i segreti di Archimende2

I SEGRETI DI ARCHIMEDE parte 1°

Busto di Archidamo III, re di Sparta, considerato come busto di Archimede

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I SEGRETI DI ARCHIMEDE

(Dedicato al Gruppo Astrofili del Monte Subasio, a Paolo Fagotti scopritore della supernova 2012aw e al Presidente onorario del Gruppo, avv. Mario Rampini)

Abstract: Il 23 dicembre 1998il quotidiano La Repubblica, sezione Cultura, dedicò due pagine intere ad Archimede. Nel primo articolo si raccontavano le peripezie del palinsesto del metodo o codice C (S. Frau, Il manoscritto rapito), scomparso da Istambul sessant’anni prima, riapparso di recente in un’asta e acquistato per due milioni di dollari (al codice C di Archimede si erano interessati due studiosi italiani, Franco Minonzio e Tullio Viola), e si forniva anche la notizia che il palinsesto, studiato ai raggi ultravioletti e letto con le più raffinate tecnologie digitali alla Johns Hopkins University di Baltimora e al Rochester Insitute of Tecnology, stava tra l’altro restituendo l’immagine visibile di alcuni diagrammi originali che integravano il manoscritto. Di particolare interesse era le nuove ipotesi di calcolo combinatorio circa il frammento dello Stomachion. Concludeva il matematico Piergiorgio Odifreddi, che “ora capiremo i processi della sua mente”. Negli anni seguenti comparvero sui quotidiani La Repubblica e su La Nazione altri articoli dedicati ad Archimede (6 ottobre 2003 – 11 gennaio 2004 – 12 giugno 2005 su La Nazione). Uno tra gli studiosi italiani che è dedicato ad Archimede è Franco Acerbi, nel 2003 docente al Liceo scientifico L. Magrini di Udine. Nel 2001 uscì una bella monografia su Archimede a cura del Prof. Pier Daniele Napolitani, docente di Storia della matematica alla Statale di Pisa (Napolitani frequentò da studente il liceo classico Properzio ad Assisi), e nel 2007 è stato pubblicato un altro importante saggio, Il codice perduto di Archimede, di due studiosi di fama quali Reviel Netz e William Noel (Noel è il curatore della sezione Manoscritti presso il museo Walters di Baltimora).

Tenendo ovviamente separati gli altri aspetti della questione archimedea oggetto di studi specilistici di vario genere, all’incirca una decina di anni feci una scommessa con Pier Daniele Napolitanie con Franco Acerbi che esisteva un modo elementare per spiegare alcuni ‘segreti’ in Archimede e, in particolare, gli enunciati 14 e 15 del palinsesto sul Metodo, in cui si fa riferimento a due strani solidi geometrici, immaginati ad hoc: l’unghia cilindrica e il cilindro a croce. Archimede a mio avviso avrebbe cercato di trovare un ponte di passaggio dalla famiglia dei solidi spigolosi a quella dei solidi lisci (per esempio il volume del cubo e il volume della sfera). La vera “questione archimedea”, a suo tempo individuata da Attilio Frajese, il traduttore italiano di Archimede, consiste nei rapporti semplici che caratterizzano le sue scoperte in geometria. In questo mio pezzo, sfrondato da note, sono trattati in modo elementare, facendo a meno di studi specialistici che riguardano Archimede, alcuni problemi archimedei, ricorrendo alla c.d. “pensiero produttivo” della psicologia della Gestalt, come fase intuitiva elementare precedente alla rigorosa sistemazione del meraviglioso impianto dimostrativo del grande siracusano. Il procedimento da me seguito è interessante per il suo valore ‘conoscitivo’ di scorciatoia. Porto come esempi di pensiero produttivo o trasformativo una singolare ‘dimostrazione’ della terza legge orbitale di Keplero e un contributo originale sulla genesi ‘ideativa’ a tavolino del famosissimo problema bovino, giustamente attribuito ad Archimede. Il pensiero produttivo fu studiato negli anni ’30 del secolo scorso da Max Wertheimer, a proposito di Albert Einstein, ormai fuggito in America dalla Germania nazista, e più di recente da David Perkins, soprattutto a proposito di Leonardo da Vinci (pensiero “trasformativo”). Il problema del ‘mistero’ di Archimede era stato sollevato da uno storico della matematica, già docente a Roma, Attilio Frajese (voce “Archimede” del Grande Dizionario Enciclopedico U.T.E.T. Torino).

