i segreti di Archimende2

I SEGRETI DI ARCHIMEDE – Parte 3°

Busto di Archidamo III, re di Sparta, considerato come busto di Archimede

I SEGRETI DI ARCHIMEDE

 

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PARTE TERZA

LA CHIOMA DI BERENICE E LA GRANDEZZA DELLA TERRA

1* Archimede di Siracusa e Conone di Samo, legati da grande amicizia, oltre a essere grandi matematici erano astronomi molto bravi ed esperti. Si può ritenere che abbiano collaborato anche in questo campo. Nessuno degli scritti di Conone è giunto fino a noi, ma le testimonianze di Callimaco, di Catullo, di Virgilio, di Seneca e altri autori, assegnano a Conone un posto di rilievo.

Gli Aitia di Callimaco in 4 libri (ci sono pervenuti di quest’opera soltanto un centinaio di frammenti papiracei) si chiudevano con la Chioma di Berenice, ripresa da Catullo nel carme 66.

L’astronomo reale Conone avrebbe scoperto nell’anno 245 a.C. (?)1 una nuova costellazione, in verità piccola e insignificante, composta da 7 deboli stelle, disposte a triangolo, presso la coda del Leone, tra i Cani da Caccia e Boote.

Stando a quanto scrive Callimaco, i riccioli della chioma dalla giovane e bella regina Berenice, offerti in sacrificio per il ritorno del marito da una guerra in Siria (Berenice I di Cirene aveva sposato da poco Tolomeo III, detto l’Evergete, che aveva allora 40 anni), e misteriosamente spariti dal tempio in cui erano stati dedicati, sarebbero saliti in cielo per formare un nuova costellazione, quella che appunto Callimaco attribuisce a una scoperta di Conone, che per tale ragione è poi passato alla storia.

La nuova costellazione, molto debole, non può essere paragonata alla limpida bellezza della Corona Boreale o Corona di Arianna celebrata da altri poeti (ad esempio Properzio). Perché Callimaco ha associato alla scoperta di Conone la scomparsa dei riccioli votivi della regina? Che senso ha il paragone?

Anche Virgilio, nelle Bucoliche (III, 40), ricorda Conone. Le Bucoliche sono un’opera allegorica, di misteriosa architettura. Nella terza ecloga, il pastore Menalca ha sfidato nel canto il pastore Dameta: scommetterò delle coppe di legno di faggio, opera cesellata del divino Alcimedonte (sconosciuto, probabilmente fittizio), nelle quali una flessibile vite sovrapposta con abile compasso veste di pallida edera i grappoli sparsi. Nel mezzo delle due figure, Conone e chi fu l’altro, che agli uomini disegnò con la bacchetta tutto quanto il cielo, quali siano le stagioni per il mietitore, quali quelle per il curvo aratore?

Virgilio ha citato Conone, mentre sull’identità dell’altro personaggio, non nominato bensì sottinteso, i critici si sono sbizzarriti: Esiodo, Euclide, Arato, Eudosso, Archimede, Ipparco, Nigidio Figulo? La migliore soluzione sarebbe Archimede, non solo per la grande stima e reciproca che li legava, ma anche perché sappiamo da Seneca (Questioni naturali, VII, 3, 3) che Conone, citato dopo Democrito e Eudosso, era considerato ricercatore diligente, che ha raccolto per parte sua le osservazioni condotte dagli Egizi sulle eclissi di sole.

La critica moderna è però orientata a escludere che Conone avesse scritto un’opera specifica sulle eclissi, mentre si sa da Tolomeo che ha invece scritto un’opera sui parapegmata, o episemasie parapegmatiche, cioè sulle fasi annuali delle stelle fisse. Dalle Collezioni Matematiche di Pappo (proposizione 18 del libro IV) si ricaverebbe che Conone aveva proposto di trovare la teoria della spirale. Perciò alcuni ne hanno dedotto che ciò abbia dato origine al Trattato sulle spirali di Archimede, compresa la quadratura della spirale, che difatti molto rassomiglia ai riccioli di Berenice dell’aition di Callimaco.

Da un commentatore di Tolomeo a proposito di un’opera sulle apparizioni delle stelle fisse si apprende che Conone ha fatto osservazioni astronomiche anche in Italia. Pertanto Conone e Dositeo potrebbero aver lavorato con Archimede, che era figlio di un astronomo ed era astronomo pure lui, come apprendiamo dall’Arenario. La loro amicizia, sorta in Egitto, era poi continuata a lungo. Avevano progetti comuni di ricerca. Ciò giustifica i loro proficui rapporti e il fatto che Archimede continui ad averne con Dositeo, anche dopo la morte prematura di Conone.

Con certi strumenti (due cilindretti, di cui uno bianco), e con un metodo di traguardo al momento del sorgere del sole, Archimede aveva stimato la grandezza relativa del sole rispetto alla Terra, correggendo le misure effettuate da Eudosso e poi da suo padre.2

Archimede aveva valutato anche la grandezza della Terra, fornendo la misura spropositata di 3 milioni di stadi (e non maggiore), mentre uno stadio greco poteva misurare al massimo 185 metri, ma anche meno: non lo sappiamo con esattezza. Le stime dello stadio greco oscillano tra i 185 e i 157 metri.3

La circonferenza equatoriale della Terra misura 40. 076, 533 chilometri, cioè oltre 40 milioni di metri. La stima di Archimede è circa di dieci volte maggiore. Viceversa, Archimede è a conoscenza che (nell’anno 240 a.C. in cui scrive l’Arenario)4alcuni avevano già misurato la circonferenza terrestre, trovandola pari a 300.000 stadi (circa 55 mila chilometri con uno stadio di 185 metri). Potrebbe essere che Archimede intenda riferirsi alle valutazioni di Dicearco, come appunto ritiene Gino Loria (op. cit., pag. 489); ma si potrebbe anche pensare alle stime di Eratostene (che tuttavia erano di 252 mila stadi, come riporta Teone di Smirne). Il problema deriva dal fatto che l’Arenario è sicuramente precedente all’impresa della misurazione della Terra da parte di Erastostene e dei matematici alessandrini.5

Le grandezze relative del sole, della terra e della luna, e cioè anche la distanza del sole dalla terra, erano state valutate malissimo nell’antichità, per via dell’estrema difficoltà nel poter stimare una misura di pochissimo differente dall’angolo retto.

Aristarco aveva stimato abbastanza bene la distanza Terra-Luna, ma non altrettanto la distanza Terra-sole difficile da valutare. Quando si presenta la mezza luna al passaggio in meridiano, Aristarco stimava che l’angolo rispetto al sole fosse di 87 gradi.6

Gli astronomi greci non riuscivano, con misurazioni angolari approssimative, a stimare un angolo invece assai vicino ai 90 gradi. Pertanto sfuggiva la grande distanza tra il Sole e la Terra.7 Questa doveva essere stata la causa anche della stima esagerata di Archimede per le dimensioni della Terra.

Archimede riteneva la Terra molto più grande e il Sole molto più vicino alla terra. Di conseguenza la grandezza del Cosmo, riportata alla sfera delle stelle fisse, era ben più piccola dell’attuale sistema solare, che è minima cosa nella Galassia, figuriamoci nell’Universo. Ma il sistema numerico delle ottadi, inventato da Archimede, era tale da superare di gran lunga la grandezza del numero delle particelle stimato dalla scienza moderna per l’Universo.

Archimede si pose al riparo dall’insidia delle misurazioni. Voleva soltanto indicare che l’Universo è intellegibile e accessibile al numero. Anzi, che la mente umana può superare certi limiti. Questo il senso dell’Arenario.

Secondo l’astronomo Jean-Claude Pecker – decano degli astronomi francesi, autore di molti bei libri di divulgazione come Paolo Maffei – , Eratostene (275-195 a.C.) avrebbe realizzato la misurazione del raggio terrestre attorno all’anno 230. Sappiamo invece che l’Arenario era stato dedicato a Gelone, allorquando il padre Gerone II lo associò al trono di Siracusa, il che avvenne sicuramente nell’anno 240.

Se all’epoca in cui fu l’Arenario alcuni– come dice Archimede – avevano già misurato le dimensioni della terra, trovando però che la circonferenza terrestre era di 300 mila stadi (stima non troppo lontana dalla realtà con l’adozione di uno stadio di circa 157 metri), costoro non potevano essere quelli del gruppo di Eratostene. L’Arenario è stato sicuramente composto verso l’anno 240. A questa data Eratostene aveva già compiuto l’impresa, che sarebbe stata notificata dai Tolomei a tutte le corti del Mediterraneo e che dunque era già nota a Gerone II e suo figlio Gelone? Se così fosse stato, allora Archimede omette volutamente il nome di Eratostene e in ogni caso mostra di non apprezzare molto tale risultato, in contrasto con le sue valutazioni di tipo astronomico.

Non c’è ragione per ritenere che il testo dell’Arenario sia corrotto o manipolato su questo punto, sebbene abbiamo già visto un caso di probabile errore del copista a proposito del padre di Archimede.

Infine, si sarebbe trattato di un’impresa collettiva, alla quale parteciparono altri matematici e astronomi alessandrini, sotto la direzione di Eratostene. Ed è qui il caso di ricordare che la brevissima dedica d’accompagnamento del terribile problema dei Buoi del Sole è indirizzata a Eratostene e ai matematici di Alessandria.

Più degna di considerazione è l’ipotesi che la stima di 300 mila stadi riportata da Archimede sia invece quella di Dicearco, grande cartografo e geografo dell’antichità. *[Sulla geografia antica si veda Geografia e geografinel mondo antico - Guida storica e critica, Laterza, 1990, a cura del Prof. Francesco Prontera, docente all’Università di Perugia].

Quando avvenne la misurazione di Erastotene della lunghezza del meridiano terrestre tra Alessandria e Syene?

Saremmo costretti a ritenere che Eratostene abbia misurato le dimensioni della terra (col metodo già accennato dell’ombra dello gnomone) poco prima del 240, se però Archimede non intendesse rifarsi a Dicearco, senza nominarlo.

Se non si tratta di Dicearco siamo costretti a riportare indietro di almeno dieci anni la datazione di Pecker, che poi quella più seguita dagli studiosi.

Archimede si riferiva alle misurazioni del gruppo di Erastotene e non ad altri tentativi precedenti? Come va interpretato il reticente passo dell’Arenario a proposito delle stime sulla grandezza della Terra?

Pasquale Midolo (1912) riporta una diversa chiusura dell’Arenario, rispetto alla edizione curata da Attilio Frajese. Secondo il Midolo, nel congedarsi da Gelone Archimede così concluderebbe: << Io penso, o re Gelone, che queste cose non sembreranno credibili a molte persone che non sono versate nelle scienze matematiche; ma esse saranno dimostrate da coloro che hanno coltivate queste scienze e che si sono applicate a conoscere le distanze della Terra, della Luna, del Sole e dell’Universo intero; pertanto io opino che non vi sarebbe inconveniente perché altri le considerino di nuovo >>.

L’ultimo periodo dell’Arenario ripreso dal Midolo non trova conferma in Frajese, il quale riporta: << perciò ho ritenuto che fosse bene che tu conoscessi queste cose >>. Ciò non toglie che con una certa probabilità, coloro che avevano di recente misurato la dimensioni della Terra, possano essere individuati nel gruppo di Eratostene, a meno che Dicearco non avesse già effettuato tale misurazione con altri metodi, ad es. quello della distanza marittima tra Alessandria e Rodi, il cui valore di scarto di longitudine fosse stato calcolato col sistema dell’osservazione dei tempi delle eclissi di luna da luoghi diversi. Tale sistema, al quale avrebbero pensato insieme Archimede e Conone, un secolo dopo era considerato da Ipparco come il migliore (a tale sistema si sarebbero rifatti Posidonio di Apamaea e altri, che trasferirono all’astronomo e geografo Claudio Tolomeo una diversa “misura” della circonferenza della Terra, pari a 180 mila stadi.8

Al Biruni (nato nel 973 d.C. nel Khuwarizm, una regione a sud del lago d’Aral), nel 997 osservò da Kath (sua città natale) l’eclissi di luna del 24 maggio. Si era messo d’accordo con un astronomo di Bagdad: dallo scarto dei tempi locali delle eclissi i due calcolarono la differenza di longitudine tra i due luoghi. E’ stato Al Biruni a ricordare l’esistenza di una “scatola della luna” che potrebbe riferirsi a congegni meccanici del tipo di quello di Cerigotto, ripresi poi in età bizantina. *[Di Al Biruni, che è stato il maggior astronomo arabo, vogliamo qui ricordare Gli astri, il tempo, il mondoViaggio nell’India segreta, Xenia, 1997].

Eratostene dovrebbe aver misurato il perimetro della Terra poco prima dell’anno 240, se gli si potesse riferire quel passo dell’Arenario. Viceversa, se il passo è riferibile a Dicearco, Eratostene compì l’impresa successivamente, diciamo verso il 230.9

Con la misurazione della grandezza della Terra la geografia scientifica compiva un enorme passo in avanti. *[Su Eratostene geografo, cfr. Luciano Canfora: Il papiro di Artemidoro, 2008, e Il Viaggio di Artemidoro, 2010].10

Eratostene, nel poemetto intitolato Ermes (giuntoci per frammenti), descrive la Terra secondo le parole del dio greco che si leva in volo nel cielo. Appaiono nettamente 5 zone climatiche (‘clima’ in greco significa ‘inclinazione’ del sole), ma la descrizione del polo nord lascia molto a desiderare.

In Properzio, l’astrologo Horos parla delle 5 parti del cielo. Eratostene conosce l’opera di Dicearco, discepolo di Aristotele, e la segue nella sua Geografia. Tracciava un parallelo passante da Gibilterra, che attraversando Rodi giunge fino all’Himalaya, e un meridiano che tocca Syene e Alessandria. Nel 230 Eratostene aveva 45 anni. Un’età appropriata per alti incarichi e per grandi imprese. Archimede non lo stimava, sebbene lo tratti diplomaticamente nella lettera di premessa al Metodo, che doveva precedere temporalmente la grande impresa della misurazione della Terra.11

2* Eratostene era originario di Cirene, come il poeta Callimaco, di cui era stato allievo. Cirene era anche la patria della regina Berenice II (265-221), figlia del re Maga, che nel 246 aveva sposato il figlio di Tolomeo II Filadelfo, Tolomeo III detto l’Evergete, portandogli in dote il suo piccolo regno.

Dopo un soggiorno ad Atene, Eratostene fu chiamato ad Alessandria dal nuovo regnante, Tolomeo III (nato nel 284, re d’Egitto dal 246 al 221) per essere investito della importantissima carica di Bibliotecario, succedendo ad Apollonio Rodio (lo sappiamo dal Papiro Ossirinco 1241, colonna II).

Eratostene era un poeta e un letterato, che s’intendeva però di filologia, di filosofia platonica e anche di matematica. Gli si attribuiscono alcune scoperte matematiche, come il crivello dei numeri primi e il mesolabio, ma Eratostene non era propriamente un matematico. Archimede lo sapeva bene. Era in grado di giudicarlo anche da lontano.

Eratostene fu anche un ottimo geografo. Anzi fu il fondatore della geografia scientifica, che tuttavia aveva già avuto un forte impulso con Dicearco.

La Biblioteca e il Museo di Alessandria erano le grandi istituzioni culturali e scientifiche di un regno greco che in Egitto aveva puntato sulla modernità.

L’incarico ambitissimo di Bibliotecario ne sanciva il primato, ma Eratostene rimase “il Signor Beta”. Un tuttologo come lui non poteva primeggiare in nulla.

Se l’impresa della misurazione della circonferenza terrestre fu notevolissima, ciò si deve anche ai matematici alessandrini, e come si può supporre, anche al fatto che una simile impresa era stata già tentata in passato dagli antichi Egiziani (il pozzo di Syene, nell’isola Elefantina del Nilo, ad Assuan, era difatti antichissimo).

Il giorno del solstizio d’estate il sole illuminava il fondo di questo pozzo, posto all’incirca sul tropico. Erastostene, il giorno stesso a mezzogiorno (il sole è lontanissimo dalla terra e i suoi raggi giungono paralleli), misurò l’ombra di un obelisco ad Alessandria e ne dedusse che il Sole si trovava a un cinquantesimo dicerchio (7,2 gradi) a sud dello zenit.

