporto, che sarebbe scaduto soltanto l’anno successivo. Ettore sapeva nuotare, e una “scomparsa da bordo”, con tutto il cappello (egli aveva lasciato l’albergo Bologna vestendo un soprabito grigio ferro e indossando un cappello marrone), non solo è incredibile, ma appare persino ridicola.

Il clamore (voluto) della sparizione improvvisa rimaneva invischiato nel giro vizioso di un viaggio (apparente?) di andata e ritorno tra Napoli e Palermo, e in certe strane ‘apparizioni’ napoletane, nei giorni successivi. L’enigma è questo, e, a quanto pare, non ci si è riflettuto abbastanza.

Fu lo scrivente a segnalare nell’estate del 2010 la fotografia pubblicata da Repubblica al Prof. Dragoni che come già detto nel 1974 aveva avuto a Pisa certe rivelazioni di Gilberto Bernardini, cofondatore del C.e.r.n. di Ginevra e suocero di Antonino Zichichi che nel 1963 aveva fondato il Centro di Erice, intitolato a Ettore Majorana.

Secondo Zichichi, Majorana, che era un fervente cattolico, di ottima educazione religiosa (aveva studiato a Roma presso i Gesuiti), non poteva essersi suicidato; ma secondo Gilberto Bernardini, sarebbe scappato in Germania (non c’è ragione per non credere a Dragoni, che si è esposto in prima persona). La versione di G. Bernardini coincideva con la versione che sarebbe stata fornita da Bruno Pontecorvo il 17 marzo 1990 a Firenze, presente lo stesso Bernardini.

Alla fine del 1938 Enrico Fermi si rifugiò con la sua famiglia, moglie e due figli, in America (la moglie, Laura Capon, era ebrea); mentre Segrè si trovava già negli Stati Uniti, quando anche in Italia (ottobre 1938) furono adottate le famigerate leggi razziali di Norimberga risalenti al 1935 (vana la pretesa distinzione che la politica razziale del fascismo fosse differente).

In quello stesso periodo, quando a Fermi fu consegnato a Stoccolma il premio Nobel per la fisica, da Berlino Otto Hahn fece sapere a Lise Meittner, sua collaboratrice ebrea fuggita poco prima in Olanda ma con il passaporto scaduto, che dall’uranio bombardato con neutroni lenti o termici, emergevano residui di bario radioattivo. Ne era sicuro e chiedeva aiuto alla Meittner per poterne individuare le ragioni. Si era forse fissionato il nucleo dell’uranio, producendo due elementi chimici, il bario e il cripto, con liberazione di energia di massa e di 2-3 neutroni per la reazione a catena?

Il modello teorico “a goccia” del nucleo atomico, instabile negli elementi di maggior peso atomico che difatti presentavano il fenomeno della radioattività o decadimento naturale, consentiva di azzardare la previsione della liberazione indotta dell’energia nucleare (in altri termini, la bomba atomica e i reattori nucleari).

Il modello “a goccia” dl nucleo atomico era già presente ai fisici teorici dal 1936 e Bohr se ne era occupato direttamente. Ciò che allora i fisici ignoravano era la fissione dell’isotopo 235 dell’uranio, la cui reattività all’azione dei neutroni lenti era determinata dal numero atomico dispari (non così per l’uranio naturale 238, preponderante sui suoi isotopi).

Ma già alla fine del 1934 la chimica tedesca Ida Noddack di simpatie naziste aveva avanzato l’ipotesi che gli esperimenti romani di Fermi avessero di fatto fissionato il nucleo dell’uranio (ed è questo il grande segreto di via Panisperna negato dai protagonisti con la scusa che furono “ciechi”).

Majorana era a conoscenza di questi risvolti ed è credibile che a un genio anticipatore come lui non fosse sfuggito il reale significato degli esperimenti condotti da Fermi con neutroni rallentati da sostanze idrogenate, sebbene i casi di reazione possibili fossero diversi.

Se l’uomo della fotografia scattata nel 1950 a bordo della nave “Giovanna C.” fosse effettivamente Majorana, si sarebbe avuta la piena conferma delle rivelazioni fatte a Dragoni da Gilberto Bernardini e delle successive dichiarazioni di Bruno Pontecorvo a Firenze (nel 1950 Pontecorvo fuggi segretamente in Russia sparendo da Roma dove si trovava per una vacanza).

Del resto, Erasmo Recami, un fisico di origini siciliane, grande studioso di Majorana, aveva individuato – dopo il 1978 – alcune tracce – separate e distinte una dall’altra – che davano Ettore in Argentina, presente a Buenos Aires almeno a partire dal 1950, coinvolgendo direttamente nelle ricerche – effettuate negli anni ‘80 – la sorella dello scomparso, Maria Majorana, che nel marzo del 1973, dopo la morte degli altri fratelli e sorelle – dapprima Luciano, che era più giovane, nel 1967, poi Salvatore, nel 1971, infine Rosina nel 1972 –, gli aveva fornito copia delle lettere del periodo napoletano, cioè le lettere del 1938, insieme a buona parte del restante epistolario, risalente agli anni precedenti, e, segnatamente, al periodo del soggiorno in Germania, a Lipsia, nel 1933.