Non mancano, nel nostro modesto racconto, alcuni accenni storici, letterari e scientifici al mondo antico e al suo grado tecnologico. La figura di Archimede da me ricostruita si spiega come culmine del “pitagorismo italico”, conservatosi e sviluppatosi nell’enclave culturale delle colonie della Magna Grecia. L’esposizione per argomenti ha un carattere puramente didascalico, senza alcuna pretesa, ma non è del tutto sprovvista di un qualche valore o significato.

I trattati archimedei sono caratterizzati da un’impostazione dimostrativa serrata e rigorosa, ma il processo dimostrativo, che spesso si volge per assurdo, sembra derivare dalla certezza intuitiva già nota degli stessi risultati. Come faceva Archimede a sapere in anticipo ciò che poi riusciva a provare? Crediamo di aver offerto un contributo originale a questa domanda fondamentale. Ed è questo il significato e lo scopo di questi appunti, che vanno accolti così come sono, senza formali pretese. Il lettore interessato a quanto diremo per via potrà facilmente documentarsi su Archimede e tutto il resto ricorrendo ai numerosi siti presenti sul web che trattano molto bene, con ottime illustrazioni e spiegazioni, le varie realizzazioni tecniche e le opere teoriche di questo meraviglioso personaggio dell’antichità, giustamente leggendario. I nostri appunti vorrebbero, perciò, fornire uno stimolo alla curiosità e alla ricerca individuale, evidenziano alcuni aspetti singolari che non trovano posto nelle trattazioni di più elevato livello. Del resto la semplicità potrebbe essere apprezzabile per se stessa.

Ho suddiviso l’esposizione in più parti, per renderla di più agevole consultazione e per far sì che i lettori possano meglio individuare gli aspetti per loro di maggior interesse, evitando il ricorso a note e a riferimenti bibliografici non menzionati a testo. Avrei vinto la scommessa se il mio racconto avrà destato curiosità, perché anche le cose più grandi nascono da piccoli semi elementari.

Gli studenti delle scuole medie superiori, spesso spaventati dalla complessità che li sovrasta, si rendano conto che le vie di accesso al sapere, pur aumentando progressivamente, tuttavia derivano dalla curiosità e dall’immediata concretezza, rimanendo nell’ambito schiettamente umano del vivere in un modo fatto su misura. Archimede di Siracusa, che fu un genio della semplicità, era un artista del pensiero produttivo, riconoscendo la potenza dell’Essere come cosa divina. La sua Musa domestica conosceva anche il linguaggio comune degli esseri umani.

 

PARTE PRIMA

 

ARCHIMEDE E GALILEO GALILEI

NELL’ANNO ASTRONOMICO INTERNAZIONALE

 

1* L’anno 2009-2010 fu promosso dall’Unione Astronomica Internazionale Anno Internazionale dell’Astronomia proprio per ricordare il quattrocentesimo anniversario delle prime osservazioni del cielo, fatte da Galileo Galilei con un cannocchiale. Nel rigido inverno del 1609, quando si risolse di passare la maggior parte delle notti […] più al sereno et al discoperto, che in camera e al fuoco per scrutare il cielo col suo strumento di pochi ingrandimenti e di cattiva risoluzione ottica, Galileo era uno scienziato ormai maturo, prossimo alla cinquantina. Le prime osservazioni dei crateri lunari, ben distinguibili; di Giove, con i suoi 4 grandi satelliti in lento movimento nelle loro orbite, chiamati “Medicei” in onore dei signori di Firenze; di Saturno, non risolto nel suo brillante e magico anello, che sembrò dunque un pianeta trigemino, nonché delle macchie solari (che si potevano scorgere schermando l’obbiettivo al nero fumo), rovesciarono radicalmente la concezione dell’universo che aveva tenuto campo per due millenni, malgrado la teoria copernicana, pubblicata nel 1543, e gli studi astronomici di Keplero (la terza legge orbitale risale al 1604).

Il cielo dei dotti era quello del sistema geocentrico di Aristotele (IV sec. a.C.) e degli epicicli di Claudio Tolomeo (II sec. d.C.), autore dell’Almagesto, così chiamato dagli Arabi.

Il vescovo domenicano Ignazio Danti, che era nato a Perugia (1537-1586), dove in seguito, ma per breve tempo, risedette Galilei, come ricorda un’epigrafe perugina, a maggior ragione non poteva non appartenere alla schiera degli aristotelici, e, tuttavia, non si può nemmeno escludere che il Danti avesse letto il De Revolutionibus orbium celestium di Niccolò Copernico, fatto stampare da Retico, a Norimberga (Copernico ne ricevette un esemplare il giorno stesso della sua morte, avvenuta il 24 maggio del 1543).