In altri termini, Alessandria si trovava a 7,2 gradi di latitudine nord, rispetto a Syene. Stimando a 5 mila stadi la distanza tra i due luoghi, posti quasi sulla stessa longitudine, come pressappoco lo erano Rodi e Alessandria, Eratostene trovò che la circonferenza terrestre è di 250 mila stadi (5.000 per 50 = 250.000).

Plinio attribuisce allo stadio di Eratostene una lunghezza equivalente a 157,50 metri. Secondo questo valore, la misura della circonferenza terrestre calcolata da Eratostene, sarebbe corretta, con un margine d’errore inferiore all’1 per cento, ma tale precisione fu puramente fortuita.

Anche accettando il valore dello stadio sopra riportato, Assuan si trova a nord del tropico, e non sul tropico. La differenza reale delle latitudini è inferiore a un cinquantesimo di cerchio. Alessandria si trova a ovest del meridiano di Assuan. Infine, la misurazione della distanza tra Syene e Alessandria, col metodo dei passi, non poteva che essere molto approssimativa. Gli errori però si compensarono, e questo spiega il buon risultato ottenuto dagli Alessadrini. Il metodo di per sé era indubbiamente corretto.

Archimede poteva quantomeno rivendicare che pigreco era una sua scoperta. Per primo aveva misurato il cerchio. Anche il Siracusano, doveva essersi in qualche modo occupato della medesima questione.

Verso il 300 a.C. Dicearco aveva fatto il primo passo per una geografia matematica, individuando un parallelo ed elencando una serie località del bacino del Mediterraneo poste alla stessa latitudine. La determinazione della latitudine era un problema irrisolto per la navigazione. Lo rimarrà fino al moderno trasporto dell’ora con un cronometro di precisione. Il metodo delle eclissi di luna, raccomandato da Ipparco e ripreso da Al Biruni, non si rivelò all’altezza. Ciò nonostante gli antichi erano a conoscenza di certe longitudini fondamentali e su questi valori avevano basato i loro portolani.

Quella del grado di meridiano non è l’unica misura di distanza attribuita a Eratostene, che aveva pure realizzato una carta geografica per tutto il mondo conosciuto. Uno dei dati riportati dal geografo Strabone che scriveva all’epoca di Augusto, è la distanza per mare tra Alessandria e l’isola di Rodi, che Eratostene avrebbe determinato in 3750 stadi.

Anche questo valore è abbastanza preciso, se si assume che il grado di meridiano valga 700 stadi (cfr. L. Russo: op. cit, pagg. 245 e ss.).

In età imperiale si riteneva che Alessandria e Rodi fossero sullo stesso meridiano, il che non è esatto. Si può congetturare che lo scarto di longitudine fosse noto a Eratostene, che ne tenne conto nella sua valutazione (L. Russo).

Cleomede (Celestia I, 7, 49-52), che riporta la misura di 250 mila stadi per la circonferenza terrestre mentre per tutte le altre fonti era di 252 mila, asserisce in breve che il metodo di Eratostene era più oscuro di quello di Posidonio (il maestro di Cicerone a Rodi).

Syene distava dal tropico più di 400 stadi. Plinio (Storia Naturale II, 183) riporta che il pozzo di Syene era stato scavato a scopo dimostrativo. In realtà il pozzo di Syene esisteva già da tanti secoli. Lo avevano scavato gli antichi Egiziani. I Greci ne recuperarono la funzione.

Eratostene, secondo Lucio Russo, aveva misurato la distanza tra Alessandria e Syene per calcolare, in base ad altre misure, la distanza tra Alessandria e Rodi.

Marziano Capella (V sec. d.C.) ricorda che le informazioni sulle distanze in Egitto erano state fornite dai mensores regii di Tolomeo, ma queste misure era già state fate in epoca faraonica. Da ciò sorge il dubbio sull’originalità del metodo di Eratostene. Il Bibliotecario poteva essersi imbattuto in un antico resoconto delle medesime operazioni effettuate secoli prima sotto i faraoni.

Il pozzo di Syene (Assuan) era antichissimo e si sapeva che in quella località il giorno del solstizio gli gnomoni non davano ombra.

I “misuratori regi” (contatori di passi) erano funzionari del faraone addetti alle operazione catastali. I due regni dell’antico Egitto erano molto evoluti per quanto riguardava l’astronomia. Nulla di più probabile, perciò, che le stime di Eratostene derivassero da un antico procedimento. Ciò spiegherebbe anche perché Dicearco o chi per lui avesse stabilito le dimensioni della terra in 300 mila stadi e come lo potesse sapere Archimede che nel suo soggiorno in Egitto si era occupato altresì di rilevazioni topografiche.

Secondo Lucio Russo la misurazione di Eratostene del meridiano terrestre era altrettanto corretta quanto quella effettuata nel 1669 (con errore inferiore all’1 per cento). Si può altresì osservare che il numero 252 ha la proprietà di essere divisibile per tutti i numeri naturali da 1 a 10 (il loro minimo comune multiplo è 2520, che è esattamente la metà del numero Platonico delle Leggi, il numero 5040, inferiore di una unità al quadrato di 71, e derivante dal prodotto fattoriale < 7! >).12

Eratostene aveva adottato una nuova misura dello stadio?

Strabone (Geografia I,12) riporta che Ipparco rimproverava che Eratostene non avesse usato metodi astronomici per la misurazione della Terra. Sappiamo inoltre da Cleomede che Posidonio di Apamea, circa un secolo e mezzo dopo Eratostene, aveva cercato di rifare il calcolo delle misure della Terra e del Sole partendo dall’Arenario, e che invogliato dalle critiche rivolte a Eratostene da Ipparco, ne mettesse pure lui in dubbio i risultati (cfr. Gino Loria, op.cit., pag. 491 ss).

Assumendo che nel giorno del solstizio estivo, nell’istante del mezzodì, vi sia una superficie circolare di 300 stadi senz’ombra nei dintorni di Syene, e che l’orbita solare sia 10 mila volte il cerchio massimo della Terra, Posidonio trovò che il diametro del sole era di 3 milioni di stadi. Nell’Arenario Archimede aveva dato le seguenti stime: la circonferenza terrestre è di 3 milioni di stadi; il diametro della terra è maggiore di 3 volte di quello della luna; il diametro del sole è 30 volte quello della luna; il diametro del sole è maggiore del lato del poligono regolare di 1000 lati inscritto nel cerchio dello Zodiaco.

Marziano Capella13 ricorda sia Archimede che Eratostene. Nella prefazione poetica al sesto libro, dedicata appunto alla Geometria, Capella menziona la “sfera celestequal bello ornamento…, che stupì diSicilia la terra a questo doppione del mondo, e che fu Archimede a riprodurre gli astri. Poi riporta il risultato dei 252 mila stadi di Eratostene, e nell’ottavo libro, dedicato all’Astronomia, riferisce che è stato dimostrato da Eratostene e da Archimede che nella circonferenza della terra sono compresi 406.010 stadi, così che l’orbita della Luna è maggiore di cento volte rispetto a questa, e che quest’orbita risulta seicento volte maggiore della Luna stessa.

Da un libro all’altro delle Nozze di Filologia e Mercurio, Marziano Capella ha fornito due ‘misure’ diverse, accostando insieme i nomi di Archimede e di Eratostene per la misura di oltre 400 mila stadi, che non è stata data in stadi di 157 metri. Uno stadio conteneva 125 passi, e un miglio 1000 passi.

In un altro luogo dell’opera, Marziano Capella riportava la misura di Tolomeo di 180 mila stadi, confermata da altre fonti. Veramente una bella confusione, che trasse in inganno Cristoforo Colombo, da Claudio Tolomeo fino a Marziano Capella?

La stima di Eratostene [252 mila passi con uno stadio greco di 157,50 metri] corrisponde a una circonferenza della Terra di 39.400 chilometri che è alquanto realistica. La stima di 300 mila stadi, criticata da Archimede nell’Arenario, con il medesimo valore dello stadio porterebbe alla valutazione in eccesso di 47.100 chilometri, mentre la stima di Eratostene, con uno stadio di 185 metri, conduce all’incirca al medesimo valore. Da dove viene la seconda stima riportata da Marziano Capella e attribuita sia ad Archimede, che a Eratostene? Nasce il sospetto che Archimede, dopo l’Arenario, sia ritornato sulle sue stime correggendole. Nessuna delle opere a lui attribuite e a noi non pervenute, sembra però riferirsi a tale ripensamento, ad eccezione forse del De viatico.

I triangoli dell’ombra di Talete (con riferimento all’altezza delle piramidi), li ritroviamo in Platone e nelle misurazioni di Eratostene.

Aristarco intese misurare lo spazio che separa la terra dalla luna e dal sole, Archimede la grandezza dell’Universo, a partire da un granello di sabbia o seme di papavero: ma intervengono sempre le ombre.

Archimede aveva compiuto delle stime al sorgere del sole e durante le eclissi di luna. Aveva poi cercato di misurare il valore dell’angolo formato dal trigono Terra, Sole, Luna. Sapeva che data la grande distanza del Sole i suoi raggi potevano essere considerati paralleli.

Aristarco pensava a una distanza del Sole di 19 volte la distanza della Luna dalla Terra. Archimede pone il sole più lontano (col diametro del Sole 30 volte quello della Luna).

Se il Sole fosse abbastanza vicino alla Terra, e la Terra abbastanza piatta (cioè molto grande), una variante del metodo di misurazione impiegato da Eratostene avrebbe misurato la distanza Terra-Sole. Applicando il teorema di Talete, l’altezza dello stilo o gnomone sta alla lunghezza dell’ombra come la distanza Terra-Sole sta alla distanza tra Syene e Alessandria.

3* Conone di Samo era coetaneo e intimo amico di Archimede. Così dice di lui il grande Siracusano: Era mioamico ed era un uomo ammirevole nelle matematiche. Altrove afferma (rimpiangendone la morte prematura, avvenuta dopo l’anno 245), che soltanto Conone era capace di comprenderlo.

Un certo Nicotele di Cirene aveva scritto un libello contro Conone a proposito di un presunto errore che avrebbe commesso nella dimostrazione di un teorema sulle sezioni coniche, e trasportato dall’acre inimicizia ne aveva concluso, in generale, che non v’era nulla di utile nell’opera di Conone, però stimatissimo da Archimede.

Di Conone non sappiamo quasi nulla. La sua notorietà e fama sono però testimoniate dalle fonti, per primo da Callimaco di Cirene, sofisticato poeta alessandrino che era stato maestro di Eratostene e che fu un infaticabile ricercatore nella grande Biblioteca universale di Alessandria.

Dalle Collezioni Matematiche di Pappo sembra che Conone avesse stimolato Archimede a scrivere un’opera sulla spirale, che fu soddisfatta dopo la morte prematura di Conone, quando Archimede invierà a Dositeo lo specifico trattato. Conone doveva lavorare come astronomo reale a Canopo. E doveva essere un astronomo provetto. Lo ricaviamo dall’ambientazione dell’aition di Callimaco sulla Chioma di Berenice e in base al fatto che a Canopo venne emesso il decreto reale di riforma del calendario proprio in questo periodo.

Di Conone sappiamo che verso il 245 avrebbe individuato la “Chioma di Berenice”, un gruppo di 7 deboli stelle situato nell’area del Leone, fra Boote, l’Orsa Maggiore e la Vergine. Lo asserisce Callimaco, nell’ultima elegia degli Aitia. Poco dopo le sue nozze con Berenice, l’Evergete era dovuto partire in guerra (gennaio del 246) contro Seleuco II, re di Siria. La regina fece voto di offrire nel santuario di Afrodite-Arsinoe la sua chioma per il ritorno del marito dalla guerra e sciolse il suo voto probabilmente nell’autunno del 245.

Essendo la chioma della regina misteriosamente scomparsa dal tempio, Conone l’avrebbe identificata con un gruppo di deboli stelle anonime, chiamando appunto Chioma di Berenice questa nuova costellazione che fu poi adottata da Tycho Brahe.

Callimaco cantò il catasterismo di Berenice in un’elegia che i papiri hanno in parte restituita (una trentina di versi, corrispondenti ai vv. 44-78 del carme 66 di Catullo, più alcuni frammenti dell’inizio e della fine). Catullo, due secoli dopo, rifece in versi latini a questa elegia di Callimaco, attenendosi abbastanza fedelmente al testo greco. Callimaco parla della chioma della regina (che ben poteva essere una ciocca di riccioli: come nel poema eroicomico di Alexandre Pope, Il rapimento del ricciolo, dedicato a Miss Arabella Fermor), che sarebbe stata consacrata a Venere, e finge che la dea dell’amore l’avesse fatta rapire da Pegaso, per collocarla in cielo, dal momento che Bacco vi aveva già collocato Arianna.

In appoggio alla finzione poetica, Callimaco cita la testimonianza di Conone, che aveva veduto brillare in cielo la nuova costellazione. E, per dare più credito all’evento, Callimaco rammenta con enfasi le attività astronomiche di Conone, non rendendogli però un buon servigio scientifico. Callimaco parla di un ricciolo (usando il termine boctruchon, che sembra evocare un boccolo), che a sua volta Catullo traduce con caesariem (capelli fluenti, chioma).

Un ricciolo evoca meglio la forma della spirale. Anche le galassie a spirale, di cui la costellazione primaverile della Chioma di Berenice è una finestra aperta verso l’universo profondo, possono essere accostate a un ricciolo.

Così si esprime Catullo (trad. ottocentesca di Rigord):

Quel, che nel vasto mondo in ogni parte

Tutt’i lumi cercò, che appien comprende

E quando nasce ogni astro, e quando parte.

Che sa, come del sole oscure bende

Ci ascondano il fulgor, come ogni stella

Ceda a que’certi tempi, onde dipende,

E come ancor da giri eterei in quella

Grotta del Latmio occultamente amore

Cinzia con dolc’esiglio a se ne appella.

Quell’istesso Conon fra lo splendore

Me vide ancor Chioma di Berenice

Splender chiara, e del ciel novell’onore;

Ch’ella renduta omai sposa infelice,

Le palme ergendo, e di suo voto in segno,

Offerse ai Numi umìl supplicatrice;

Allor che il Re già seco astretto in pegno

Di recente imeneo là di presenza

I confini a guastar d’Assirio regno.

Callimaco ha inventato? Che cosa aveva scoperto Conone di così importante se quella costellazione era tanto debole da apparire al paragone con la Corona di Arianna piuttosto una deminutio più che un vero omaggio alla giovanissima regina Berenice? Secondo il Prof. Giorgio Dragoni, storico della fisica all’Università di Bologna, Conone non aveva osservato una costellazione, ma una stella nova: cioè un’esplosione stellare, che aveva lasciato dei filamenti (visibili ad occhio nudo), simili a dei riccioli, oppure una cometa.

L’ipotesi di Dragoni (1983), suggestiva e razionale, è ben argomentata, anche attraverso l’analisi puntuale delle fonti. Il fenomeno doveva essere cospicuo; però i filamenti di una supernova sono in genere osservabili soltanto al telescopio. Tuttavia il Polo Nord della nostra Galassia, intorno al quale ruotano in 250 milioni di anni tutte le stelle visibili, compreso il Sole, si colloca proprio in questa debole costellazione di appena 7 stelle, descritta da un astronomo ottocentesco come una ragnatela finissima adorna di lucenti gocciole di rugiada. Come aveva potuto farne la scoperta Conone, e soprattutto perché Callimaco volle collegarla alla “chioma” oppure ai “riccioli” della regina?

Il Prof. Dragoni fornisce una buona risposta: la massima probabilità è per una cometa (coma, appunto).

In ogni caso, il cielo in cui si trova la piccola costellazione è un grande deposito di galassie. E se Archimede costruì effettivamente un telescopio a riflessione, come si ha una qualche possibile ragione di supporre, allora i riccioli della regina erano proprio quelle galassie che in copiosi ammassi si scorgono a non molti ingrandimenti con un piccolo obiettivo proprio in quel punto vuoto e buio del cielo! La sfera delle stelle fisse per quanto poteva estendersi? La domanda è implicita all’Arenario.