Il giovane Recami, che fungeva da trait d’union, mise questi atti a disposizione di Leonardo Sciascia, che nel 1975 pubblicò Il caso Majorana (un phamplet concepito dopo un litigio con Segrè, che si era vantato con lui, presente Alberto Moravia, della bomba atomica, allestita a Los Alamos).

La fotografia a bordo della nave “Giovanna C.” nel luglio del 1950 evidenzia che il personaggio principale dell’inquadratura è l’uomo con gli occhiali scuri, dal fisico minuto e dall’espressione seria, poiché le due SS gli si sono poste a lato, con una particolare deferenza, concedendogli la destra, a debita distanza, e in chiaro segno di rispetto.

***

La foto originale era a più ampio campo, come si può vedere in un’altra riproduzione stranamente caratterizzata da un’inversione speculare. Simon Wiesenthal aveva fatto figurare dati errati, pubblicando quella fotografia ritagliata a sinistra, ma attraversata da un’evidente riga divisoria, che ne rappresenta difatti la metà: Nel 1939, tre passeggeri anonimi prendono il sole in attesa di sbarcare in Argentina. Al centro, Adolf Eichmann.

A questa ‘disinformazione’ di Wiesenthal, corrisponde un altro errore da parte di David Casarani (Adolf EichmannAnatomia di un criminale, Mondadori 2006, pag. 254): /AE / Superata anche la visita medica alla DAIE, era pronto a lasciare l’Europa. Si imbarcò sul piroscafo Giovanni C. che salpò da Genova il 17 giugno 1950, diretto a Buenos Aires. Era in compagnia di altre due SS, una delle quali era lo Sturmfuehrer Herbert Kuhlmann, che aveva combattuto con la 12° Divisione corazzata SS della Gioventù Hitleriana e viaggiava con il nome di Pedro Geller. In seguito Eichmann sostenne di aver pagato il biglietto di “Geller”.

La fotografia in questione, di più ampio formato e risalente a poco prima dell’arrivo della nave al porto di Buenos Aires, era stata ritrovata addosso a Eichmann, al momento della sua cattura in Argentina? Si può dedurlo da come i fatti si svolsero.

La carenza al riguardo da parte di S. Wiesenthal affonda le radici nel mistero. Nella pagina fotografica riprodotta si notano altri errori di didascalia.

Eichmann era alto m.1,76. L’uomo non identificato di quel terzetto è alto esattamente quanto Majorana, un metro e sessantotto. Tutto sembrerebbe corrispondere: persino il nodino della cravatta. L’orecchio destro è invece deformato da un gioco sottrattivo di riflessi luminosi provenienti dal rotondo paranco metallico posto di dietro. Coincide anche l’orecchio sinistro.

Si è obiettato che nelle schede segnaletiche di Polizia per gli avvisi di ricerca, così si dichiarava: viso lungo (occhi vivi e grandi, capelli neri, altezza m. 1,68). Il Prof. Ettore Majorana jr. (figlio di Luciano M., uno di due fratelli maschi di Ettore), avrebbe dimostrato l’estraneità di “Ettore Majorana” (appunto: viso lungo), rispetto al presunto ‘riconoscimento’. Peccato che, potendo probabilmente utilizzare foto facciali, piano parallele, sconosciute agli estranei, non le abbia esibite per il confronto da lui effettuato (la situazione sarebbe dunque anomala).

Il dato obiettivo emergente è che ancora oggi non si conoscerebbe l’identità ufficiale del personaggio di corporatura minuta, con gli occhiali scuri (che però, al computer, lasciano trasparire la posizione esatta degli occhi e del centro delle pupille), e che ripreso frontalmente, mentre gli altri due fanno coppia a lato, indubbiamente rappresenta il soggetto principale del fotogramma.

Che si trattasse di un’altra SS è scivolato via dalla penna di David Casarani che non si è reso conto che ben difficilmente poteva darsi un caso del genere con quella statura minuta e quell’aspetto fisico affatto differente da un tipo tedesco.

E’ pressoché impossibile che l’identità reale del terzo personaggio – ripeto, ancora una volta, dal fisico minuto, con gli occhiali scuri, alto quanto Majorana, e del resto a lui rassomigliante – potesse sfuggire all’imputato di Tel Aviv, Afolf Eichmann (e allo stesso Kuhlmann, morto nel 1985).