L’opera di Copernico era stata sunteggiata nella bella lettera di prefazione a papa Paolo III Farnese (1534-1549). La chiesa avvertiva, già da tempo, per questioni liturgiche, l’esigenza di una riforma del calendario, come era stato, 16 secoli prima, nell’anno 46 a.C., per l’antico calendario di Numa Pompilio, che era luni-solare. Per decisione di Giulio Cesare, e con l’ausilio scientifico dell’astronomo alessandrino Sosigene, la riforma però era stata portata a compimento soltanto da Augusto, che fece costruire a Roma anche una grande meridiana.

L’Horologium o Solarium Augusti, realizzato con l’intervento di astronomi e matematici alessandrini, sorgeva accanto all’ara pacis, impegnando una vasta platea (metri 160 per 60). Lo gnomone della grande meridiana piana era un obelisco egiziano. Vitruvio aveva elencato 13 tipi di meridiane diverse. Una meridiana era stata predata a Catania dal console Manlio Valerio Messalla nell’anno 264 e quindi portata a Roma.

Ovviamente i romani vi leggevano un’ora sbagliata perché l’inclinazione dello gnomone non seguiva in questo caso il valore della latitudine del luogo.

Citando Varrone, che ne era la fonte, Plinio il vecchio quasi si vergogna dell’ignoranza astronomica dei romani. I greci conoscevano perfettamente la misura del tempo, mentre il prototipo di tutte le meridiane consisteva in una semplice ciotola sferica, contenente al centro un piccolo gnomone.

Lo gnomone è attribuito al genio di Aristarco, ma doveva essere un ritrovato antico dei maestri egiziani. Il cielo è come una ciotola rovesciata, e, dunque, s’intende il funzionamento della meridiana emisferica, trasportabile ovunque.

La complessità del ‘meccanismo’ astronomico ripescato nel 1900 sulle coste dell’isola di Cerigotto, conosciuto come la macchina di bronzo di Anticitera, risalente al primo secolo a.C., è tale da rendere quasi impossibile credere che simili strumenti fossero diffusi in epoca antica Ma siccome questo complesso meccanismo doveva indicare i moti del sole e della luna con le sue fasi, e forse serviva pure a indicare anche le date delle eclissi, si pensa che le sue funzioni fossero pressappoco le stesse dello strumento o sfera meccanica che Plutarco attribuisce ad Archimede.

Archimede aveva difatti costruito una sfera celeste e aveva scritto un’opera, purtroppo perduta, sulla costruzione di tali planetari. La sfera celeste di Archimede rimane un mistero.

Cicerone, nel De re pubblica (I, XIV, 22), riferisce alcune osservazioni contenute in un’opera perduta di Sulpicio Gallo, che aveva potuto vedere il planetario di Archimede nella casa del suo collega di consolato, Marco Marcello, che lo aveva ereditato dal nonno, il console Marcello, saccheggiatore di Siracusa nel 212 a.C. Come vedremo, bisogna però distinguere tra la costruzione di questi meccanismi e la teoria che vi presiedeva. Anche se in Archimede si riuniscono le due capacità: quella tecnica e quella teorica.

Sulpicio Gallo era stato colpito dal fatto che i moti ineguali delle rivoluzioni erano però raccordati in un unico periodo generale.1 Cicerone, nelle Tuscolane, tornerà a descrivere la sfera celeste di Archimede, cui abbiamo dedicato uno specifico paragrafo. Si attribuisce ad Archimede anche la costruzione di una grande meridiana. Simili imprese furono ripetute, e notevolmente migliorate, nell’età moderna (a Roma, a Bologna, a Parigi ecc.).

L’astronomo Owen Gingerich (Alla ricerca del libro perduto, Rizzoli, 2004) ha censito tutte le copie ancora esistenti del libro di Copernico, dimostrando con circa trenta anni di ricerche, che fu tra i testi più ignorati della storia: ma è possibile che Ignazio Danti lo avesse letto. Ignazio Danti costruì un eccellente astrolabio (conservato al Museo di storia della scienza di Firenze). Si occupò della traslazione dell’obelisco del Vaticano, e convinse Gregorio XIII a riformare il calendario, nel 1582, con un salto di 10 giorni, a partire dal 4 ottobre, ricorrenza della morte di San Francesco (ci si risvegliò l’indomani, che era il 15 ottobre).