4* Callimaco di Cirene (305-240), famoso poeta e letterato dallo stile elegante e leggero, pungente contemporaneo di Teocrito di Siracusa (che dapprima aveva cantato Gerone II in patria, e poi elogiato i Tolomei ad Alessandria), secondo il lessico della Suida, aveva avuto una furiosa polemica letteraria con Apollonio Rodio, il cui allontanamento da Alessandria con esilio volontario nell’isola di Rodi per farvi in seguito trionfale ritorno, qui celebrando il poema delle Argonautiche, rimane alquanto oscuro e avvolto nel mistero.

Callimaco giudicava male i lunghi poemi, e per quanto i critici moderni facciano qui riferimento soltanto ai pesanti poemi ciclici, non è escluso che ce l’avesse persino con Omero e a maggior ragione con Apollonio Rodio che sotto Tolomeo II Filadelfo era divenuto Bibliotecario (l’ incarico aveva anche una valenza politica).

Callimaco cova un forte risentimento verso i suoi avversari, da lui chiamati Telchini. Riusciamo a comprendere che la polemica riguardava la Musa leggera al confronto di quella pesante. Callimaco di Cirene era un innovatore, propugnando una svolta letteraria,e una rottura col passato.

Egli non divenne mai Bibliotecario. Lo sappiamo con certezza in base al Papiro Ossirinco 1241, colonna II, che fornisce il seguente ordine: Zenodoto, Apollonio Rodio, Eratostene. Callimaco si occupò invece della redazione dei cataloghi o Tavole delle opere e degli autori, impresa cui si dedicò con grande cura e perizia.

Si può essere certi che Callimaco, ormai su con gli anni, e il trentacinquenne Eratostene, quando nel 246 divenne il nuovo Bibliotecario [così succedendo ad Apollonio Rodio che era ancora in vita e che dunque venne esonerato dall’incarico al momento stesso dell’insediamento del nuovo regnante, Tolomeo III, detto l’Evergete, il quarantenne sposo della giovanissima Berenice che era figlia di re Maga di Cirene], ambedue provenienti da ragguardevoli famiglie di Cirene, fossero legati dal vincolo delle comuni origini che del ritraeva vigore con la regina Berenice. Ad Alessandria Eratostene sarebbe stato allievo di Callimaco. Con Tolomeo III era mutato anche il clima politico ad Alessandria.

Conone, astronomo reale, che doveva avere il suo osservatorio a Canopo, un sobborgo di Alessandria, a oriente della città, che divenne il luogo di svago favorito di Marco Antonio e di Cleopatra VII, ultima discendente dei Tolomei, doveva sentirsi estraneo ai nuovi tempi. A Canopo si trovava il santuario di Venere, nel quale Berenice avrebbe dedicato in voto la sua chioma, misteriosamente scomparsa, per essere ritrovata in cielo come costellazione.

Sempre a Canopo era stato emanato l’editto della riforma del calendario, voluta dal nuovo regnante. Dositeo, allievo e successore di Conone, doveva ugualmente lavorare a Canopo, dove due secoli dopo, il 12 agosto del 30 a.C., Cleopatra VII Filopatore volle morire di veleno, rinchiusa con le sue ancelle entro nel mausoleo che la stessa aveva fatto costruire.

Callimaco, ormai sessantenne, sigilla gli Aitia (“Cause” od “Origini”: elegante opera di 3000-4000 versi, di cui rimangono soltanto un centinaio di frammenti papiracei, dedicata all’origine dei miti), con la Chioma di Berenice (fr. 109).

Qui compare il chiaro rampollo di Theia, cioè il Sole (verso 44), e subito di seguito, un bouporos di Arsinoe, letteralmente uno spiedo per buoi che potrebbe alludere a un obelisco (che in greco equivale a “piccolo spiedo”).

Al verso 71 compare la Giustizia nei panni della Vergine di Ramnunte (Nemesi, la dea della Giustizia, era venerata in Attica ed era identificata con la costellazione della Vergine), col seguito di una espressione assai curiosa, che suona così: nessunbue bloccherà la mia parola. Un modo di dire o proverbio, che compare anche nell’epigramma XIII, 6 e che sembra riferirsi all’abuso della parola.

Callimaco era famoso anche per i suoi brevi epigrammi. L’epigramma 13 si conclude con l’espressione ironica che un gran bue nell’Ade costa solo unsoldino (il “gran bue” richiama poi il proverbio un gran bue mi è venuto sulla lingua, in Eschilo, Agamennone, 36 s.). La grande lingua del bue adombrerebbe qualcosa che non si può dire, ma che ugualmente si riesce a dire. Nel frammento 108 Callimaco si era riferito agli Argonauti (ne rimane una riga). Nel frammento 112 (epilogo degli Aitia), Callimaco si riferisce alla sua Musa e anche alle Muse di Esiodo (autore di una cosmogonia), che mentre molti armentipasceva,gli donarono storie, presso la traccia veloce del cavallo (tale ultima espressione significherebbe, secondo i commentatori, una specie di anello, o composizione anulare, richiamandosi al proemio del primo libro degli Aitia, ove al pastore Esiodo venne incontro lo sciame delle Muse).

Callimaco non apprezzava neanche Omero. Odio il poema ciclico ,e non mi piace la strada / che portaqua e là molta gente (epigramma XXVIII). E non apprezzava neppure Platone: “Addio, o Sole”- disse Cleombroto di Ambracia / e da un alto muro saltò giù nell’Ade. / Non aveva patito sciagura degna di morte, ma di Platone / aveva letto un unico scritto: quello sull’anima. Ironia feroce, che si rivolge alla teoria dell’immortalità dell’anima.

Ho inteso evidenziare questi passi di Callimaco con possibile riguardo a Conone e ad Archimede [il significato recondito potrà tornare in chiaro quando si parlerà del terribile “problema bovino” indirizzato con un ironico epigramma di 44 versi a Eratostene e ai matematici alessandrini]. Nella Chioma di Berenice il pungente Callimaco intese scherzare su Conone, non importa se trasferendolo all’immortalità poetica. Conone, astronomo reale, aveva voluto dedicare la piccola costellazione alla Regina e Callimaco ci ha ricamato sopra, a danno esclusivo di Conone. L’ironia sta nell’insignificanza di quella piccola costellazione primaverile. Nella chioma e nel ricciolo, nell’ambiguità del grande e del piccolo (ma un ricciolo è anche simile a una spirale).

Un commentatore di Tolomeo, come abbiamo già detto, afferma che Conone fece osservazioni in Italia, molto probabilmente in Sicilia. Seneca ci informa che Conone aveva raccolto notizie storiche sulle eclissi di sole in Egitto. Se incrociamo tra loro questi dati, e altri ancora, abbiamo seri indizi per ritenere che Archimede e Conone avessero lavorato insieme in Sicilia per date ricerche astronomiche. Infine, è alquanto singolare l’analogia tra la spirale e i riccioli della regina, come li chiama Callimaco. Sorge fondato sospetto che il mito letterario della Chioma di Berenice nasconda, a proposito di Conone, una vicenda meno leggendaria e invece assai più scientifica. Dire, come fa Catullo, ma riprendendo senz’altro le stesse espressioni di Callimaco, che Conone aveva distinto nel cielo le stelle una a una e che aveva compreso il sorgere e il cadere degli astri, significa che ne aveva studiato il sorgere eliaco, e che aveva ben chiaro che Venere mattutina è lo stesso pianeta di Venere vespertina. Poi Conone si era interessato ai bizzarri moti lunari e alla teoria delle eclissi e aveva calcolato il tramonto delle stelle alle diverse latitudini. Insomma si era dedicato a importanti studi di astronomia osservativa catalogando e stimando i fenomeni. Tali interessi scientifici non potevano non ricomprendere la stima della longitudine in base alla durata delle eclissi di Luna, osservati da due luoghi diversi posti sul medesimo parallelo.

Al problema della determinazione astronomica della longitudine, che infatti ritornerà in seguito con Ipparco di Nicea, dovevano essersi accinti insieme Archimede e Conone.

Callimaco, con il suo aition, ironizza su Conone, riducendolo al mito di una piccola e insignificante costellazione che sfigurava assai rispetto alla leggiadra Corona di Arianna. Tant’è vero che Callimaco ricama proprio su questo: al firmamento, dove era stata condotta dal cavallo alato, la chioma preferiva il capo della regina (L. Canfora).

Archimede poteva aver letto l’elegia di Callimaco, in cui si citava il suo più caro amico che di lì a poco sarebbe morto, e non doveva averla apprezzata.

I sospetti si addensano ancor di più se si riflette sulle relazioni tra Archimede ed Erastostene, a proposito dell’invio del Metodo e del terribile problema dei Buoi del Sole formulato come epigramma.

L’invio del Metodo dovrebbe essere successivo alla morte di Conone, quando Eratostene era diventato Bibliotecario, e il problema bovino, che sembra seguire all’Arenario, potrebbe essere successivo all’anno 230 a.C. Dovremmo essere a dopo il 240. Se Eratostene eseguì la misurazione della Terra verso il 230, il problema dei buoi dovrebbe essere posteriore. Rappresenterebbe, infatti, la reazione ironica e provocatoria, ma anche rabbiosa, di Archimede nei confronti di Eratostene e il suo gruppo di matematici, quando già nel proemio del Metodo meccanico il grande Siracusano sembrava avanzare riserve circa le effettive capacità matematiche del “Signor Beta”, che era sì un grande filologo, un filosofo, e anche un geografo, ma non un vero scienziato. Si apre la via alla possibilità di un “giallo”. Se tutte le opere di Archimede che ci sono giunte sono transitate per Alessandria (il che spiega bene perché si siano potute comunque salvare), ciò significa che le altre sono andate perdute perché non seguirono questo percorso. Ciò spiega perché il testo del terribile problema bovino, registrato negli archivi alessandrini, abbia potuto preservarsi, fino a essere inserito in alcune antologie antiche e da qui giungere fino a noi in un antico codice scoperto nel XVIII secolo in Germania.

Il significato recondito dell’insolubile o meglio incomputabile problema dei buoi Sole che pascolavano un tempo nell’isola di Sicilia a tre punte, ispirato a un passo dell’Odissea, ma non solamente a questo, sarebbe una beffa se no addirittura una raffinata vendetta. Mistero si aggiunge a mistero. I segreti di Archimede sono molti. Vanno oltre l’accennata “questione archimedea” nei termini in cui ne parlava Attilio Frajese, illustre storico della matematica antica.

LA “SFERA CELESTE”

1* Plutarco, nella Vita di Marcello, riferendosi a un ventaglio d’ipotesi sulla morte di Archimede, scrive che potevano averlo ucciso alcuni soldati romani che volevano impadronirsi dell’oro che supponevano egli avesse con sé: Secondo una terza versione alcuni soldati incontrarono Archimede per strada, mentre stava portando a Marcello uno strumento scientifico, composto di meridiane, sfere equadranti, medianti i quali si misurava a vista la grandezza del sole, dentro una cassa. I soldati pensarono che avesse con sé dell’oro e lo uccisero.

Sarebbe questa una descrizione (però alquanto incerta) della “sfera celeste” di Archimede. L’enigma della sfera celeste, o planetario di Archimede, non è stato risolto, anche perché di sfere celesti del Siracusano, stando a Cicerone, ce n’erano due, ambedue portate a Roma dal console Marcello.

Gli studiosi ottocenteschi si erano interrogati sul materiale di cui erano formate e sul motore che le metteva in movimento. Erano di vetro oppure di bronzo? Erano mosse dall’aria, dall’acqua o altrimenti?

Pappo (IV sec. d.C.) aveva accennato alla fabbricazione di sfere celesti, modello dei cieli per mezzo di un moto circolare uniforme dell’acqua (Collezionematematica VIII, 2). I Greci conoscevano globi celesti, armille, planetari e astrolabi. Si suppone che il planetario ‘meccanico’ di Archimede fosse geocentrico e che simulasse il moto dei corpi celesti rispetto alle stelle fisse. Si ritiene che fosse costituito da una semisfera di bronzo sulla quale erano indicate le stelle più brillanti e al cui centro erano posti gli altri corpi celesti. Un motore ad acqua avrebbe fatto ruotare la semisfera. Costruire un piccolo planetario mobile, che riproduca il sistema celeste, non è certamente un’impresa facile.

Archimede aveva scritto un trattato teorico sui planetari, citato da Pappo e da Proclo, che però non ci è pervenuto, e aveva costruito materialmente una sfera celeste (oppure due), in una della quale erano rappresentati tutti i moti planetari. Una “sfera celeste” di Archimede, che forse si trovava nel tempio di Atena sull’isola di Ortigia, fu predata dai Romani nel saccheggio di Siracusa e portata a Roma, dove Ovidio ebbe modo vederla e di descriverla, poiché era stata appesa a una trave all’interno del tempio circolare di Vesta-Virtus, che rappresentava il cosmo e il fuoco inestinguibile.

Sempre Plutarco, nel De facie lunae, riferisce che Aristarco aveva cercato di salvare le apparenze dei fenomeni, assumendo l’ipotesi eliocentrica, con i moti di rotazione e di rivoluzione della terra. Le apparenze non potevano non riguardare i moti planetari.

Archimede, nell’Arenario, scrive testualmente che Aristarco aveva prodotto delle illustrazioni o dimostrazioni di queste apparenze. Le illustrazioni di Aristarco potevano divenire particolarmente efficaci costruendo un modello meccanico dei moti planetari.

Un planetario mobile che riproduceva effettivamente i moti apparenti del Sole, della Luna e dei Pianeti, era stato effettivamente costruito da Archimede14. Riteniamo che si trattò di un’impresa giovanile, precedente di molti anni l’Arenario, opera della maturità.

Aristarco può essere considerato contemporaneo di Archimede, anche se più vecchio di un generazione. Aristarco aveva costruito un suo planetario? Ciò non risulta. Ci si è chiesti come avesse fatto Archimede a costruire il suo, sottintendendo che in questo modellino il Sole e Pianeti si muovessero, indipendentemente tra loro, su meccanismi però incernierati su una Terra immobile al centro del sistema. Del resto un planetario doveva simulare ciò che si vede con gli occhi, a prescindere dalla spiegazione dei fenomeni (che Platone raccomandava di salvare). All’epoca si riteneva che la Terra fosse immobile, non potendo concepirsi la sua rotazione diurna sul proprio asse.

Si può credere a un meccanismo di questo tipo (comunque non facile da costruire), solo se non si sa della possibilità di “illustrare le sole apparenze”, seguendo la proposta di Aristarco (L. Russo). Neugebauer ha sostenuto che un planetario sferico non può mostrare le retrogradazioni e le stazioni dei pianeti (modello geocentrico).15

L’idea che Archimede avesse costruito un planetario geocentrico (sul modello del Timeo), nasce dal fatto che tutte le testimonianze a tal proposito parlano di un moto del Sole e dei Pianeti intorno alla Terra. Tuttavia, se si vuole mostrare il moto del Sole e dei Pianeti visti appunto dalla Terra, in un modello meccanico è necessario mantenere la Terra ferma: ciò comporta che il modello non possa più corrispondere al moto planetario che effettivamente si osserva dalla Terra (argomento di Neugebauer). Il planetario sarebbe perciò fasullo.

Ciò che rende un planetario eliocentrico – osserva Lucio Russo – è il fatto essenziale che il collegamento meccanico tra i vari pianeti e la Terra avviene attraverso un unico snodo posto nel Sole, sufficiente per generare moti relativi, a volte diretti e a volte retrogradi.16

La congettura che il planetario di Archimede fosse di questo tipo si appoggia a un passo di Cicerone (De re publica I, 14, 22): L’invenzione di Archimede è da ammirarsi in quanto egli aveva escogitato in quale modo una sola “conversio” potesse riprodurre i diversi e vari percorsi, con moti tra loro contrastanti.

Tale descrizione si riferisce però al planetario conservato nella casa del console Marcello, che aveva espugnato Siracusa, e non alla “sfera celeste” descritta da Ovidio nei Fasti a proposito del tempio circolare di Vesta.17

La parola latina conversio può significare “rotazione”, “inversione” o “rovesciamento”. Noi pensiamo che qui significhi “rotazione”.