Insomma, Eichmann sarebbe stato costretto a riferire con le buone o con le cattive tutto ciò che sapeva sui passeggeri, su quei profughi ‘nazisti’ a bordo della nave diretta in Argentina, compreso chi scattò la fotografia, costretto a rivelarlo nei robusti interrogatori ai quali fu indubbiamente sottoposto dagli agenti speciali dei servizi segreti israeliani di cui all’epoca faceva parte anche Yuval Ne’eman, un importante fisico che ritornerà in questa vicenda nella ricostruzione di Recami.

Perciò ha in sé dell’incredibile che non possa ancora oggi emergere nulla sul terzo passeggero, come sul quarto, colui che scattò la foto, e gli altri possibili transfughi a bordo, per una fuga dall’Europa. Se quel passeggero rassomigliante non era Majorana (ipotesi fondata sul riconoscimento da parte di un ente preposto a tali verifiche), allora di chi si sarebbe trattato?

Nonostante le ricerche, pare che la foto originale – ripeto: di più ampio campo – non sia rintracciabile. Tante e tali coincidenze non possono non destare sospetto. Si potrebbe pensare all’intenzione di escludere ogni collegamento tra fotografia e gli interrogatori di Eichmann. Ma sembra chiaro che la foto fosse stata trovata addosso a lui, al momento della cattura.

Né la pista argentina di Recami è così banale e illogica come sembra presentarsi, con un cautelativo “forse”. Ci sono altri argomenti e altre circostanze non riferite da Recami, nemmeno nell’ultima edizione del 2011, a renderla più credibile (aldilà dell’assurdità di una fuga in Argentina nel 1938).

Nel 2002, provocatoriamente, avevo pubblicato uno strano articolo, intitolato L’Ipotesi Klingsor, in cui facevo delle affermazioni ‘forti’ circa il dopo possibile.

Conoscevo già quella fotografia, ma non volli chiamarla in causa. Evitai anche di far riferimento ai Record Fbi, relativi a due radio messaggi risalenti al febbraio 1947, trasmessi in codice “Enigma” dalla Centrale ‘salva nazisti’ “Odessa” di Barcellona (in Spagna), captati dai servizi segreti inglesi e poi trasmessi ai servizi segreti americani (15 maggio 1948: RG, E A1-136P B 38 Records of the FBI Classification Espionage, vol. I), pur chiamando in causa Martin Bormann, il segretario del partito nazista scomparso dal bunker la notte del primo maggio 1945 e condannato in contumacia nel processo di Norimberga del 1946 (la morte di Bormann nel 1945 a Berlino è oggi seriamente messa in discussione da molti autori).

Nel primo radio messaggio (14 febbraio 1947, n. 64 – 330 – 237 – 1136), la ‘centrale’ di Barcellona chiedeva al suo corrispondente segreto: << se M. conosce Martin Bormann e se Bormann saprebbe riconoscerlo >>. In data 21 febbraio (n. 64 – 330 – 237 – 1137) si dichiarava invece che: << la riunione con Martin è rimandata e seguiranno altri dettagli >> (Fabrizio Calvi, I nazisti che hanno vinto, Ed. Piemme 2007, pag. 286).

Chi sarebbe il misteriosissimo M. – identificato con la sola lettera iniziale –, facendo per esteso il nome del numero due del regime nazista, Martin Bormann, segretario del partito nazista già condannato a morte in contumacia dal Tribunale di Norimberga?

Come si guardi alla fattispecie, certificata da documenti inoppugnabili conservati presso gli archivi americani, non aveva alcun senso fare per esteso il nome di Martin Bormann (a prescindere dalla sorte effettiva del gerarca: se morto durante la fuga notturna dal bunker della Cancelleria, come fu fatto credere dalla Procura di Berlino, nel 1972, col ritrovamento di una parte del cranio e il riconoscimento della protesi dentaria, oppure deceduto diversi anni dopo, in America Latina). In ogni caso, è sorprendente che si taccia l’identità misteriosa di M., tirando in ballo Bormann (se M. lo conosce e se Bormann saprebbe riconoscerlo: l’organizzazione ha bisogno di M. per salvare Bormman).

M. ha qui il significato d’intermediario, conosciuto e riconoscibile, noto al mittente e forse anche al ricevente, ma lontano da Barcellona, come pure dal luogo stesso del destinatario del radio messaggio. Un contatto sicuramente molto importante, ma non rivelabile in chiaro. Per quale ragione?

I messaggi in questione non sono frammenti promiscui, ma tessere di un unico insieme, che si esaurisce da solo. Ed è la ricerca di un contatto utile, condizionata da una reciproca conoscenza. Le precondizioni sono queste, ma la riunione salterà. M., il 14 febbraio 1947 è pregato di dire cosa può fare per salvare Bormann. La centrale di Barcellona è il punto di raccordo, e di snodo, di tutta l’organizzazione. M. è un riferimento affidabile. Ed è un nominativo accuratamente protetto. Si tratta di persona fisica, non di un centro organizzato. Di una figura ‘speciale’, almeno nel contesto.