Nel XV secolo i capostipiti della genealogia di Ignazio Danti – Pier Vincenzo e Giovanni Battista Rinaldi – furono valenti matematici, fisici e poeti. Per una sorta di affinità col grande poeta fiorentino, i Rinaldi furono ribattezzati Danti.

Si dice che Giovanbattista avesse costruito addirittura un marchingegno che lo rendeva in grado di volare. Una specie di ali piumate, da adattare al corpo, con le quali avrebbe sperimentato un volo – non troppo pericoloso – sul lago Trasimeno (le leggende non riguardano soltanto Archimede o Leonardo da Vinci). E’ interessante che sia stato proprio Ignazio Danti a curare, a Firenze nel 1573, una edizione dell’Ottica di Euclide, pubblicandola insieme a un’operetta di confutazione, che il Danti attribuiva a Eliodoro di Larissa (La prospettiva), che però risalirebbe al IV secolo d.C. Qui si legge che Erone, nel libro degli specchi, aveva individuato il principio ottico della minima azione. Vengono, altresì, ricordate la Catrottica di Erone e l’Ottica di Claudio Tolomeo.

Altri valenti costruttori di strumenti astronomici e abili osservatori di Saturno furono i tra fratelli Campani originari della Valnerina e poi trasferitisi a Roma.

Dopo le osservazioni di Galilei, nell’inverno 1609-1610, che il cannocchiale rendeva ormai evidenti, non esisteva più, in alto, quella supposta perfezione di cui, sulla Terra, non c’era mai stata traccia. Quella dei cieli era una perfezione ideale, malamente intesa, risalente ad Aristotele. Adesso non c’era più alcuna distinzione tra ciò che sta in alto e ciò che è in basso, perché – nelle immensità celesti – non c’è un alto e un basso, ma soltanto l’azione misteriosa della forza di gravità, come dimostrerà poi Newton nei Principia, pubblicati in prima edizione nel 1686, ma le cui dimostrazioni orbitali erano soltanto di tipo geometrico. Materia indubbiamente appassionante, la storia dell’astronomia; ma qui dobbiamo occuparci di Archimede, per segnalare – subito – che i trattati di Newton, Ottica compresa, non si discostano troppo dal metodo espositivo delle opere a noi pervenute del grande Siracusano.

2* Galileo si mise in contatto con Keplero, annunciandogli le sue scoperte, con un famoso anagramma, che il destinatario non seppe risolvere. Ciò gli serviva per fissare il primato delle sue scoperte. Pubblicò nel 1610 il Sidereus nuncius, divulgando ai dotti le grandi scoperte. Da qui iniziava quel percorso rivoluzionario che porterà con Keplero e con Galileo alla formulazione della rotazione diurna della Terra e della rivoluzione annuale della Terra intorno al Sole (eliocentrismo già presagito da Aristarco, ma probabilmente con orbite circolari, e non ellittiche).

Che la terra si muovesse intorno al sole nel corso dell’anno comportava che dovesse ruotare su se stessa nell’arco di un giorno. Inoltre, l’alternarsi delle stagioni, si poteva spiegare soltanto con l’inclinazione dell’asse terrestre. La terra era dunque una trottola. Galileo ne cercò invano la prova irrefutabile, lui che aveva notato per primo le oscillazioni del pendolo, però senza farsi venire in mente l’idea vincente del pendolo di Foucault. “Eppur si muove”, la celebre frase attribuita a Galileo, non aveva evidenze percepibili, se non in base alla teoria orbitale di Keplero, ricavata dallo studio delle stranezze orbitali di Marte già rilevate da Tycho Brahe, gradissimo osservatore del cielo, di cui Keplero ebbe la fortuna di essere allievo ed erede.

La Terra ormai non era più il luogo centrale del cosmo, come nel sistema astronomico di Ipparco (II sec. a.C.) e poi di Claudio Tolomeo (II sec. d.C.).

Molto probabilmente, la concezione geocentrica era propria delle stesse concezioni Archimede, espresse nell’Arenario o Pasmmites, anche perché il grande Siracusano aveva costruito una “sfera celeste” ovvero un planetario in miniatura, nel quale la terra doveva occupare la posizione centrale, in luogo del sole. Tuttavia Archimede era a conoscenza dell’ipotesi eliocentrica di Aristarco, e sapeva anche che le stelle erano oggetti lontanissimi, di cui non si poteva stimare la parallasse con le misurazioni di quell’epoca.