Secondo Lucio Russo l’insistenza di Cicerone sull’unicità del meccanismo di moti tanto diversi, non sarebbe compatibile con un modello meccanico che riproducesse un algoritmo di tipo “tolemaico” (op. cit., p. 104). I planetari mobili sono pertanto di tipo “eliocentrico” e non del tipo “tolemaico”, sebbene la Terra sia posta al centro del sistema (simili planetari furono costruiti in epoca moderna dopo Copernico).

2* La sfera celeste di Archimede ebbe grande fama nell’antichità. Ne parlano Cicerone, Ovidio, Plutarco, Claudiano, Marziano Capella, e, indirettamente, la tiene presente Macrobio.18 Ecco la descrizione di Cicerone (Tuscolane, I, 25): Archimede, quando riprodusse in una sfera i movimenti del sole, della luna, e dei 5 pianeti, compì la stessa azione del dio di Platone, quello che nel Timeo edifica il mondo; fece in modo, cioè, che un’unica rivoluzione regolasse i movimenti più diversi tra loro per lentezza e per velocità. E se questo nel nostro universo non può avvenire senza l’intervento di un dio, neanche nella sfera Archimede avrebbe potuto ricostruire gli stessi movimenti, senza una intelligenza divina.

Archimede non si era accontentato del suo mirabolante manufatto, ma aveva pure scritto un trattato teorico sulla costruzione di tali “sfere”, nel quale molto probabilmente era affrontata la teoria ‘matematica’ dei moti planetari. Nel grande commentario in due libri, composto da Macrobio sul Sogno di Scipione (inserito da Cicerone nel De Republica), è affacciata la questione dell’ordine delle sfere orbitanti nell’ambito del sistema geocentrico (I, 19, 5).

Cicerone dà al Sole il quarto posto, nell’ambito delle 7 sfere, appoggiandosi in ciò ad Archimede; mentre Platone – secondo quanto sostiene Macrobio – dava al Sole la seconda posizione verso l’alto, dopo la sfera della Luna.

Cicerone seguirebbe i Caldei, mentre Platone si sarebbe rifatto agli Egizi.

Macrobio prosegue spiegando perché al Sole vada assegnato il quarto posto, dopo le sfere orbitali di Mercurio e di Venere. Secondo quanto attribuito da Macrobio a Cicerone (appunto sull’autorità di Archimede), i tempi orbitali di Mercurio, di Venere e del Sole (che invece nel sistema eliocentrico di Aristarco è posto immobile, al centro del sistema), sarebbero abbastanza vicini all’anno, nel percorrere lo sfondo delle costellazioni zodiacali.

Pertanto Cicerone avrebbe chiamato Mercurio e Venere “compagni del Sole”, perché non si allontanano troppo da quest’ultimo. Quanto alla Luna, essa si trova molto più in basso, rispetto a questi ultimi, tanto che in 28 giorni compie il tragitto che essi compiono in un anno. Invece le orbite di Marte, di Giove e di Saturno, secondo Cicerone, come riferisce Macrobio, si trovano al disopra di quella del Sole. Macrobio richiama, poi, il “mito di Er” con cui termina la Repubblica di Platone, ponendo in evidenza che a ognuna delle sfere celesti del sistema, corrisponde il canto di una Sirena, precisando che la parola “sirena” significa in greco “colei che canta per la divinità” (II, 3.1).

Secondo Macrobio (II, 3, 13 segg.), Archimede credeva di aver scoperto il numero di stadi che separano la Luna dalla superficie terrestre, come Mercurio dalla Luna, Venere da Mercurio, il Sole da Venere, Marte dal Sole, Giove da Marte e Saturno da Giove. Le misure di Archimede sarebbero state però respinte dai neoplatonici, i quali obiettavano che le orbite planetarie non corrispondevano agli intervalli doppi, tripli, quadrupli ecc. *[Cioè una sorta di legge Titius-Bode sull’armonia pitagorica del Cosmo].19

Nel De Republica (I, XIV), Cicerone menziona due sfere celesti, ambedue attribuite ad Archimede, tutte e due predate dal console Marcello nel sacco di Siracusa. La prima di queste, che Marcello aveva tenuto presso di sé, a casa sua, e che poi aveva trasmessa in eredità ai suoi discendenti, che ancora la custodivano, non fece molta impressione al neopitagorico Cicerone, che era stato allievo di Nigidio Figulo, a Roma, oltre che di Posidonio di Apamea a Rodi [anche Posidonio aveva costruito una “sfera celeste”].

Meglio allestita e più bella sembrava, a tutti, l’altra sfera celeste, sempre opera di Archimede, fatta collocare da Marcello nel tempio di Virtus –Vesta; ma quando Gaio Sulpicio Gallo cominciò a illustrare i principi e il funzionamento della sfera celeste, conservata nella casa del console Marcello, Cicerone ne rimase ammirato. Gallo iniziò con lo spiegare che il primo modello della sfera, solida e piena (i globi celesti), risaliva a Talete di Mileto.20 Più tardi, Eudosso di Cnido, discepolo di Platone, l’aveva ornata di stelle e di pianeti infissi nella volta celeste. Arato aveva celebrato nel suo poema questi globi celesti (molto utili per diversi calcoli astronomici), ma in questo genere di “sfera” non potevano essere riprodotti i moti planetari, nemmeno quelli del sole e della luna. La sfera di Archimede, almeno la sfera celeste conservata nella casa del console Marcello, riproduceva invece tutti questi moti.

Archimede aveva fatto in modo che un unico movimento di rivoluzione regolasse i moti veri e diversi delle singole orbite. Quando Gallo la metteva in moto, si riproduceva nella sfera l’alternarsi del giorno e della notte, allo stesso modo in cui avviene in cielo, per cui si poteva vedere il tramonto del sole e l’apparire della luna, quando essa entrava nel cono delle tenebre formato dall’ombra della terra e il sole si trova nella regione del cielo… *[Il De Repubblica ci è pervenuto per frammenti, ritrovati da Angelo Mai, e qui il passo di Cicerone s’interrompe]21.

Ovidio (Fasti V, 227-280) parla – in base alle descrizioni di Cicerone – della secondasfera celeste” di Archimede, quella fatta appendere dal console Marcello dopo il sacco di Siracusa a una trave nel tempio circolare di Vesta a Roma.

In un chiuso spazio d’aria, per arte siracusana, v’è sospeso un globo, / piccola raffigurazione dell’immensa volta celeste, / e la terra si discosta tanto dal punto più alto quanto / da quello più basso: tale fenomeno è prodotto dalla forma rotonda. Similmente laforma del tempio… *[Vale la pena di riportare il testo latino: Arte Syracosia suspensus in aere clauso / stat globus, immensi parva figura poli, / et quantum a summis, tantus secessit ab imis / terra; quod ut fiat, forma rotunda facit. / Par facies templi

Si tratta di un modello planetario geocentrico, però in movimento. Era un congegno meccanico, come pare dovesse essere l’altra “sfera celeste”vista da Cicerone nella vecchia casa del console Marcello?

Cicerone (De natura deorum, II, 34-35) fa riferimento anche alla “sfera celesterecentemente costruitadal nostro amico Posidonio (Posidonio di Apamea che viveva e lavorava a Rodi), in cui le rotazioniriproducono il moto del sole, della luna e delle cinque stelle erranti (cioè i pianeti), che si verifica incielo ogni giorno e ogni notte. Le tribù barbare – aggiungeva Cicerone – vedendo un tale manufatto, non esiteranno a riconoscerlo come “opera della ragione”.

Com’è possibile che certuni pongano la questione se il mondo sia nato dal caso o dalla necessità, ritenendo che Archimede sia stato più abile nel riprodurre le rivoluzioni del cielo, che la natura nel crearle?

E’ questo il c.d. argomento dell’orologio, frapposto solitamente agli atei. Il mondo razionale ha un Demiurgo. Dice Cicerone di costoro: opinione assurda, tanto più che i cieli sono stati creati più abilmente di quanto siano stati imitati nel loro movimento.

Altro ‘testimone’ della “sfera celeste” di Archimede (presumibilmente quella ancora appesa al tempio di Vesta) è il poeta latino Claudiano (IV secolo d.C.), che era nato ad Alessandria d’Egitto ed era poi venuto a Roma [Claudiano avrà visto la “sfere celeste”, ancora conservata nel tempio di Vesta, prima del sacco di Alarico del 410].

3* I Greci indicavano col termine “sfairopìa” l’arte della creazione di sfere celesti ovvero dei planetari. Si deve pensare a manufatti meccanici, come appunto l’insospettabile e assai misterioso congegno meccanico di Antikytera (l’isola greca di Cerigotto, tra il Peloponneso e Creta), ripescato in mare nel 1900 e a lungo studiato da Derek de Solla Price. Nessuna opera antica che trattava della costruzione di tali complessi congegni ci è pervenuta. Guglielmo di Meorebeke ebbe modo di tradurre in latino l’Analemma di Tolomeo, mentre l’originale greco ci è pervenuto soltanto in parte. Commandino, che lamentava nel XVI secolo la perdita degli antichi trattati sulla costruzione delle meridiane (di cui Vitruvio dice poco, limitandosi soprattutto a classificarne oscuramente i diversi tipi), nel 1562 tentò di ovviare all’inconveniente, scrivendo un suo trattato sugli orologi solari e un commento al lavoro tradotto da Guglielmo di Moerbeke.

Cicerone identifica in Archimede le stesse virtù del Demiurgo di Platone. Il poeta Claudiano parla della meraviglia di Giove in persona. Non si riesce a comprendere bene come fossero fatti e come funzionassero i planetari di Archimede. Si trattava di un planetario meccanico semisferico, oppure di una vera e propria “sfera celeste”, contenuta in un globo trasparente di vetro? E i moti uniformi degli astri, perfettamente raccordati tra loro, da quale forza erano mossi?

Il complesso e misterioso meccanismo di Antikytera molto probabilmente doveva essere una sorta di calendario meccanico. Nelle iscrizioni superstiti del manufatto si sono potuti leggere i nomi di alcune stelle per il loro sorgere e il loro tramontare. Si trattava senz’altro di un meccanismo assai complesso, con ingranaggi ‘matematici’, per di più fornito di un differenziale.

Uno di questi strumenti, sempre con funzione di calendario, è descritto da al-Biruni (scienziato arabo fiorito intorno all’anno 1000) e un astrolabio persiano, con congegno a ingranaggi e con la medesima funzione di calendario, fu realizzato verso il 1221/1222 da Abi Bakr al-Isfahani ed è oggi conservato nel Museo di Storia della Scienza di Oxford. Sono stati rintracciati anche altri ingranaggi meccanici risalenti a epoca bizantina, che possono ricordare il congegno di Antikytera, però risalente con certezza al primo secolo a.C.

Tutto ciò sembra aver poco in comune con la sfera celeste di Archimede che riproduceva tutti moti planetari e che Cicerone aveva avuto occasione di vedere direttamente con i suoi occhi, con sua grande meraviglia, nella domus in cui era conservata. Ci sarebbe la complicazione dell’altro globo, conservato nel tempio di Vesta, ugualmente attribuito ad Archimede.

Si dice che per consiglio di Eratostene, Tolomeo III Evergete avesse fatto disporre sotto i porticati del Museo di Alessandria delle grandi “armille”, insieme con altri strumenti di uso astronomico. Le armille sono sfere formate da “anelli metallici” graduati, usate dagli antichi astronomi per rappresentare i cerchi massimi della sfera celeste. Erano impiegate sia a scopo didattico, che come strumento d’osservazione.

Alcune affermazioni contenute nel Timeo di Platone lascerebbero credere che l’Accademia disponesse già di un modello rappresentativo del cosmo (Timeo, il protagonista del dialogo, afferma difatti che è impossibile descrivere i moti planetari senza un modello visibile). Nel linguaggio del mito, Platone descrive (36 c-d) la costruzione di un modello materiale della rivoluzione dei corpi celesti, cioè una sfera armillare (la questione è presente anche in Proclo).

Cornford ha provato a descrivere il modo con il quale il Demiurgo ha allestito il suo modello, servendosi di nastri di materiale flessibile. Lo stesso studioso osserva che Teone di Smirne (II sec. d.C.), citando il Timeo, dice di aver costruito, a sua volta, una sfera armillare, per illustrare il “mito di Er” col quale si chiude la Repubblica di Platone. Per Cornford la sfera di Teone sarebbe più semplice di quella del Demiurgo platonico, che era invece un apparato nel quale i moti della sfera esterna dei pianeti erano raffigurati da anelli.

Ben più complessa doveva essere, stando a Cornford, la sfera matematica di Archimede, che avrebbe riprodotto tutti moti celesti. Anche Tolomeo attribuì a Posidonio la costruzione di un modello planetario (confermando così quanto Cicerone poteva aver visto direttamente a Rodi). Mentre Gemino di Rodi distingue le armille ad anello dai globi celesti solidi (molto utili per diversi calcoli astronomici).

Ipparco di Nicea, grande astronomo, fu attivo a Rodi nel periodo tra il 162 e il 126 a.C. Sempre a Rodi operarono Posidonio di Apamea (maestro di Cicerone) e Gemino da Rodi, il quale espose una storia dell’astronomia. Cleomede, altra importante fonte sull’astronomia antica, scrisse intorno all’attività scientifica di Posidonio e di Gemino.

Non si è conservato nessuno di questi modelli planetari. Petrarca e Marsilio Ficino accennarono con ammirazione ad Archimede come costruttore di un modello. Gerberto di Aurillac (papa Silvestro II) avrebbe posseduto una sfera armillare. Gerolamo della Volpaia (XVI sec.) costruì un modello rigido per spiegare i moti di Mercurio nell’ambito del sistema tolemaico. Richard Glynne costruì nel una sfera armillare di tipo tolemaico nel 1715 e una sfera di tipo copernicano nel 1725. Tali sfere celesti (o armille o globi) erano tutte quante fisse, cioè modelli e strumenti astronomici di uso didattico o d’impiego sul campo; mentre quella di Archimede è una sfera mobile. Dalla descrizione, rappresentativa dei moti planetari secondo orbite circolari di moti uniformi, ma proprie dei tempi sinodici d’ogni pianeta, sembra d’assistere quasi a un planetario meccanico mobile del c.d. “secolo dei lumi”. La sfera celeste di Archimede non somiglia, infatti, alla scatola meccanica ripescata in mare nelle acque di Cerigotto. E non è una “scatola della Luna”, come intendeva al-Biruni. Non è neppure un’ armilla o un globo celeste. Sarebbe, invece, un modello in scala, di tipo geocentrico, dell’intero Cosmo, comprensivo della sfera delle stelle fisse, peraltro in continua rotazione, perfettamente regolata secondo i tempi orbitali, con la Terra posta al centro del sistema e considerata immobile.22

Un astrarium fu costruito da Giovanni de’ Dondi tra il 1348 e il 1364. Il manufatto presentava somiglianze con le teorie di Tolomeo, ma il Sole, la Luna e ciascun pineta avevano il loro quadrante. Sia Tolomeo, che Galeno, avevano accennato alla costruzione di planetari, ma non si è conservato alcun modello dell’antichità, tranne un’incerta raffigurazione murale a Stabia e il c.d. “monumento di Arato” nel castello di Sant’Emmeran, a Ratisbona (circa 1060).

Sebbene nell’Arenario Archimede non si pronunciasse espressamente a favore dell’eliocentrismo di Aristarco, tuttavia nemmeno negava o avversava tale ipotesi. Sicuramente il suo planetario, descritto da Ovidio in forma sferica, come un globo, doveva essere geocentrico, con la terra posta nel mezzo.

Se era un planetario meccanico, mosso però ad aria o ad acqua, ciò non risulta dalle descrizioni. E non si ricava nemmeno che potesse essere mosso da molle, con meccanismi e ruote dentate, sebbene esistessero in antico dei meccanismi di questo genere, come la scatola meccanica di Antikytera, studiata da Price de Solla, molto danneggiata dalla corrosione e delle incrostazioni marine dopo due millenni.

L’inusitato e del tutto insospettato meccanismo si componeva di finissimi e complicati ingranaggi di bronzo lavorato. Questa scatola doveva essere, oltre che un calendario, anche uno strumento di navigazione. Negli anni ’50 del secolo scorso Price de Solla ne studiò i difficili meccanismi, dimostrando che conteneva più di 30 ruote dentate, incluso un gruppo differenziale.