Klingsor”, cioè l’ing. K. di Peter Kolosimo (in Polvere d’Inferno, 1982, a proposito dell’impresa nucleare tedesca), è altresì il personaggio centrale, oscuro e inquietante, del romanzo dello scrittore messicano, ma di frequentazioni spagnole, Jorge Volpi (In cerca di Klingsor, Mondadori 2000), ambientato – come spy story e come romanzo scientifico – nell’ambito del processo di Norimberga; ma è anche il personaggio di un romanzo breve di Herman Hesse, L’ultima estate di Klingsor: << La notizia della morte di Klingsor piombò sui suoi amici nel tardo autunno. Parecchie sue lettere avevano espresso presentimenti o desideri di morte. Di qui dev’essere nata la diceria che egli si sia tolto volontariamente la vita. Altre dicerie, quali sempre circondano i nomi molto discussi, sono quasi altrettanto infondate >>.

Nel mio articolo del 2002 tenevo implicitamente conto di questi fattori, evitando di fare maggiori accenni; ma avevo presente la foto a bordo della nave, e sapevo della possibile rassomiglianza. Tutto ciò riguardava il “dopo”, il “poi” eventuale, rispetto alla misteriosa “scomparsa” del vivo. Le lettere si arrestano alla data del 26 marzo 1938: il seguito è meramente potenziale.

La “scomparsa” di Majorana, una volta note le sue lettere, con Sciascia nel 1975 divenne anche un ‘caso letterario’ nella coda polemica che ne segui con Amaldi e Segrè, ma il “caso” era – e rimaneva – “differente”.

Impossibile il rifugio in convento, in specie dopo la guerra. Lo scritto provocatorio di Sciascia rimaneva un misto di verità e d’invenzione. Dove cominciava il vero, e terminava il ricamo, e viceversa? Sciascia faceva morire Majorana, introducendo un’allusiva oppure velata scena finale, nel cimitero di un convento certosino: nere croci, e un monaco olandese che sembra annuire, prima del 1975 e dopo la fine della seconda guerra mondiale, alla precedente morte di Majorana. L’inverosimiglianza di Sciascia, il suo uscire dai binari della razionalità a favore della trama narrativa, creavano un mito inconsistente eppure efficace. Ma il saggio di Sciascia, giustamente famoso, vale poco o niente sotto il profilo logico indiziario. La sua intima ambiguità è sconcertante. Al pari di Recami, non si potrebbe mai comprendere come Ettore potesse essere rimasto così tanti anni in silenzio, a dispetto dei suoi cari, e come viceversa possa aver raggiunto l’Argentina, nel 1938, in effetti non disponendo di un passaporto valido per l’oltremare. Quindi ciò che viene taciuto sarebbe invece parlante.

Sciascia e Recami non potevano ‘ragionare’ così male e ‘scrivere’ così bene. Nei loro saggi ci sono allusioni implicite che sfuggono al lettore frettoloso (ma abbiamo esempi anche di autori ‘distratti’ che hanno ‘copiato male’ sbagliando date essenziali e lascandosi andare a fantasie prive di fondamento).

Nove anni prima, nel 1966, sotto il patrocinio dell’Accademia dei Lincei, Edoardo Amaldi aveva pubblicato un importante profilo biografico di Majorana, dettandone il paradigma ufficiale. Tale paradigma o consensus è stato riconosciuto come una falsificazione dallo storico Roberto Finzi (vedi Ettore MajoranaUn’indagine storica, Roma 2002). Ciò che Finzi però non riscontrava direttamente, in modo espresso e puntuale, erano le tante contraddizioni di Amaldi (una di queste testuale, e irrimediabile, da una riga all’altra), presenti nella parte finale del saggio biografico (par. n.8), a proposito della scomparsa (definita tale, senza apparentemente conoscere il testo della prima lettera per Carrelli, in data 25 marzo).

Queste le conclusioni di Amaldi: << Non si è saputo più nulla: tutti sono rimasti con un senso di profonda amarezza per la perdita, chi di un parente, chi di un amico, gentile, riservato, schivo da manifestazioni interiori, così evidentemente affettuoso anche se profondamente amaro;… come un personaggio di Pirandello…>>.

Sciascia invece lo farebbe morire dopo la guerra, in un convento, nel quale si sarebbe rifugiato, immediatamente dopo la scomparsa, per sottrarsi all’impresa nucleare, però di là a venire.

L’ipotesi letteraria di Sciascia non sta in piedi, è irrazionale rispetto al modo di scomparsa, avvenuto a danno esclusivo della famiglia, e anche rispetto allo scopo perseguito: dopo lo sganciamento delle bombe atomiche sul Giappone non ci sarebbe stata alcuna preclusione a ricomparire, anzi proprio così sarebbe dovuto accadere.