Cosa ‘sospingeva’ le orbite planetarie (chiamate sfere) a ruotare? Quale forza o potenza le sosteneva incessantemente, nelle loro orbite? L’idea della forza di gravità (forze centrifughe e centripete, contrapposte e in equilibrio tra loro), era probabilmente alla portata della mente geniale di Archimede, come lo fu per Seleuco di Babilonia (Seleucia, città posta sul Tigri), grande astronomo eliocentrico, studioso altresì delle maree.

L’ipotesi eliocentrica di Aristarco, citata da Archimede nell’Arenario, fu poi accusata dallo stoico Cleante di empietà, per aver turbato il riposo di Estia, cioè la Terra.

Storie che si ripeteranno con Copernico e con Galileo. L’empietà della scienza non è quella della sua “verità” prometeica, che è sempre progressiva, e mai assoluta; bensì, oggigiorno, potrebbe consistere nel cattivo uso che se ne può fare e nella superbia del sapere. In questo senso, gli antichi erano più morali e più cauti, molto saggiamente.

L’arcaico tempio di Vesta a Roma (Estia o Istia: dea del focolare, discendenza femminile da Cronos) dove, all’epoca di Augusto, il poeta dei Fasti, Ovidio, ebbe modo di ammirare la “sfera celeste” di Archimede (VI, 249 segg.), era anche il tempio di Virtus, nel senso che l’antica aedes circolare di Vesta (presente altresì ad Assisi, nella parte alta della città, accanto alla porta d’ingresso a un bosco sacro, quasi sulla sommità del colle), era riferita a una condizione di forzata immobilità (vistat), nell’ambiguità però reciproca tra sole e terra, giacché Vesta era la custode del fuoco sacro. Il mito o culto del focolare pubblico è spiegato come vigilanza esercitata dalla sacerdotessa sulle sorti e la durata della collettività stanziale, ma non può escludersi anche un componente d‘altra natura, legata al rapporto salutare sole-terra. Aso, nelle tavole di Gubbio, il monumento linguistico dell’antico umbro, ha il significato di calore, fuoco. Il “nomen” di Assisi, contrariamente all’etimologia che le attribuirebbe probabilmente un collegamento con l’acqua (cioè: as-assa) e/o con altura, “piccolo monte”, luogo elevato, potrebbe invece rimandare ad Asu, che in accadico significa sole (in tal senso, forse, l’Ascesi di Dante Alighieri nel canto XI del Paradiso, col significato simbolico e spirituale del sorgere del sole).

3* Una generazione prima di Archimede, Aristarco di Samo, (collega, professionalmente parlando, del padre di Archimede che molto probabilmente era un astronomo), aveva postulato il sistema eliocentrico e di ciò è notizia anche in un’operetta di Plutarco, La faccia della Luna. Plutarco, nell’ottava delle sue Questioni platoniche, così scrive: forse sideve intendere la terra non rimanere fissa, il primo (cioè Aristarco) supponendolo soltanto, il secondo (cioè Seleuco) anche affermandolo.

Eraclide Pontico, discepolo pitagorico di Platone, aveva rifiutato il canone della concentricità delle orbite planetarie, alludendo all’ipotesi della rotazione della terra, che tuttavia abbandonò in seguito, per questioni di pura indole geometrica (forse si trattava della stessa critica del “punto geometrico” che Archimede nell’Arenario rivolge ad Aristarco).

Iiceta ed Ecfanto, astronomi pitagorici di Siracusa, verso la fine del V secolo e l’inizio del IV, avevano già teorizzato l’eliocentrismo. A maggior ragione non poteva sfuggire, ad Archimede, questa teoria, che si fondava sull’imponenza del sole, di cui però per prima cosa occorreva stimare la grandezza relativa ovvero la distanza. Il triangolo Sole – Terra – Luna (col sole che illuminava la Luna e la Terra), era un dato certo, che andava razionalizzato e inquadrato.

Nell’Arenario, Archimede non respinge – per se stessa – l’ipotesi eliocentrica di Aristarco, contenuta in un’opera purtroppo perduta, ma neppure sembra volerla accogliere. A lui, in quel dato contesto, interessavano soltanto le dimensioni relative del Sole, della Luna e della Terra, e, soprattutto, quelle del Cosmo.