Una migliore ricostruzione del misterioso oggetto fu pubblicata nel 1974, dopo aver effettuato radiografie a raggi x. E’ emersa anche un’iscrizione greca frammentaria che evocava le “chele” del segno zodiacale della Bilancia.

Quella scatola era dunque uno strumento astronomico, sebbene di una fattura diversa – compatta, a forma di libro – rispetto alla sfera celeste di Archimede, il cui scopo era quello di rappresentare il Cosmo.

Nel 1983 è emerso un altro ingranaggio greco-bizantino che sembra risalire al VI secolo d.C. Le ruote di quest’ultimo ingranaggio appaiono simili al meccanismo di Antikytera, ma possono essere ricostruite e comprese molto più facilmente. La macchina di Antikytera rimane ancora misteriosa, né prima del ritrovamento si poteva supporre che gli antichi fossero riusciti a costruire simili strumenti analogici.

Si deve pensare al rapporto tra 254 rivoluzioni siderali della luna, ogni 19 anni solari (ciclo di Metone). Per riprodurre il rapporto 254/19 occorrono almeno una ventina di ruote dentate. Il differenziale del complesso congegno meccanico di Antikytera mostrava, oltre ai mesi lunari siderali, anche le lunazioni, ottenute sottraendo il moto solare al moto lunare siderale.

Queste considerazioni evidenziano già da sole la diversità del planetario o sfera celeste di Archimede che secondo Cicerone comprendeva anche le orbite dei pianeti. Marziano Capella lascia intendere che il planetario di Archimede fosse fatto anche in oro. Probabilmente andò perduto col sacco di Roma, nel 410 d.C.

Ovidio ne parla come di movimenti planetari sospesi nell’aria (cioè inaere clauso). Il planetario di Archimede, arte siracusana come dice Ovidio, molto probabilmente doveva essere racchiuso in un globo di vetro trasparente, che lo preservava dalla polvere e dalle incrostazioni dell’umidità. Doveva trovarsi appeso a una trave nel tempio di Vesta. Tale meraviglia (che poteva anticipare i planetari meccanici costruiti nel XVIII secolo in alcuni esemplari: uno di questi si trova nel Museo delle Scienze di Vienna), consisteva indubbiamente nella rappresentazione concreta dei calcoli matematici eseguiti da Archimede, che formavano oggetto di una sua opera teorica. Si potrebbe anche ipotizzare che i moti planetari di diversa velocità uniforme nella “sfera celeste” di Archimede si riconducessero tutti quanti insieme al modello del “grande anno Platonico” di 36.000 anni (multiplo per mille dell’angolo giro di 360 gradi, piuttosto che dell’anno di 360 giorni).

Il magnus annus di Platone (Timeo, 39d), di cui parla anche Tolomeo, si compie quando tutti gli astri portano a termine il loro movimento di rivoluzione nel cosmo e tornano ad assumere la posizione originaria, conferendo così alla volta celeste l’identico assetto che essa aveva all’avvio del cielo (nulla a che vedere con la precessione degli equinozi identificata da Ipparco).23

Mentre l’anno terrestre riguarda il moto di un solo astro, il ritorno del Sole nel medesimo segno zodiacale, il grande anno dipende invece dal ritorno di tutti gli astri alla comune posizione di partenza o loro allineamento nel cielo (il che suggerisce un meccanismo di raccordo). Cicerone [Somnium Scipionis] chiama questo ciclo vertens annus. Secondo Macrobio, altri autori (Epicuro, Tacito, Servio ecc.) identificavano il grande ciclo in 12.954 anni, o in 10.880 oppure in 15.000 anni.

Vale la pena di anticipare (rispetto a quanto poi si dirà a proposito del “problema bovino” attribuito ad Archimede, con riguardo al numero 7: erano 7 anche le sfere celesti), che secondo le dottrine pitagoriche questo numero primo era ritenuto plenus, nel senso che è somma del 3 (triangolo) e del 4 (quadrato).

Il numero 7 ritornava in natura, ad esempio nel numero delle stelle dell’Orsa Maggiore (7 buoi), ed era considerato dai pitagorici il numero della Giustizia (Cicerone, Somnium Scipionis, 5-18; Macrobio, Commentario, I, 5, 16 ss.).

Prima di riportare la descrizione della sfera celeste di Archimede fornita da Claudiano, insieme agli accenni che ne fa Marziano Capella, ci sembra opportuna qualche altra considerazione a margine.

Se l’orbita ‘mensile’ della Luna, con le sue 4 fasi, ruota velocemente intorno alla Terra immobile al centro del sistema, doveva essere questa l’unità minima di misura nel rapporto generale di scala in un planetario che considerasse contemporaneamente tutti gli altri moti celesti di maggiore durata con riguardo allo sfondo delle 12 costellazioni zodiacali rappresentate dal dodecaedro platonico-pitagorico del Timeo.

Nel IV secolo a.C. i pitagorici Iceta ed Ecfanto, originari di Siracusa, ma non menzionati nell’elenco dei pitagorici allegato alla Vita di Pitagora del neoplatonico Giamblico, erano stati i primi ad affacciare l’ipotesi del sistema eliocentrico, con la Terra ruotante su se stessa e rivoluzionante intorno al Sole (sebbene Archimede nell’Arenario li ignori completamente e si rifaccia soltanto ad Aristarco che era stato un vero astronomo matematico).

La sfera di Archimede, echeggiata anche da Marziano Capella, era però sicuramente geocentrica, secondo lo stesso modello del Sognodi Scipione nel De republica di Cicerone, poi ripreso nel commentario di Macrobio.

Le rivoluzioni della Luna intorno alla Terra (primo cerchio del sistema geocentrico) erano ‘mensili’. L’anno solare terminava col ritorno del sole nel segno dell’Ariete il giorno dell’equinozio di primavera (punto gamma).

Com’era fatto e soprattutto come funzionava il planetario di Archimede? E’ poi esatta la versione di Cicerone che parlava di due planetari, fermo restando che questa stessa concezione riemerge nel Sogno di Scipione (excerptum della Repubblica), per trasferirsi in seguito nel grande commentario di Macrobio in due libri?

Macrobio, che scrive il suo commentario dopo il sacco di Roma del 410 e dopo Claudiano, si riferisce dunque ad Archimede, almeno per quanto concerne la scala di grandezza delle varie orbite, cioè le rispettive distanze dei pianeti dalla Terra, affermando che tale scala non corrispondeva a quella dei (pitagorici e dei) platonici.

Il problema della “sfera celeste” di Archimede è assai complicato e non siamo in grado di risolverlo. Possiamo soltanto affacciare alcune congetture, senza pretesa di scientificità, argomentando un’ipotesi estrema, a condizione che Cicerone si fosse confuso, condizionato e suggestionato dall’aver già visto a Rodi il planetario meccanico di Posidonio.

Si potrebbe ritenere che se da Siracusa furono predati dai Romani ben due planetari, uno di questi era sicuramente meccanico (quello cioè conservato nella casa dei discendenti del console Marcello e messo in funzione da Gallo), probabilmente funzionante ad acqua, se non con un meccanismo a molla, mentre l’altra sfera celeste o piccolo globo descritto da Ovidio e da Claudiano e custodito nel tempio di Vesta, fosse di altra natura.

Dalle descrizioni, non si sa bene neppure se si trattasse di un globo di vetro, quindi d’un manufatto abbastanza fragile, oppure di meccanismo in bronzo, a forma di globo. A noi interessa come “sfera celeste” di Archimede soltanto quella conservata nel tempio circolare di Vesta.

Nelle Nozze di Filologia e Mercurio, Marziano Capella (VI, 583 ss. – a proposito della Geometria personificata) accenna ad una sfera qual bello ornamento, simile a cielo. Si tratta di un globo celeste.

Marziano Capella ha preso a modello la “sfera celeste” di Archimede: Stupì di Sicilia la terra a questo doppione del mondo; / e fui Archimede a riprodurre gli astri. Altrove (II, 212), Capella associa Archimede e Platone:Platone e Archimede che facevano girare delle sfere d’oro.

Proviamo a immaginare qualcosa di diverso, di stupefacente.

4* L’unico testimone storico della sfera celeste conservata nel tempio di Vesta, attribuita all’arte di Siracusa, è Ovidio. Non sappiamo se Claudiano abbia visto di persona ciò che descrive, ma si può presumere che sia stato proprio così. Claudiano nel 395 d.C. era presente a Roma. I templi pagani di Roma non solo erano intatti, ma erano anche officiati (seguiranno l’editto di Teodosio e il sacco di Alarico).

Se si trattava di un globo trasparente, fatto di vetro, ciò farebbe immaginare una sorta di perno centrale verticale, caratterizzante i due poli del Cosmo, sul quale, in virtù di certe proporzioni prestabilite, si potevano muovere in cerchio, su assi orizzontali ovvero bracci scorrevoli intorno al perno centrale, le sottilissime figure – annerite su un lato – rappresentanti i vari pianeti, sospinti in un vuoto d’aria dalla pressione della luce!24

Se invece la “sfera celeste” di Archimede non era racchiusa in un globo di vetro (se cioè non era posta in aere clauso, vale a dire in un chiuso spazio d’aria, come appunto afferma Ovidio), doveva allora trattarsi di un planetario meccanico di bronzo, mosso ad aria o ad acqua oppure a molla.25

Tuttavia non si può escludere la sorprendente possibilità (inaspettata tanto quanto il raffinato meccanismo studiato da Price de Solla) di un leggiadro e assolutamente geniale globo planetario mosso nel vuoto d’aria della sola pressione della radiazione solare. Si comprenderebbe meglio quest’antica meraviglia che Cicerone – non potendosi dar ragione di come funzionasse anche perché il manufatto archimedeo rimasto appeso dal 212 a una trave del tempio di Vesta poteva essersi alterato – tende a duplicare, confondendola con l’altro planetario meccanico, anch’esso d’origine ellenistica e forse costruito da Archimede, osservato da vicino in una nobile domus privata.

Ipotizziamo che il planetario o globo di vetro che si trovava appeso nel tempio di Vesta, fosse contenuto in una modesta boccia sferica di vetro trasparente, opportunamente sigillata sotto vuoto e che fosse mosso di giorno dalla pressione continua della luce, arrestandosi nel suo movimento di notte, con la mancanza del sole, per poi riprendere con la luce diurna, da dove si era arrestato senza alcuna alterazione del suo ciclo. L’osservatore diurno, alla luce del sole, aveva l’impressione di assistere dall’esterno, come il Demiurgo di Platone, alla meraviglia del creato. Nessuna forza meccanicamente concepibile, muoveva incessantemente le sfere degli astri. Tale virtù era intrinseca alle potenze del cielo.

Archimede, che sapeva bene che Luna brilla della luce riflessa del Sole, avrà anche potuto immaginare, come aveva fatto Aristarco, e prima ancora Iceta ed Ecfanto, che il Sole fosse posto al centro del sistema, ma in mancanza di un concetto adeguata sulla forza di gravità non poteva spiegarsi in alcun modo la rotazione diurna della Terra che era il grande mistero del sistema eliocentrico.

Platone, che ugualmente non sapeva darsi una ragione, aveva invocato che i fenomeni dovessero comunque essere salvati. Se la Terra non ruota su se stessa, l’alternarsi del giorno e della notte si può spiegare soltanto con l’orbita del Sole intorno alla Terra.

Keplero e Cartesio, che non conoscevano la gravità, introdotta da Newton, avevano immaginato che il Sole trascinasse in una specie di vortice le orbite dei pianeti. In età alessandrina gli astronomi avevano intuito che i moti planetari in qualche modo rispondevano all’esempio della fionda, dove alla forza centrifuga si contrapponeva la resistenza del mezzo di trattenimento, prima del lancio del proiettile secondo la tangente, una volta liberata una delle due cordicelle. Il Sole, molto distante e molto più grande della Terra, ruotava in un solo giorno intorno al nostro pianeta. Archimede, che aveva stimato la grandezza dell’Universo, si sarà posto anche queste domande.

A effetti pratici, il modello geocentrico equivaleva al modello eliocentrico.

Nonostante l’evidenza per i sensi dell’apparente immobilità della Terra, Platone si era allarmato.

I planetari meccanici erano geocentrici. Lo era anche il planetario conservato nella vecchia casa del console Marcello. Di che tipo era il planetario del tempio di Vesta?

Riteniamo che fosse ugualmente geocentrico. Altrimenti bisogna ammettere che Cicerone non lo avesse visto con i suoi occhi, mentre è chiaro che lo aveva osservato. In ipotesi, con il meraviglioso planetario mosso, nel vuoto d’aria, dalla pressione della luce solare, Archimede potrebbe però aver voluto significar la potenza del Sole e la sua importanza. Il modellino non faceva alcuna violenza alla consueta e ben accetta rappresentazione antropologica della centralità della Terra, abitata dagli esseri viventi, ma allo stesso tempo rappresentava l’invisibilità della forza misteriosa del Sole, che agiva nel modello in scala del Cosmo, seguendo la traccia del Timeo.

Potremmo immaginare una sfera di vetro abbastanza spesso e trasparente, con un diametro non superiore ai 30-40 centimetri. Se il globo di vetro, giacché trasparente, giustifica molto bene la concisa espressione usata da Ovidio nei Fasti, cioè arte Syracosia suspensus in aere clauso, possiamo almeno concludere che non doveva trattarsi di un planetario meccanico. Non c’è alcuna ragione per ritenere che un sfera meccanica di bronzo dovesse rimanere appesa in alto, ad una trave del tempio di Vesta, e che questo globo o meccanismo di bronzo fosse posto in uno spazio d’aria chiuso (un contenitore rotondo di vetro). Si deve invece presupporre che il contenitore di vetro racchiudesse il meccanismo visibile in azione.

Ovidio connette la sfera celeste di Archimede alla circolarità del tempio e alla sua sacralità: Vesta-Virtus, nel senso di vi stat, che sta forzatamente immobile.

La dedicazione nel tempio di Vesta di una delle due sfere celesti di Archimede che sarebbero state predate a Siracusa dai Romani del console Marcello, significare che quel modellino si trovava già esposto nel tempio di Atena a Ortigia, e che i Romani ritennero allo stesso modo sacra quella preda bellica dedicandola a Vesta, nel suo tempio circolare.

Il nome di Vesta viene sicuramente da Estia, col significato di ‘fuoco’. Secondo Cicerone (Nat. d., II, 27) con questa dea, nella sua qualità di guardiana delle cose più interne, si conclude ogni preghiera, ogni sacrificio. Secondo Ovidio (Fasti, VI, 99), nessuna immagine effigiava la dea, bastando il fuoco sacro a rappresentarla. L’aedes Vestae, più che un vero e proprio tempio, era l’unico santuario di Roma arcaica a pianta circolare. Così scrive Ovidio (269 ss.), nel medesimo contesto a proposito dei riti di Vesta: La terra è simile a una palla, e nonpoggia su nessun sostegno, / la sua grave massa è sospesa nell’aria che è sotto di lei: / il motorotatorio stesso tiene sospesa la sfera (cioè: ipsa volubilitas libratum sustinet orbem).

Ovidio che riporta la sfera celeste di Archimede ai riti sacri di Vesta, riproduce le medesime ragioni della collocazione votiva del globo nell’anno 212, con riguardo alla posizione centrale della Terra.

Cicerone, argomentando che il Cosmo è opera dell’intelligenza divina, fa l’esempio della sferacostruita di recentedal nostro amico Posidonio, le cui singole rotazioni riproducono il moto del sole, della luna e dei cinque pianeti che si verificano in cielo ogni giorno e ogni notte. Nessuno, in terre selvagge, dubiterebbe che ciò viene dall’intelligenza, anziché dal caso. Mentre c’è chi, secondo Cicerone, assurdamente pensa che Archimede sia stato più abile nel riprodurre le rivoluzioni del cielo che la natura a crearle.

Forse Cicerone vide di persona il planetario di Posidonio. Certamente vide a Roma, nella domus privata del console in cui era ancora custodita dopo il trasporto da Siracusa, un’altra supposta sfera celeste di Archimede, che rimontava a circa due secoli prima. Non si comprende bene se la descrizione fatta nelle Tuscolane rifletta questo planetario privato oppure riguardi anche il globo dedicato a Vesta. Sembra che ignori la descrizione della “sfera celeste” appesa nel tempio di Vesta, per lui meno comprensibile.