La credulità dei lettori è sconcertante. La polemica con Amaldi e con Segrè, evitando il merito di una simile vicenda, che però tirava in ballo i rapporti delicatissimi, e tesi, tra Majorana e Fermi, si concentrò sull’ucronia della bomba atomica nel 1938 (altro esempio sconcertante).

Seguì, nel 1987 (pubblicato in prima edizione presso Mondadori), il noto saggio di Erasmo Recami, ripubblicato più volte, con aggiornamenti, da ultimo nel 2011.

Anche l’ipotesi affacciata da Recami è affetta da illogicità manifesta. Majorana sarebbe fuggito in Argentina, direttamente nel 1938, senza un passaporto valido e senza informarne la famiglia. E Senza uno scopo. Sempre tacendo sulle sue scelte. Un “pupo pirandelliano”? Recami ha poi il torto di aver purgato alcuni passi delle lettere da Lipsia e di non aver riportato esattamente il testo dell’ultima lettera da Palermo, in data 26 marzo, per cui occorre rifarsi alla riproduzione fotografica di tale lettera comunque presente nel saggio.

Dopo il 2000 (successive Edizioni Di Renzo), Recami faceva figurare queste poche, ma sapide righe d’aggiornamento: << Recenti testimonianze, apparentemente serie, ma da noi non controllate, ci hanno riferito della presenza di Ettore – dopo la scomparsa – nel Cilento; o della sua morte, in età avanzata, in conventi dalle parti di Viareggio, o di Pisa. Qualcuno, addirittura, ci ha reso edotti di come Majorana abbia abbandonato il piroscafo Napoli-Palermo della “Tirrenia” prima della partenza, sia passato in Germania, poi partito per l’Argentina, e infine rientrato in Italia >>.

Per poi ripetere che se fosse veramente andato in Germania, alla fine lo si sarebbe saputo; ma non esistono fughe segrete, in parallelo a presenze manifeste. Chi impiega tali argomenti non ragionerebbe correttamente. A una fuga segreta non poteva che corrispondere una permanenza altrettanto segreta. Altrimenti, in Germania, ci poteva andare tranquillamente allo scoperto.

Il cattivo impiego di falsi ragionamenti si estende ad altre soluzioni aberranti. Quella del “suicidio”, e quella del “complotto” ai danni dello scomparso. Fa specie che i lettori non se ne accorgano. (Distratti al pari degli autori?).

Alcuni autori (come Bruno Russo) credono che Majorana si sia buttato dalla nave, rientrando via mare da Palermo a Napoli (in tal senso anche Emilio Segrè nella autobiografia pubblicata postuma nel 1995). Altri hanno introdotto artificialmente il caso esterno del delitto politico: assassinio e/o rapimento, con sparizione di ogni traccia. Comodissima soluzione spiccia, che ignorando le parole e i fatti concreti, non è nemmeno un’ipotesi, ma una palmare assurdità.

La pubblicazione su La Repubblica della fotografia scattata da un quarto soggetto a bordo della nave “Giovanna C.” salpata da Genova e diretta a Buenos Aires ha fatto gridare allo scandalo. Ma altre notizie risalenti al 2008 davano lo scomparso prima in Argentina e poi in Venezuela con la caduta di Peròn nel 1955 (caso del “signor Bini” e relativa fotografia per nulla rassomigliante).

***

La Procura della Repubblica di Roma (la notizia a mezzo stampa sembrava quasi uno scherzo) all’inizio di aprile del 2011 aprì un’indagine penale conoscitiva a proposito dell’Argentina. E’ strano che la Procura si sia mossa esclusivamente sulla base della fotografia di un certo “signor Bini” (per nulla rassomigliante, nonostante certe affermazioni su alcuni punti di concordanza tra il “Bini” e il padre dello scomparso) e secondo certe notizie risalenti a un’intervista televisiva del 2008 a “Chi l’ha visto?” fatta a un emigrante romano che negli anni tra il 1950 e il 1960 si era trasferito per motivi di lavoro in America Latina.

Il caso attingeva quasi al ridicolo, in dialetto romanesco, con dichiarazioni farfugliate e confuse, contraddittorie e vaghe, esibendo una fotografia che per tante ragioni non poteva essere presa in considerazione. Era evidente la mancanza di rassomiglianza, già dagli zigomi molto pronunciati, del tutto inattendibili, e dal fatto che la foto sarebbe stata scattata stando sopra un gradino per pareggiare – sic – la differenza di statura tra l’emigrato romano e il predetto “signor Bini” che tra l’altro sarebbe stato proprietario di una “Studebaker gialla” ma sempre senza quattrini (Majorana non sapeva guidare: quando nel 1927 ci provò, provocò un indente automobilistico, riportandone ferite e cicatrici a una mano e a una coscia per decine di punti di sutura).