Da ultimo vediamo la descrizione ci ha tramandato Claudio Claudiano, poeta di origini egiziane del IV secolo d.C. (egli era nato ad Alessandria), nella traduzione ottocentesca del Cavaliere Marini:

Mirò quaggiù dal cielo il sommo Giove,

d’un altro ciel le meraviglie nuove.

E poiché gli occhi alla bell’opera fisse,

Rivolto agli altri Dei, ridendo disse:

Tant’oltre dunque i già prescritti segni

Passa l’audacia de’ terreni ingegni?

Tanta è nel senno umano arte e possanza,

Che imitandomi ancor quasi m’avanza?

Ecco ogni Sfera in picciol globoha chiusa

L’ingegnoso ingegner di Siracusa.

De’ Poli i siti, e della linea sorta

Gradi, immagini, e segni ivi trasporta.

Con certi giri entro l’angusta mole

Corre, e l’anno misura il finto Sole;

E con lucenti, ed argentate corna

Al nuovo mese suo Cinzia ritorna.

Né meno han delle stelle i moti, e i seggi,

Dell’industria del Fabbro ordini, e leggi.

E così nella macchina mentita

Ogni fatica mia veggo smentita.

Or che più ammiro Salmonèo Gigante

Falsator del mio fulmine tonante?

Se la mano d’un vecchio oggi ha costrutto,

Emula di natura, un Mondo tutto!

5* Claudiano si riferisce con certezza al planetario esposto pubblicamente nel tempio di Vesta, e non a quello privato, di apparenze deludenti, finché non Gallo non lo attivò.

Nella descrizione di Claudiano, lo stesso Giove rimane sorpreso dall’industria del Siracusano (fabbro sta qui per fabbricatore), che appare puntuale e dettagliata, e peraltro abbastanza aderente a quella di Ovidio quattro secoli prima, sarebbe più facile intendere un continuo movimento coassiale (nel vuoto d’aria) dei vari corpi celesti (dovuto alla pressione della luce sulle sottilissime superfici annerite delle loro rispettive sagome). Ciò che descrive Claudiano è l’immagine (ancora attiva dopo sei secoli?) di un continuo movimento, regolare e regolato, all’interno di un piccolo globo, che stando a Ovidio, doveva essere di vetro (inaere clauso).

La macchina, che non è sinonimo di meccanismo, è ordinata e sembra ancora funzionante, né parrebbe mossa da alcuna forza meccanica.

Macchina finta, perché smentisce ogni fatica. Si potrebbe assurdamente pensare a un congegno ‘elettrico’ (sic: al paragone del fulmine di Giove), ma il gigante Salmoneo aveva costruito, si dice, soprattutto un carro di ferro e di rame, che imitava il rumore del tuono, anche se gettava fiaccole.

Il congegno è dunque ‘meccanico’, concepito però in un modo singolare, da emulare senza sforzo il movimento rotatorio del Cosmo?

Si potrebbe immaginare che ogni corpo celeste sia stato disposto nella propria orbita circolare, secondo la diversa lunghezza di sottili bracci ruotanti intorno a uno stesso perno, quello dei poli celesti. In base all’ampiezza del raggio della sua orbita, ogni movimento circolare uniforme sarebbe stato raccordato col suo rispettivo periodo. Saturno e Giove ruotano molto lentamente (i loro tempi orbitali sono rispettivamente di circa 26 anni e mezzo e di circa 12 anni), Marte impiega oltre 2 anni, il Sole un anno, Venere meno di un anno, e Mercurio circa 88 giorni.26

La diversa lunghezza dei singoli bracci planetari, posti in orizzontale e fatti ognuno di sottili listelli aurei, adeguatamente mantenuti in tensione, disposti l’uno sopra all’altro e appoggiati all’asse verticale del polo centrale della sfera (col minimo attrito possibile), avrebbero potuto rappresentare il raccordo dei tempi rispettivi di ciascuna rotazione uniforme. Ogni corpo planetario, Sole compreso, così regolato, avrebbe ruotato delicatamente, alla sua rispettiva velocità uniforme, sospinto dalla pressione della luce, senza alcuna resistenza dell’aria, in base alla grandezza della propria sagoma, debitamente annerita da un lato, quello contrario alla direzione del moto. Dolcemente, mentre la Luna, posta sul braccio più corto, avrebbe ruotato velocemente intorno alla Terra posta al centro dell’asse polare, raccordandosi però col moto annuale o giro del Sole nel modo prescritto (234 mesi lunari corrispondenti a 19 anni solari secondo il ciclo di Metone), anche tutti gli altri pianeti (con periodo maggiore o minore dell’anno solare), sarebbero stati raccordati alla misura dell’anno. Ne sarebbe derivato un ciclo generale, determinato dalla velocità di rotazione della luna intorno alla terra rapportata a quella del Sole, corrispondente al “grande anno” di Platone, in cui 36 mila anni sono però il multiplo per mille dei 360 gradi di un angolo giro. Cioè, ogni 360 giri dell’orbita più lenta di Saturno, si sarebbe ripetuto il ciclo. In alternativa a ciò, il “grande anno” sarebbe comunque derivato dal minimo comune multiplo di tutti i rispettivi periodi di rivoluzione, calcolati secondo l’unità di misura della durata del mese lunare.27

E si spiegherebbe perché il globo di vetro, privo d’aria e opportunamente sigillato, contenente il meccanismo geocentrico, fosse anche piuttosto piccolo. Fantasiosa ricostruzione della sfera celeste di Archimede, dopo che il vuoto d’aria era stato già concepito e ottenuto con sifoni aspiranti da Stratone di Lampsaco?

Le costellazioni delle stelle fisse dell’emisfero nord, quelle cioè note a quel tempo, si dovevano trovare disegnate all’interno della superficie dell’emisfero superiore del globo di vetro in cui la Terra, posta sull’asse dei poli, doveva però trovarsi piuttosto in basso. Mentre i vari astri dovevano essere disposti nella loro gerarchia, anche in senso verticale, secondo l’ampiezza delle loro rispettive sfere.

In questo ipotetico modellino, apparentemente a moto perpetuo (non azionato da alcun meccanismo visibile), ma funzionante soltanto di giorno per via della pressione della luce sulle sagome annerite di calcolata superficie, quando calava il buio, il movimento cessava anche per lo spettatore, senza perdere il raccordo dei diversi movimenti circolari intorno alla Terra, posta sì al centro del sistema, eppure anch’essa dotata di veloce moto rotatorio diurno su se stessa, come una trottola.28 In raccordo alla rotazione terrestre sui suoi poli, ruotava meno velocemente la Luna, mentre seguivano sempre più lentamente, nelle loro distinte orbite, disposte in modo coassiale, gli altri corpi celesti, col Sole al quarto posto, oltre l’orbita della Luna, e quelle di Mercurio e Venere.

Il Sole, in accordo con la Luna secondo il ciclo di Metone, dava poi la misura del moto rotatorio con riguardo all’anno, per cui 19 giri completi del Sole rappresentavano 254 mesi lunari. Gli altri pianeti, disposti sulle loro orbite, interne o esterne a quella del Sole, avevano movimenti più veloci o più lenti del Sole stesso, in base alla distanza calcolata da Archimede (secondo Macrobio, differente dalle proporzioni platonico-pitagoriche).

Giove e Saturno orbitavano con movimenti lenti, proporzionali alla lunghezza dell’asse di sostegno e della superficie annerita dell’immagine planetaria, raccordati alla durata (in mesi lunari e anni) delle loro rispettive rivoluzioni orbitali.

Una forza invisibile, analoga a quella dell’Universo, muoveva le sfere finché c’era luce. Col buio il movimento cessava, riprendendo delicatamente il giro, senza soluzione di continuità, col sorgere del sole.

Le forze di pressione della luce erano state regolate anche in base al peso dei sottili bracci, oltre che rispetto alla superficie annerita.

Il meccanismo rotatorio non si poteva starare, in assenza di ogni resistenza dovuta all’aria, giovandosi di attriti infinitesimali, eliminati con un lubrificante speciale (olio di lino), non soggetto ad alterazione. Il vuoto d’aria garantiva il movimento, mentre la pressione della luce sulle superfici annerite esercitava la spinta necessaria per i diversi moti uniformi. La sfera di vetro era piccola e tanto spessa da resistere alla pressione esterna come le nostre moderne lampadine. 29

6* Ovidio non accenna a movimenti all’interno del globo che doveva essere trasparente. Ciò è implicito alla descrizione e torna esplicito in Claudiano che fornisce alcuni dettagli. Ovidio non poteva immaginare che nell’ampolla di vetro vi fosse un vuoto d’aria. Però in aere clauso – descrizione che conduce a tale possibilità – significherebbe una totale assenza di meccanismi di attivazione. All’epoca di Ovidio il globo rotante aveva cessato di funzionare?

Claudiano parla di movimenti rotatori della Luna, che ritorna al suo mese, spinta a quanto pare da una forza invisibile, e di un piccolo globo che sembra emulare il Mondo, per la meraviglia di Giove in persona.

Se Stratone di Lampsaco aveva già realizzato il vuoto d’aria aspirandola da alcuni contenitori, si sarà certamente servito di bottiglie di vetro (i Fenici erano maestri in quest’arte e si può essere certi che conoscevano già la tecnica del vetro soffiato).

Si può pensare, in base alla nostra ipotesi che dà per scontata la forza di pressione della luce esercitata su sottilissime lamine annerite, ma in un notevole vuoto d’aria e con scarsissimi attriti d’altra natura, che Archimede avesse dapprima allestito l’apparato in una semisfera e poi ricongiunto il tutto in una sfera unica. Infine, praticando un piccolo foro nel vetro della sfera, ne avrebbe risucchiato quanta più aria possibile, provvedendo immediatamente a sigillare il foro stesso, quando quest’ultima delicata operazione era ormai terminata.

Se un tale marchingegno poteva essere mosso all’aperto da un soffio costante d’aria, adesso – nel vuoto – era soltanto la pressione della luce a spingere continuamente il movimento secondo prestabilite proporzioni. Il problema maggiore è dato dal concetto di pressione della radiazione luminosa. Tuttavia anche quest’aspetto ha una corrispondente ‘immagine’ concettuale di carattere fisiologico nella sensazione di calore che si avverte con la pelle accanto al fuoco. Una mente produttiva o trasformativa come quella di Archimede avrebbe potuto concepire anche questa possibilità, desiderando si sperimentarla.

E’ da dubitare che il planetario meccanico visto in funzione da Cicerone funzionasse ad aria calda o a molla. Si deve invece ritenere che funzionasse ad acqua. In ogni caso era un giocattolo didattico e non un vero e proprio strumento scientifico a differenza della macchina di Antikytera che era munita di ingranaggi analogici che andavano regolati e poi attivati a mano.

Un giocattolo meccanico come il planetario, poteva appartenere alla reggia di Gerone, a prescindere che l’avesse costruito Archimede per compiacere il sovrano. E’ invece degna del genio di Archimede l’invenzione dell’ipotetica sfera celeste o globo di vetro da noi descritto, che dei moti planetari esibiva il movimento combinato e soprattutto la meraviglia di un motore invisibile quanto la potenza arcana del Demiurgo.

I veri strumenti astronomici erano le armille, i globi compatti e gli astrolabi. Ci si serviva di essi per i più importanti calcoli celesti. Si deve a Ipparco l’astrolabio piano, ottenuto per proiezione sferica. Gli astrofili moderni, fino a pochi anni fa, si servivano ancora di questo tipo di astrolabio, munito di un’ alidada graduata, oggi sostituito da una miriade di programmi elettronici computerizzati, inseriti persino nel telefono cellulare. Rimane in ogni caso inalterata la genialità di tutti questi ritrovati sia antichi, che moderni. Lo studio del cielo ha assorbito fin dall’antichità l’intelligenza umana.

A proposito della volta celeste, così si esprimeva Cicerone (De natura deorum, II, 104-105), utilizzando certi versi di Arato di Soli: Tutti gli altri corpi celesti scorrono di moto rapido, / e si muovono assieme al cielo giorno e notte. La punta di ciascuna estremità dell’asse si chiama polo. Attorno a questo si muovono le due orse che non tramontano mai.30

Nel Timeo possiamo leggere che il Demiurgo diede all’Universo la forma perfetta di una sfera (il rotondo sfero di Empedocle e la ben rotonda verità di Parmenide), e lo fece perfettamente liscio di fuori tutto intorno, né c’era aria all’intorno che avesse bisogno di essere respirata.

La sfera celeste di Archimede appesa nel tempio di Vesta a Roma non sarebbe stata un planetario, ma una meraviglia platonica che intendeva dimostrare l’invisibile potenza divina.

IL TELESCOPIO DI RAGUSA-DUBROVNIK

1* Guglielmo Libri, conte Carrucci della Sommaia (Firenze 1803-Fiesole 1869), fu un valente matematico e storico della matematica, che insegnò per qualche tempo matematica e fisica a Pisa. Grande bibliofilo e assiduo frequentatore di biblioteche, sembra che questa passione lo avesse già portato a commettere dei furti librari in Italia.

Nel 1830 riparò in Francia per motivi politici. Ottenuta la cittadinanza francese, ebbe la cattedra di analisi matematica alla Sorbona e fu anche nominato segretario della commissione reale per il catalogo dei manoscritti delle biblioteche. Accusato di essersi impadronito di numerosi testi rari anche in Francia, riparò in Inghilterra (1848).

Nel 1850 fu condannato in contumacia a 10 anni di reclusione. Rientrato definitivamente in Italia, quando Firenze ne divenne la capitale, morì nel 1869, a Fiesole. Dopo la sua morte, quando il figlio del celere bibliofilo Bertram conte di Ashburnham volle vendere la biblioteca paterna, emersero le prove certe della colpevolezza del Libri.

I preziosi testi che il conte italiano aveva trafugato in Italia e in Francia, dall’Inghilterra tornarono in Francia, e parte in Italia. Si trovano oggi divisi tra la Biblioteca Laurenziana di Firenze e la Biblioteca reale di Torino.

La possibilità che Archimede abbia costruito un telescopio a riflessione 19 secoli prima di Newton si deve a questo incredibile personaggio, autore di una brillante storia della matematica pubblicata in Francia nel 1841.

Frugando nella corrispondenza del Bouillau, erudito francese del XVII secolo, il Libri trovò una lettera a questi diretta da Varsavia, da un valente meccanico italiano, Tito Livio Burattini, datata 7 ottobre 1672.

Ecco un brano di tale lettera: Dalla gentilezza di V.S. mio Signore, ho ottenuto non solo il disegno, ma ancora la dichiarazione del tubo catoptrico inventato dal signor Newton, di che gliene rendo vivissime gratie. L’inventione èbellissima e di gran gloria a quello che l’ha trovata. Ma aggiunge il Burattini: In Ragusi, che anticamente era Epidauro, antichissima et famosa città dell’Illirio, patria di Esculapio, conservano sino al giorno d’oggi una tale macchina (se però l’ultimo terremoto non l’ha rovinata), con la quale vedono in distanza di 25 o 30 miglia italiane i vascelli che transitano nel mare Adriatico, con la quale li approssimano tanto, che pare appunto che siano nel porto di Ragusi. L’anno 1656, mi trovavo in Vienna, ove da un raguseo mi fu parlato di questa macchina in presenza del signor Paolo Del Buono, conosciuto da V.S.

Proseguendonella lettera, il Burattini riferiscela descrizione fattagli dal Del Buono: Era fatta come una misura da misurare il grano. Due anni prima della lettera al Bouillau, nel 1670, si trovava a Varsavia il signor Aurelio Gisgoni, valente medico, che per anni aveva esercitato a Ragusa.

Qui a Varsavia il Burattini e il Gisgoni si incontrarono, e Burattini viene a sapere dal Gisgoni che quel telescopio a riflessione si riteneva, a Ragusa, che fosse opera di Archimede. Al Burattini venne in mente il racconto che aveva già udito nel 1656, prima dell’invenzione di Newton. Burattini chiese allora al Gisgoni di descrivergli meglio quello strumento, e il Gisgoni gli confermò che aveva la forma di uno staio, o tamburo senza fondo, e che lo strumento era conservato su una torre da un magistrato addetto. Il Burattini aggiunse per Bouillau che simili strumenti esistevano veramente all’epoca dei Tolomei sopra la torre del Faro di Alessandria.