Ci si potrebbe chiedere a questo punto quali furono le reazioni d’ambiente rispetto all’articolo pubblicato nel 2010 da Repubblica (pezzo di Luca Fraioli con intervento a lato di Miriam Mafai).

La cosa, ovviamente, diede fastidio. Fu scioccante. Ma rimarrebbe sempre in sospeso se scandalo fu per via della mera contiguità su quella stessa nave col noto criminale nazista Adolf Eichmann di quell’individuo minuto con gli occhiali scuri, identificato “con un elevato grado di probabilità” come ‘Ettore Majorana’ (sebbene lì accanto fosse presente un terzo passeggero mai accusato di crimini di guerra), oppure se il presunto ‘Majorana’ (dato e non concesso che si trattasse di lui), si trovasse su quella stessa nave, diretta in Argentina e ormai pronta all’arrivo in porto, come un transfuga del “terzo Reich”.

A spedire Majorana in Argentina (nel 1938?), ma senza passaporto, è stato Recami; mentre a mandarlo in convento fu Sciascia.

Perché definire con un bel << forse >> la presenza a Buenos Aires negli anni ‘50, oppure la permanenza in un convento di certosini nell’Italia del Sud nel dopoguerra, alludendo a nere croci e terminando con un << Ed è vero >>?

L’ambiguità l’avrebbe sempre fatta da padrona; anche nelle stesse ultime lettere dello scomparso, ma non in quelle di poco precedenti.

Si è fatto finta di nulla? Che si sarebbe potuto dire di più, e di meglio, affermando il 9 marzo 1938: Qui c’è un tempobellissimo, ideale per navigare nel golfo, inviando infine da Palermo un sole all’alba?

L’ambiguità delle ultime lettere di Majorana è strumentale e ed è funzionale, mentre l’ambiguità degli autori sembrerebbe derivavate da opportunità se non da pochezza. Non c’è altra possibilità. I segnali e i preavvisi di Ettore ‘tagliano la testa al toro’. Non c’è nulla di casuale. Sbaglierebbe di grosso chi sostenesse il contrario.

***

Arriviamo, così, agli ultimi interventi sul “caso Majorana”, un corposo saggio del marzo 2013 e due brevi articoli pubblicati nel 2011 e nel 2012 dalla rivista ufficiale della Società Italiana di Fisica Il Nuovo Saggiatore, rubrica Opinioni.

Nel primo di questi due articoli (autore il fisico teorico prof. Francesco Guerra) si è sostenuto, in mancanza d’altro, che l’uomo di corporatura minuta, alto 168 cm., che compariva in quella fotografia pubblicata da Repubblica, potesse essere Gustav Wagner (un gigante biondo alto circa due metri) oppure Alois Brunner (più alto di parecchi centimetri, per nulla rassomigliante): ambedue presero altre vie, mai furono presenti in Argentina.

Nel secondo articolo, nel 2012, s’è voluto ricavare come “punto fermo” la morte precoce di Majorana che sarebbe avvenuta per cause imprecisate e in luogo ignoto, diversi mesi dopo la scomparsa che diede luogo ad affannose ricerche ma prima del 22 settembre 1939, dalle affermazioni – caro estinto, compianto – fatte da un Gesuita della Provincia di Venezia, certo Padre Ettore Caselli, che acconsentendo alla richiesta avanzata per conto della famiglia dal fratello maggiore dello scomparso, Salvatore Majorana, rispondeva collettivamente ai familiari tutti, che non c’erano “ostacoli” di sorta per l’istituzione di una pia borsa di studio (di 20 mila lire), da intitolare allo “scomparso”, come appunto accadde nel seguito immediato.

La rivista Missioni fornì – poco dopo – la pubblica notizia dell’istituzione di tale fondazione. Questi due articoli erano il prodotto critico del prof. Guerra, noto fisico della Sapienza a Roma, mentre il corposo saggio del marzo del 2013 è frutto d’un lungo e paziente lavoro di raccolta di documenti e di fitta scrittura da parte di Stefano Roncoroni (un Majorana per linea femminile). Col risultato, sorprendente anche nell’antefatto, che Guerra ha preceduto Roncoroni di diversi mesi nella pubblicazione dei documenti salienti, giungendo alla medesima conclusione, cioè il caro estinto del 1939, ma stroncando poi il saggio di Roncoroni in sede di recensione.

I due autori, infine, sarebbero stati ambedue ‘stroncati’ dalla notizia (pubblicata dal Tempo di Roma in data 11 dicembre 2013) che la Procura della Repubblica continua ancora nelle indagini aperte 34 mesi fa.

Per un morto sicuro del 1939 sembra veramente paradossale. Lo sarebbe di meno nel caso di un omicidio politico, accaduto 75 anni fa, ma gli inquirenti del R.i.s. di Roma, delegati alle indagini, hanno riportato dall’Argentina faldoni di documenti (così l’articolo pubblicato dal quotidiano romano).