E’ credibile una storia del genere, dati i precedenti morali del Libri? La vicenda per sentito dire, sembra concepita apposta, per farla apparire da inventata di sana pianta, alquanto verosimile. Ma quella lettera, fosse stata pure un falso materiale del Libri, esisteva davvero, e le persone ivi citate sono reali. E’ però possibile, se non probabile, che il Libri abbia costruito un abile falso, allo scopo di attribuire ad Archimede un telescopio a specchi, che il Siracusano mai poté costruire, oppure che l’origine di quello strano strumento conservato a Ragusa, prima che Newton costruisse il suo, fosse assai diverso. Nel qual caso, se appunto era infondata la tradizione leggendaria che si raccontava a Ragusa (attuale Dubrovnik), non può escludersi che lo strumento risalisse a Marco Antonio de Dominis (1560-1624), vescovo di Spalato e grande studioso di ottica.

Risulta da Pappo che Archimede scrisse anche un’opera sulla catrottica, mentre la proprietà degli specchi parabolici di rendere paralleli i raggi di riflessione doveva aver trovato applicazione nel grande riflettore ruotante del Faro di Alessandria, la cui luce notturna giungeva lontano, in alto mare, a decine di miglia, in ausilio e a guida per i naviganti.

Sappiamo poi da una testimonianza di Diocle, che Dositeo, allievo e successore di Conone, cui Archimede inviò anche il trattato sulla parabola, si era occupato di “specchi”.

Uno specchio parabolico di metallo lucidato e finemente levigato con massima cura, avrebbe sicuramente avuto delle proprietà riflettenti abbastanza fedeli, ma la corrosione, la polvere e il tempo lo avrebbero rapidamente messo fuori uso, senza un’adeguata manutenzione. Infine, occorreva una lente obiettivo laterale, con un prisma deviatore, per ingrandire sul fuoco dell’asse ottico, l’immagine riflessa dal primario.

Lo strumento di Ragusa era abbastanza grande, certamente più grande del minuscolo telescopio di Newton. Che si fosse potuto conservare in così buone condizioni è un miracolo. Dunque, la lettera del Burattini, dato e non concesso che fosse autentica, poteva però essere un fraintendimento in buona fede: il Burattini parlò per sentito dire, egli non mise mai l’occhio in quello strano cilindro o tamburo.

E’ vero però che Francesco Maurolico (1494 – 1575), figlio di un profugo di Costantinopoli, nel 1453, dopo la conquista da parte dei Turchi, conosceva l’impiego delle lenti ottiche, di cui fornisce una razionale spiegazione. E non è vero che gli antichi non conoscessero strumenti ottici di ingrandimento, noti e impiegati in Spagna sotto gli Arabi, all’epoca di Averroè.

Giovanni Pettinato, notissimo assiriologo, ha affermato che gli astronomi Caldei conoscevano e impiegavano lenti ottiche in cristallo di rocca. In una commedia di Aristofane, Le Rane, si legge che le donne ateniesi accendevano il fuoco con una lente. Esempi di antiche lenti ottiche sono conservate nel Museo nazionale di Bagdad. Gli astronomi Caldei potevano aver osservato con un perspicillum i crateri lunari, l’anello di Saturno e i satelliti di Giove con le sue bande colorate? Sembra impossibile.

Eppure in un frammento di Anassimandro, riportato da Teofrasto, si legge alla lettera (in un contesto confuso che fa riferimento anche alle eclissi), che spiragli risulterebbero per certi condotti tubiformi, in corrispondenza ai quali appaiono gli astri. E’ possibile che Anassimandro avesse sentito dire qualcosa a proposito degli strumenti ottici dei Caldei, ma senza comprendere di che si trattasse. In un’antica illustrazione araba si vede un astronomo, col braccio sinistro appoggiato sul fianco, mentre traguarda il cielo con uno strumento tubiforme, munito di sestante con filo a piombo, che somiglia in tutto e per tutto ad un cannocchiale della lunghezza di oltre un metro, poggiato su un alto piedistallo regolabile. Si dice che quello fosse un semplice traguardo per le stelle (che difatti non possono essere ingrandite). Né è di alcun conforto Plutarco, con la sua operetta Sulla faccia della luna (quae in orbe apparet), sebbene vi si contengano eccezionali informazioni sull’eliocentrismo e sulla concezione della gravità (Plutarco riporta un’effettiva teoria della gravitazione fondata sull’analogia della fionda).

La storia del cannocchiale di Galileo Galilei avrebbe dietro di sé una lunga e misteriosa vicenda. Non solo risultano diversi studi e disegni al riguardo, da parte di Leonardo da Vinci, ma anche le indicazioni del perspicillum da parte di un accademico dei Lincei, Giovan Battista Della Porta, accanto alle notizie scientifiche che si desumono dai lavori Marco Antonio de Dominis, che operava in Dalmazia (vedi M. Mamiani, Storia della scienza moderna, Bari, 1998, pp. 123 ss.; L. Russo, op. cit., pp. 297 ss.; M. Withe, Leonardo, Milano, 2000, pp.302 ss.). Pertanto non farebbe meraviglia che Archimede avesse costruito degli strumenti ottici ingrandenti sfruttando le proprietà di specchi riflettenti parabolici, come sono oggi per gli astrofili i più elementari strumenti a riflessione, chiamati dobsoniani, che sfruttano un prisma deviatore e una lente ottica convessa come quella di Galileo.

Il rapporto tra luminosità dell’immagine e ingrandimento o avvicinamento dell’oggetto che si forma sul fuoco è difatti un invariante. Infine gli specchi parabolici non soffrono di aberrazione, ma soltanto di coma.

Le proprietà degli specchi parabolici erano già note nell’antichità e si trattava soltanto di ‘leggere’ con una lente ottica (una lente caldea, menzionate anche da Aristofane), l’immagine formatasi sul fuoco. Le lenti esistevano già prima di Archimede.

2* Anche a non prestar fede alle notizie riportate dal Libri, in base alle lettera del Burattini, così come Newton aveva costruito il suo piccolo telescopio a riflessione, è altrettanto possibile che Archimede avesse saputo fare la stessa cosa. Il vetro era lavorato con grande abilità dai Fenici che all’epoca di Archimede si erano già stanziati in Sicilia. Il cristallo si ottiene con particolari miscele, mentre il cristallo di rocca è reperibile in natura. La rifrazione era un fenomeno conosciuto e studiato, ben prima di Tolomeo, in età alessandrina.

La costruzione di un cannocchiale è più difficile perché si richiede una lente obiettivo oltre a un buon oculare. Di più semplice concezione è il telescopio a riflessione, del tipo attribuito ad Archimede secondo una non controllabile versione. Assai sospetta giacché dell’esistenza di quello strumento non se ne sapeva nulla in Europa, nel XVI o XVII secolo, se non a Dobrovnik. Ma non si è saputo nulla per due millenni neppure della straordinaria scatola meccanica di Antikytera, prima che fosse ripescata in mare nel 1900. Ed è questo un bell’esempio a livello tecnologico dei confini labili tra ‘antico’ e ‘moderno’, intendendo per ‘moderno’ l’età di Galileo Galilei (l’occhiale era già noto nel medioevo).

Dall’epoca alessandrina in poi, trascorsi 18-19 secoli, fino alla rivoluzione scientifica moderna, che fu la molla di una potentissima accelerazione, la civiltà e il progresso scientifico erano rimasti pressappoco gli stessi.

Se si erano verificate notevoli acquisizioni teoriche e pratiche; bisognerebbe però spiegare perché vennero ben presto dimenticate, e perché non ne tratti diffusamente e organicamente alcuna opera antica a noi pervenuta. Ciò trova una spiegazione nel fatto che queste conoscenze non riuscirono a diffondersi, venendo poi meno nell’ambito del predominio di Roma sull’orbe.

L’invenzione del cannocchiale non può essere attribuita esclusivamente a Galileo, che ne perfezionò un esemplare con lenti negative commerciandolo con la Repubblica di Venezia. E possibile, anche se non è probabile, che il mistero degli strumenti ottici sia stato recuperato più volte nel corso dei secoli da un fondo d’oblio coperto anche da segreto militare. Per cui la riproduzione araba che mostra un astronomo intento ad osservare il cielo notturno con un lungo tubo, che in tutto assomiglia a un cannocchiale del XVII secolo, più grande e meglio allestito dei piccoli cannocchiali costruiti da Galileo, rappresentare un antico strumento a lenti, anziché un semplice puntatore direzionale.

Esemplari di strumenti ottici ingrandenti si potevano ottenere anche con una serie di bolle sferiche a rifrazione. Così sembra abbiano fatto gli arabi in Spagna. Non è impossibile a priori che nell’antichità siano esistiti strumenti ingrandenti e avvicinanti come ha sostenuto con la sua autorità Giovanni Pettinato. *[Per una documentata trattazione dell’ottica antica, che sarebbe stata riscoperta nel ‘600, si può vedere Lucio Russo, La rivoluzionedimenticata, Feltrinelli, I, 1997, pp. 299 segg. Russo parla della riscoperta europea dell’ottica. La moderna teoria della dispersione della luce, sostiene Russo, non nascerebbe con Cartesio e Newton, ma con il de Dominis. L’arcivescovo dalmata potrebbe essere stato l’erede di saperi antichi].

Nel 1590 si aveva già una teoria del cannocchiale (sappiamo che in precedenza se ne era interessato Leonardo da Vinci). L’arabo Alhazen (X secolo) era stato un grande studioso di ottica. Egli espose la teoria delle lenti sferiche. L’opera di Tolomeo sull’ottica non è giunta integra. Ma Antemio di Tralle (VI sec.) conosceva la proprietà focale della parabola, che poteva derivare dagli studi di ottica di Archimede, attestati dalle fonti, ma dei quali non è giunto nulla.

A questo punto può darsi che Guglielmo Libri non sia stato autore di alcun falso, mentre il Burattini avrebbe fornito quantomeno la testimonianza seria sull’esistenza di un antico telescopio a riflessione prima che Newton costruisse il suo prototipo.

Tutto ciò è sufficientemente credibile, perché a motivo Newton costruì il suo piccolo strumento servendosi di cognizioni già note. Nel 1305 Giordano di Rivalto riferiva di lenti convesse. I primi cannocchiali circolavano in Olanda verso il 1608 con J. Lippershey, un occhialaio di Middelbourg.

Il primo cannocchiale preso in considerazione il 2 ottobre 1608 dagli Stati Generali dell’Olanda forniva 4-5 ingrandimenti. Anche James Metius di Alkmaar si arrogò l’invenzione prima di Galileo, il quale ne giunse a conoscenza nel maggio-giugno 1609, mentre si trovava a Venezia (il cannocchiale interessava i naviganti).

Sagredo, il più caro amico di Galileo, aveva concepito un progetto di telescopio riflettore. Nella corrispondenza di Galileo si trova un accenno sul telescopio a specchio costruito da Cesare Caravaggi di Bologna e Bonaventura Cavalieri che aveva composto un’opera sugli specchi ustori, così scriveva: E’ manifesto che se combineremo lo specchio concavo con il convesso, ovvero con la lente cava, dovremo aver l’effetto del cannocchiale.

Newton, per i suoi specchi, usò metallo di campana, reso lucido con una soluzione di arsenico, seguendo le indicazioni degli alchimisti (W. Ferreri).

Tentativi successivi con una lega di rame più arsenico portarono a risultati più incoraggianti. In seguito si giunse a una lega composta di 68% di rame e di 32% di stagno.

Ad Archimede sarebbero occorsi 3 elementi essenziali: una lega metallica con proprietà riflettenti, una prisma di vetro, e una lente di ingrandimento.

Lo strumento di Dubrovnik, come riporta il Burattini, era grande come uno staio e aveva una buona capacità di avvicinamento. Ed è impossibile che fosse rimasto ignoto se veramente era un manufatto antico. Tuttavia, l’assenza di altre notizie, non esclude nemmeno che potesse essere stato così. In teoria era possibile ad Archimede una realizzazione del genere, sebbene del tutto trascurata nella leggenda che lo riguarda e che lo vede protagonista di altri mirabolanti ritrovati: la coclea o vita idrovora, la sfera celeste, l’organo idraulico (attribuito da Plinio a Ctesibio che visse un secolo dopo Archimede), l’orologio solare o grande meridiana di Siracusa, la scitala per i cifrari segreti, lo Stomachion o Luculo, e persino il lume perpetuo (posto nella tomba della carissima figlia premorta di Cicerone), che però altro non sarebbe se non l’analogo del radiometro di Crookes.31 Il telescopio a riflessione, con specchio parabolico di bronzo lucidato, ovviamente le immagini erano imperfette ma ingrandite, poteva essere realizzato da Archimede, a condizione di una lente oculare ingrandente di cristallo di rocca. Alla sua epoca tutti questi elementi esistevano già, e non è dunque impossibile che ne abbia veramente costruito un esemplare. L’esemplare di Ragusa non doveva essere più funzionante oppure si trovava in condizioni del tutto precarie, che cioè lasciavano appena arguirne l’impiego. Dal telescopio agli specchi ustori il passo è breve.

 

GLI SPECCHI USTORI

1* Non si presta fiducia alla notizia riportata da Giovanni Tzetze nel XII secolo, che trova però un riscontro in Luciano (autore del II-III secolo d.C.), a proposito degli specchi ustori di Archimede durante l’assedio di Siracusa. Se fosse stato vero – si afferma – ne avrebbero parlato Polibio, Tito Livio e Plutarco. Come potevano degli specchi metallici concentrare i raggi solari in un punto lontano anche più di 200 passi, bruciando le vele delle navi romane e gli scafi? L’argomento ex silentio non è totalmente probante. Polibio poteva avere ragioni di riserbo a favore dei Romani, terrorizzati dai quei dardi di luce infuocata. Ma poteva essere stata la ragione dell’assassinio premeditato di Archimede, trasformata nell’ira improvvisa d’un centurione.

Gibbon, verso la fine del ‘700 autore di una grande storia sul declino e la caduta dell’impero romano, dedica qualche pagina alla leggenda degli specchi ustori di Archimede.

Secondo Gibbon, Tzetze riporterebbe male quanto da lui letto in un trattato di Antemio di Tralles. Il naturalista Buffon, senza alcuna conoscere le notizie di Tzetze e di Antemio, immaginò e costruì una serie di specchi ustori, con i quali poté incendiare delle tavole di legno alla distanza di 200 piedi.

Proclo, un generale bizantino da non confondere col filosofo neoplatonico, usò nel 514 degli specchi esagonali di rame, con molti poligoni, piccoli e mobili, per ricevere e riflettere i raggi del sole meridiano e per bruciare le navi gotiche di Vitaliano nel porto di Costantinopoli. Proclo doveva conoscere un trattato di Archimede sugli specchi e sull’ottica a noi non pervenuto. Nulla di più probabile, se l’episodio è vero.

Poteva averlo già fatto sette secoli prima Archimede, quando iniziò l’assedio navale di Siracusa nel luglio- agosto del 213, mesi notoriamente caldissimi in Sicilia.

Questi specchi ustori, manovrati all’unisono e composti di molti frammenti orientabili, potevano concentrare in punti ristretti la radiazione solare. Non si tratta però di specchi parabolici, il cui punto focale non poteva agire a tanta distanza. Antemio di Tralles aveva sostenuto che gli specchi parabolici non potevano concentrare i raggi solari su un fuoco troppo lontano. Non sarebbero stati capaci di combustione, neppure delle vele se non del fasciame delle navi romane.

Padre Atanasio Kirker costruì nel XVII secolo uno specchio ustorio che consisteva in una serie di specchi piani e circolari, che erano fatti convergere verso un punto distante, concentrando il calore. Gli esperimenti del Buffon nel 1717, con uno specchio ustorio formato da 168 specchi piani, confermarono questa possibilità. Il Buffon si convinse che Archimede aveva veramente bruciato le navi romane.

2* Altro indizio di questo evento reale lo fornisce Silio Italico. Da alcuni versi del suo poema sulle guerre puniche si evince che le navi del console Marcello furono effettivamente incendiate: Da lungi a questa una facella ardente / Cimbro avventò; l’incendiario dardo / stette ad un fianco de la torre infisso. / Scoppia la fiamma a lo spirar del turbine, / si dilata l’incendio e già dell’ardua / mole penetra ne l’interne viscere, / sale pe’ tetti ricrescenti e rapido / divora il fuoco i crepitanti roveri

Silio Italico sapeva che due secoli e mezzo prima le navi romane erano state incendiate sotto il sol leone. Se dunque l’incendio ci fu, ciò non avvenne a causa di dardi incendiari, che i marinai avrebbero subito potuto estinguere, bensì a causa degli specchi ustori che potevano insistere a lungo sugli obiettivi, costringendo le navi romane a non accostarsi alle mura di Siracusa.

Archimede, ingegnere di Siracusa, non è un personaggio da falsa leggenda. La notizia degli specchi ustori riportata da Tzetze nel XIII secolo, era questa: AvendoMarcello ritirato le sue navi fuori tiro con i dardi, il vecchio geometra costruì una specie di specchio esagonale, situando allato dello stesso (che era di grandi dimensioni) altri specchi più piccoli, ma del medesimo genere, che erano messi in moto da lamine metalliche e da cerniere; situò lo specchio ai raggi dl sole, ed in forza della loro riflessione, un grande incendio si sviluppò nella flotta romana, riducendo in cenere le galere fuori tiro degli arcieri. Dione e Diodoro scrissero questo tratto storico, e dopo di costoro molti scrittori hanno fatto menzione di Archimede, principalmente Antemio, Erone, Filone e Pappo, e tanti altri che scrissero sulla meccanica. Nei libri di costoro, posteriori ad Archimede, leggesi la combustione prodotta con gli specchi, le descrizioni di tutte le invenzioni meccaniche, le macchine per muovere pesi, e le scoperte del dottissimo geometra sull’aria e sull’acqua.

In questo passo delle Chiliadi, Tzetze cita storici del calibro di Diodoro Siculo e Dione Cassio. Purtroppo sono andate perdute quelle parti delle opere storiche di questi due autori, che trattavano il periodo di Archimede.

Anche Giovanni Zonara negli Annali parla degli specchi ustori e poggia tale affermazione sull’autorità di Dione Cassio, che scrisse le sue storie all’epoca dell’imperatore Alessandro Severo.

Tutto ciò rafforza l’idea che Archimede usò certi suoi ritrovati per concentrare la forte luce solare estiva su punti lontani, provocando quantomeno la combustione delle vele e del sartiame delle navi romane del console Marcello.

La testimonianza di Silo Italico non si perita di nascondere i fatti, per esaltare la potenza romana vincitrice. Silio Italico, che pure riporta la notizia dell’incendio, suppone che ciò derivasse dai dardi incendiari, mentre Tzetze esclude tale ipotesi, poiché le navi romane si erano portate fuori tiro, accontentandosi del blocco navale intorno a Ortigia.

Polibio preferì ignorare l’episodio oppure non lo conosceva. Tito Livio dipenderebbe da Polibio. Meno spiegabile è il silenzio di Plutarco, autore ricchissimo di dettagli, quasi sempre rivelatisi esatti. Tuttavia Diodoro Siculo, autore siciliano che scriveva nell’età di Augusto, nei libri perduti della sua grande Biblioteca storica doveva aver parlato diffusamente degli specchi ustori, e queste notizie furino riprese da Dione Cassio. Non c’è alcuna ragione per non credere alle testimonianze di Tzetze e di Zonara anche se di epoca medievale. Queste testimonianze, non solo danno alcune notizie circa tali specchi, ma poggiano sulla medesima fonte. Il fatto poi che lord Gibbon non respinga questa possibilità, e anzi citi i lavori di Buffon, lascia ritenere che Archimede abbia effettivamente fatto uso di specchi metallici, posti in serie e orientabili sugli obiettivi, profittando della stagione di massima calura.

Del resto gli esperimenti positivi di Buffon sono stati ripresi anche di recente, dimostrando che a certe condizioni di altezza del sole, sullo sfondo della flotta romana era possibile, con apparecchiature mobili, concentrare i raggi solari fino a provocare incendi almeno nelle vele. E’ ovvio che le navi romane potevano sottrarsi a tale inconveniente, allontanandosi o spostandosi. Ne dobbiamo perciò ricavare che la sorpresa di Archimede con gli specchi ustori riguardò soltanto il periodo della massima calura stagionale e che consistette al massimo in pochi episodi concentrati nel tempo.

Ciò non toglie che i Romani abbiano voluto vendicarsi uccidendo Archimede dopo la conquista di Siracusa per continuo assedio, per mare e per terra, e per divisioni politiche interne. I siracusani costretti a scegliere tra romani e cartaginesi preferirono i primi. Finiva la Magna Grecia.

 

***

IL POBLEMA DEI BUOI

 

E’ un terribile problema logistico di analisi indeterminata con soluzioni intere.32 Ne tratteremo a parte perché merita la massima attenzione. Archimede lo aveva inviato ad Alessandria, a Eratostene e al suo gruppo, in forma di epigramma in 44 versi. Il problema si compone di 2 gradini ed è ispirato a un passo dell’Odissea (XII, 165-169). La sfida consiste nel trovare il numero [vertiginoso: soluzioni con 200 mila cifre!] delle vacche e dei tori di 4 diversi colori che ripartiti in 8 mandrie pascolavano un tempo nell’isola a tre punte di Trinacria , cioè la Sicilia (Problema dei buoi del Sole Iperione). L’epigramma fu ritrovato nel 1773 dal Lessing nella biblioteca di Wolfenbuettel, in Sassonia.

Il primo gradino dà luogo a un sistema di 7 equazioni, 3 per i tori e 4 per le vacche. Il secondo gradino impone due condizioni aggiuntive:

  1. il numero dei tori bianchi più quello dei tori neri deve dare come somma un quadrato;

  2. il numero dei tori screziati più quello dei tori fulvi deve dare come somma un numero triangolare, cioè della forma ½ n (n +1).

All’epoca di Archimede il problema non era computabile. Tuttavia, egli che lo aveva ideato a tavolino – ma per quale scopo? –, sapeva già a priori che il problema era corretto. Non è da credere che lo avesse calcolato. Perché e quando inviò l’epigramma ad Alessandria?33

Ecco il testo del Problema, riportato in prosa: Amico, se partecipi alla sapienza, calcola usando diligenza, qual era il numero dei buoi del Sole che pascolavano nelle pianure della sicula Trinacria, divisi 4 gruppi di colori diversi: il primo bianchi come il latte, il secondo di color nero lucente, il terzo fulvo e il quarto screziato. In ciascun gruppo c’erano tori in quantità, divisi secondo la seguente proporzione: immagina che i tori bianchi fossero in numero uguale a una metà più un terzo dei neri, più tutti i fulvi, e che i tori neri fossero in un numero uguale alla quarta parte più un quinto degli screziati, più tutti i fulvi. Considera inoltre che i tori screziati restanti fossero in numero uguale alla sesta parte più un settimo dei tori bianchi più tutti i fulvi.

Per le vacche valga questo: le vacche bianche erano in numero uguale alla terza parte più la quarta di tutti i bovini neri, le vacche nere erano in numero uguale alla quarta parte più la quinta di tutti i bovini screziati, le vacche screziate erano in numero uguale alla quinta parte più la sesta di tutti i bovini fulvi, e le vacche fulve erano in numero uguale alla metà più la terza parte più un settimo di tutti i bovini bianchi.

Amico, se tu dirai quanti erano i buoi del Sole, qual era il numero dei ben pasciuti tori e quante erano le vacche di ciascun colore, nessuno dirà ch sei ignorante o inesperto sui numeri: tuttavia non sarai ancora annoverato tra i sapienti.

Ma ora osserva come tutti i buoi del Sole erano situati. I tori bianchi, se mescolavano la loro quantità con i neri, formavano un gruppo quadrato, tale da occupare tutte le pianure della Trinacria. Inoltre i tori fulvi, con gli screziati, formavano una figura triangolare, a prescindere dalla presenza di tori di altro colore.

Se tu troverai tutte queste cose e se in modo comprensibile indicherai tutte le misure, va orgoglioso come colui che ha riportato la vittoria, e sarai giudicato del tutto provetto nella scienza.

Il secondo gradino concerne un numero quadrato, poi un numero triangolare, secondo la terminologia pitagorica sui numeri figurati. Archimede che aveva ideato il problema a tavolino, di fatto avrebbe saputo calcolarlo? Quale il senso di questa sfida, dove amico ha pure il significato di straniero, in lingua greca? Quali i riferimenti letterari dell’epigramma, oltre all’Odissea (ibuoi diIperione)?

 

1 Poco prima di morire, giacché si può ricostruire, da quanto riportato da Archimede nella lettera a Dositeo, che l’amico Conone sia scomparso all’incirca in questo periodo.

2 Insistiamo nell’indicare in quel Fitia, menzionato nel catalogo dei pitagorici di Siracusa, il padre di Archimede, anche se il nome del figlio non vi figura. Ciò è dovuto al fatto che Giamblico impiegò nella Vita di Pitagora un vecchio elenco, nel quale Archimede in vita non era considerato. In età alessandrina il pitagorismo era stato superato.

3 Il problema dell’ampiezza del diametro o del perimetro terrestre si riverbera sulle stime cosmiche dell’Arenario (vedi parte seconda anche per la grandezza dello stadio).

4 La data è attendibile perché sappiamo l’anno in cui Gerone II associò al trono di Siracusa il figlio Gelone, in occasione del quale evento fu composta l’opera, anche per celebrare il primato della colonia greca nelle scienze.

5 Vedi quanto abbiamo già detto nella parte seconda a proposito del fatto che Eratostene s’ispirò a un’impresa precedente, realizzata oppure semplicemente ideata dagli antichi Egizi. A nostro avviso Eratostene migliorò il procedimento, ma non fu lui l’ideatore.

6 Uno scarto di soli 3 gradi diminuiva enormemente la stima, ma è stupefacente che Aristarco fosse comunque riuscito a individuare il procedimento geometrico, con una buona approssimazione per le grandi difficoltà tecniche poste dal metodo.

7 Circa 150 milioni di chilometri.

8 La grandezza sottostimata delle dimensioni della Terra avrebbe convinto Cristoforo Colombo a cercare la via del Giappone e della Cina a ovest, attraverso l’Atlantico.

9 Il 230 a.C. è la data correntemente accettata dagli studiosi. La data è importante, anche circa il singolare epigramma con cui Archimede formulò il problema dei Buoi del Sole.

10 Artemidoro di Efeso è stato il più grande geografo dell’età ellenistica, definito da L. Canfora un personaggio enigmatico.

11 Vedi “Archimede parte seconda”.

12 I numeri fattoriali sono il prodotto delle cifre precedono e rappresentano quel numero: es. 1 x 2 x 3 = 6 – 1 x 2 x 3 x 4 x 6 x 6 x7 = 5040

13 Le nozze di Filologia e Mercurio.

14 Il termine “pianeta” significa letteralmente “vagabondo” giacché si tratta di astri mobili sullo sfondo delle stelle fisse.

15 E’ del tutto evidente che i modelli planetari possono essere di due tipi: geocentrico o eliocentrico. Il modello cosmico greco era geocentrico, salvo i pitagorici e Aristarco. Di che tipo erano i planetari di Archimede? Nel modello geocentrico le difficoltà tecniche sembrano insuperabili: argomento di Neugebauer.

16 Quindi, un planetario eliocentrico, necessario a fini meccanici, poteva anche non esserlo come modello cosmologico, rimanendo il principio geocentrico della Terra immobile.

17 Il tempio circolare di Vesta era un’immagine del cosmo, e il culto del fuoco domestico rimandava al Sole. A questo proposito Ovidio parlava della Terra come una palla, tenuta sospesa dal suo stesso moto rotatorio. Un modello eliocentrico, perciò. E subito dopo Ovidio introduce il globo in chiuso spazio d’aria, arte di Siracusa, piccola raffigurazione dell’immensa volta celeste, con la Terra che si discosta tanto dal punto più alto quanto da quello più basso: e tale fenomeno è prodotto dalla forma rotonda.

18 Macrobio, Commentario al sogno di Scipione nella Repubblica di Cicerone.

19 La legge di Titius e Bode, semplicemente legge di Bode, descrive empiricamente con buona approssimazione i semiassi delle orbite planetarie.

20 Il globo celeste è, infatti, uno strumento astronomico, al pari dell’astrolabio, utilissimo per determinati calcoli.

21 Cicerone descrive in opere diverse, le Tuscolane e la Repubblica, due sfere celesti o planetari, attribuiti ad Archimede, che sembrano affatto differenti.

22 Vedi però quanto già detto a proposito delle difficoltà meccaniche inerenti a planetari geocentrici.

23 Tuttavia, prendendo i tempi sinodici dei pianeti esterni, cioè Marte, Giove e Saturno, già noti agli antichi astronomi, il grande anno si compone del massimo comune multiplo, che è dato da un numero a tre cifre. A un “grande anno” del genere sembra alludere l’indovino Horos in Properzio IV, 1 (vedi nostro pezzo sul sito).

24 E’ il principio fisico del c.d. radiometro di Crookes. In un’ampolla di vetro è stato fatto un vuoto spinto. Al centro dell’ampolla è sistemato un perno, si cui sono libere di ruotare delle palette costituite da una faccia colorata di nero e una di bianco. Il diverso assorbimento dell’energia radiante da parte di una delle due facce pone in rotazione il mulinello attorno al perno con velocità tanto più elevata quanto maggiore è la quantità di radiazione incidente.

25 L’alternativa deriva dal fatto che per un planetario meccanico non ha senso parlare di un globo di vetro.

26 Ovviamente i periodi sinodici, osservati dalla Terra, non coincidono con i periodi siderali.

27 Periodi sinodici. Con l’anno lunare di 354 giorni, e con l’aggiunta di 11 giorni, come intercalare, per appaiarsi all’anno solare. Ciclo di Metone per il raccordo luna – sole.

28 Il problema degli attriti era risolto dall’olio di lino, sempre fluido e poco sensibile al fattore dovuto al calore, mentre la chiusura del globo di vetro, posto sotto vuoto, impediva ovviamente la polvere. Il modellino fisicamente “geocentrico”, con la Terra immobile, però ruotante su se stessa, corrisponde alle concezioni di Aristarco, note ad Archimede, senza collidere col sistema orbitale dei deferenti. Il modello si fonda sul grande anno planetario ed ha come unità di misura il mese lunare. Il polo di rotazione è comune alla Terra e al cielo delle stesse fisse, dipinte sul vetro. Ovviamente la rappresentazione è approssimata, ma sufficientemente preciso il ritorno del corpo celeste sullo sfondo dell’eclittica (costellazioni zodiacali).

29 All’epoca di Archimede il vuoto relativo in un piccolo globo di vetro poteva essere ottenuto per aspirazione dell’aria riscaldata con una ventosa. L’esistenza dell’aria era già nota. Lo dimostravano il fumo e il respiro. Ovviamente l’aria residua fu eliminata dopo l’ultimazione del congegno, sigillando a caldo il foro di chiusura sul vetro. Nel trattato teorico sulla costruzione dei planetari meccanici, Archimede avrà determinato i periodi orbitali (intesi come periodi sinodici) in unità lunari secondo il ciclo di Metone. La nostra ipotesi non è assurda, sebbene si fondi sulle difficoltà tecniche a ottenere il vuoto d’aria sufficiente in un globo di vetro e sull’intuizione della pressione della luce.

30 Cicerone tradusse una parte del poema di Arato sugli astri.

31 Non si può escludere categoricamente che gli antichi conoscessero il principio della pila chimica, sebbene non avessero cognizione scientifica dell’elettricità. Come ricavarne una luce durevole da incandescenza?

32 Un sistema di 3 e poi di 4 equazioni indeterminate di Pell di secondo grado, a due incognite.

 

33 Il nostro esame non riguarda la soluzione matematica del problema ma la struttura ideativa e i riferimenti letterari implicati. Vedi “Archimede parte quarta”.

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