Il caro estinto del 1939? E, tutto ciò, con riguardo al massimo segreto possibile, però divulgato a mezzo stampa, sotto il nome dello scomparso, senza che del caro estinto o compianto del 1939 – che F. Guerra sostiene essere deceduto “in territorio non sottoposto a giurisdizione italiana” – sia stato fornito il certificato di morte (anzi si dice che è sempre mancato) e senza indicare altro (il luogo e la data di sepoltura, la data di morte, ecc.)? Senza considerare neanche che la madre, spentasi nel 1966, fece testamento a favore del figlio scomparso con la condizione “per quando sarà tornato”, avendo sborsato nel 1939 la somma di 20 lire concernente la pia fondazione; e senza considerare altresì che la sorella dello scomparso, Maria, partecipò direttamente in prima persona alle ricerche di Recami in Argentina negli anni ‘80.

In questo secondo articolo, non al riparo da future sorprese giacché le indagini della Procura proseguivano in Argentina (non si poteva comunicare agli inquirenti la certezza del preteso “punto fermo”?), si è cercato di recuperare le stesse carte già note ad Amaldi ma da lui scartate a suo tempo (Non si è saputopiù nulla).

Come se al Padre Gesuita Ettore Caselli fosse già presente un certificato di morte, che però non c’era (aggiungiamo noi, che nemmeno poteva esserci). E senza neanche esibire, come prova di ritrovamento, il “passaporto” dello scomparso, di cui ci si è evidentemente dimenticati.

Il caro estinto o compianto Ettore è impalpabile come un ectoplasma. Mancano le spoglie. Quando la morte si può provare soltanto col certificato di morte o col corpo tumulato. Insomma, la famiglia avrebbe realizzato un fatto materiale di occultamento o di soppressione di cadavere , cancellando ogni traccia di pietà o memoria funebre? A identici rilievi si presta il corposo saggio di Stefano Roncoroni (marzo del 2013: oltre 400 pagine, Ettore Majorana lo scomparsoe la decisione irrevocabile, Editori Internazionali Riuniti), che è stato tra l’altro stroncato in sede di recensione dall’autore affine del 2012. Dove starebbe il “Punto Fermo”? Nelle diatribe interne, tra chi ha detto troppo e male, e tra chi ha detto pochissimo e peggio?

Evitando di spiegare come e perché, ma anticipando il possibile esito del dopo, rispetto al movente occulto, che avrebbe determinato Majorana a ‘scomparire’ con una messinscena (accettata concettualmente da Sciascia, da Recami, da Luisa Bonolis e da Salvatore Esposito), nel 2002 mi limitai alla sola ‘provocazione’ circa le ragioni occulte dell’enigma apparente, indicando la possibilità, e al tempo stesso anche la necessità logica, della soluzione “autentica” del “caso differente”, che stava già in quelle sue stesse lettere, in una scomparsa per lettera, avvenuta in modo misterioso e contradditorio, ma ad esclusivo danno dei familiari.

Guardando al caso dal lato esterno, secondo la prospettiva di uno come Carrelli, ne rimanevano incomprensibili, e contraddittori, i modi e la ragione; ma riunendo tutte quante le lettere del 1938, si sarebbe stati costretti a rintracciarvi la necessaria presenza della soluzione autentica, operazione da compiere esclusivamente a tavolino, con un pertinente esame logico-critico, perdurando l’assenza e in mancanza del cadavere. Il thema decidendum era questo, perfettamente predeterminato.

Majorana, che era un genio, costretto a scomparire per causa di forza maggiore, ma tenuto a mantenere il segreto, aveva ritagliato rigidamente la questione della sua clamorosa sparizione, con falsi propositi di suicidio facevano parte del trucco e parimenti segnavano un distacco e persino una presa di distanza, collocandola nel suo spazio logico in modo esclusivo. Ad esempio, la lettera del 22 gennaio basta da sola a escludere il caso esterno (ogni ipotesi di complotto). Ma questa lettera vale anche nel caso opposto e contrario della risoluzione esistenziale, negativa e improvvisa, cioè il caso personale di una fuga insensata (per giocare nascondino?) o di un suicidio ritardato (via mare, colpendo la famiglia ancor più duramente, nell’incertezza, una seconda volta?).

Lo scomparso, ‘mentendo’ (ed è assolutamente rilevante scorgere in termini razionali quando effettivamente iniziò a mentire, poiché mentì comunque), in realtà ‘disse’ la verità. La scomparsa era paradossale, ma consisteva in un fatto necessario, di scopo.

Da qui anche il suo aspetto “clamoroso”, che era perfettamente evitabile. Ciò che doveva ‘sembrare’, l’andare e il tornare per nave e tutto ricomincia di nuovo, in realtà integrava la componente essenziale dell’inganno, che era effettivo, nei riguardi di qualsiasi estraneo, eccezion fatta per i suoi cari.

Se non si fa mente locale su queste ‘differenze’ fondamentali, non si riuscirà mai a dire nulla di sensato sul “caso differente”. In questa trappola logica sono caduti (apparentemente) tutti gli autori che si sono occupati della “scomparsa”. Come mai? Amaldi, infatti, potrebbe aver saputo la verità, e averla taciuta.

Dagli anni 1962 in poi la ‘verità nascosta’ avrebbe forse potuto circolare in modo riservato all’interno di una ristrettissima cerchia di fisici, tramite Giulio Racah, già Rettore dell’Università di Gerusalemme, che si spegnerà prematuramente nell’agosto del 1965 a Firenze.

Il 17 marzo 1990 il fisico Bruno Pontecorvo, che nel 1950 era fuggito segretamente nell’Unione Sovietica, presente a Firenze al teatro dell’Oriuolo insieme a Gilberto Bernardini, alla domanda che “fine” avesse fatto Majorana, così rispose: E’ finito all’Ovest (riportato da Piero Batignani, che gli fece la domanda, in La scomparsa di MajoranaC’è qualcuno che sa, Ed. Florence Art, libro “chiuso” a Firenze “ il20 settembre 2010”, pag.133).

Se si collegano tra loro i frammenti di ‘informazione’ si viene a formare un quadro coerente e inquietante.

Dalle notizie su Majorana in Argentina, riportate nell’ottobre del 1978 dal rispettato giornalista dell’assai diffuso settimanale Oggi, Gino Gullace, corrispondete da New York con entrature e gradimenti particolari, amico di Luigi Romersa, che a sua volt era amico di Werner von Braun, ma anche amico e conoscente, Gullace, del fisico torinese Tullio Regge, risultava che proprio quest’ultimo gli aveva riferito che un altro fisico, che si rivelerà essere Carlo Rivera Cruchaga, rispettabilissimo docente all’Università Cattolica di Santiago del Cile, aveva saputo qualcosa di Majorana già alla sua prima presenza a Buenos Aires nel 1950 e poi in seguito nel 1954 e nel 1961. Nel 1974 la vedova dello scrittore guatemalteco Asturia, premio Nobel per la letteratura e già console a Parigi, aveva riferito a Taormina, durante una vacanza, identiche notizie. Perciò, se Carlos Rivera e la vedova Asturias non si sbagliavano, e non mentivano, Majorana era presente in Argentina almeno nel 1950. Perché nascondersi? La “ricomparsa”, in una fotografia, del presunto Ettore Majorana a bordo della nave che adesso lo starebbe portando in Argentina, avrebbe condotto gli inquirenti italiani a ricercare tracce e notizie in questo lontano paese dell’America del Sud, sebbene Majorana non possa essere più in vita, a 107 anni dalla sua nascita, a Catania, il 5 agosto del 1906. Il risultato di tali indagini è ovviamente coperto da segreto istruttorio, ma sembra assodato che se Majorana è morto nel 1939, come hanno sostenuto Guerra e Roncoroni nel 2021 e nel 2013, si sarebbe fatto prima e meglio a individuarne la tomba, anziché recarsi in Argentina (come riporta l’articolo dell’11 dicembre 2013 del quotidiano romano Il Tempo).

*Ovviamente, si tratta di una discussione critica, in via puramente ipotetica, senza alcuna pretesa di verità certa. La verità, in senso negativo o positivo, verrà dalle indagini ancora in corso. Tuttavia è possibile mostrare alcuni documenti e alcuni confronti, realizzati senza pretese. L’articolo di Repubblica è presente sul web alla voce < la ricomparsa di Majorana >.

I documenti riguardano, nell’ordine, la pagina fotografica dl libro di S. Wiesenthal, e il confronto di immagini messo in onda nella rubrica Misteri su Italia 1, nel gennaio del 2011 (con Marco Berry). Le altre immagini si riferiscono a un ‘confronto’ da me realizzato con metodi di ripiego, a dir troppo ‘artigianali’. Un diverso confronto è presente in un altro nostro intervento (Le indagini). Si controlli Episteme Forum, sempre sul web, per una rassegna del dissenso circa la fotografia pubblicata nel 2010 da Repubblica. Sempre sul web sono liberamente consultabili numerosi siti sul caso Majorana. Riprodurrò a parte gli articoli critici del prof. Francesco Guerra.

(avv. Arcangelo Papi, febbraio 2014)

 

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Una Risposta

  1. Miguel Lunetta
    Miguel Lunetta 17 febbraio 2014 a 11:20 |

    le tesi della simpatia al nazifascismo e della scomparsa volontaria sono inconciliabili:esisterebbero fatti storici ad evidenziarle.Rimane solo l’incognita della sepoltura per confermarle od escluderle.

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