Archimede aveva aggiornato le stime fatte da suo padre, che si chiamava Fidia, che a propria volta aveva aggiornato quelle di Aristarco (Fidia e Aristarco dovevano essere contemporanei). Tutto dipendeva dalle dimensioni della terra, cioè dal suo diametro, ma gli antichi astronomi non avevano compreso che l’angolo formato dal sole, dalla terra e dalla luna, quando quest’ultima transita in meridiano nella sua fase di ‘medietà’, si discostava di pochissimo da un angolo retto. Pertanto non avevano afferrato che la distanza del sole dalla terra era molto più grande.

La stima di Aristarco era dell’ordine di 380-1500 raggi terrestri, mentre in realtà essa si pone nell’ordine di 20 mila raggi. Gli astronomi greci avevano stimato abbastanza bene la distanza terra-luna, ma per stabilire le rispettive grandezze occorreva stimare la grandezza della terra, che Archimede aveva sopravvalutato di almeno 10 volte (vedremo in seguito gli sviluppi di tale faccenda, fino alla misurazione di Eratostene, che dovrebbe risalire a verso il 230, dieci anni dopo l’Arenario).

Il Siracusano aveva scritto anche un trattato teorico (perdutosi nei secoli) sulla costruzione o ideazione dei planetari, e quella “sfera celeste” che egli aveva materialmente fabbricato, per poter funzionare, doveva essere un congegno di tipo geocentrico. Lo garantiscono le descrizioni a noi pervenute (Cicerone, Ovidio, e il poeta del IV sec. d.C., Claudio Claudiano).

I Romani, che avevano espugnato Siracusa nel 212 a.C. col console Marcello, la portarono come preda bellica a Roma, e questo planetario, o globo celeste (arte Syracosia suspensus in aere clauso), venne ammirato da Ovidio nel tempio di Vesta dove era stato appeso ad una trave. Altre notizie, che sembrano trovare alimento in menzioni dovute a Pappo e a Diocle, tendono ad attribuire ad Archimede anche la costruzione di un telescopio a riflessione, 19 secoli prima di Newton, il quale ultimo confessa, però, d’essersi arrampicato sulle spalle dei giganti. (Newton fu un autore esoterico, i cui scritti segreti superano di gran mole quelli da lui pubblicati e che lo resero famoso, come appunto scoprì a Cambridge il famoso economista Mainard Keynes negli anni ’30: gli scritti segreti di Newton riempivano un baule intero).

I pitagorici erano eliocentrici, sebbene sprovvisti di ogni principio fisico che potesse giustificare la rotazione terrestre, la cui ricerca occupò a lungo e invano lo stesso Galileo.

Galileo era un matematico di talento e uno scienziato sperimentale dotato di grandissimo acume. Il suo metodo rivoluzionò la fisica e introdusse direttamente all’età scientifica moderna. Ciò non toglie che lo scrupolo sommo di Platone fosse sempre stato quello di “salvare i fenomeni”. Tra l’altro, il primo modello eliocentrico risaliva proprio ai pitagorici.

Archimede, che sull’eliocentrismo non si pronuncia chiaramente, riportando tuttavia l’ipotesi eliocentrica formulata dal grande Aristarco, aveva stimato con metodi astronomici le dimensioni della Terra, respingendo la misura di 300 mila stadi probabilmente dovuta a Dicearco, con una sua valutazione che sarebbe stata dieci volte maggiore (3 milioni di stadi), sebbene sia possibile pensare al refuso di un copista o a un accidente del genere.

In seguito (dopo l’anno 240 al quale dovrebbe risalire l’Arenario), Archimede si sarebbe corretto, giacché Marziano Capella (autore latino del IV secolo d.C.) riporta l’interessantissima notizia che la misura e valutazione di Archimede sulla circonferenza della terra era invece di 408 mila stadi, mentre quella di Eratostene, risalente all’incirca all’anno 230 a.C, era di 252 mila stadi, ma con un valore probabilmente inferiore per lo stadio greco, che non era più di 187 metri, ovvero 122 piedi, ma a quanto pare di 157, 50 metri. Tolomeo rifarà il calcolo (è da ritenere però che Tolomeo, autore di circa mezzo millennio dopo, più che un vero astronomo, fosse uno studioso di carte antiche e di antiche mappe e cataloghi), e i valori da lui forniti avrebbero ingannato, e parimenti favorito, Cristoforo Colombo (ma la questione è assai incerta e intricata, a riprova del fatto che le conoscenze segrete degli antichi non coincidevano con quelle ufficialmente divulgate, vuoi pure anche per ragioni politiche o altro).

Marziano Capella sembra contraddirsi, da un libro all’altro della sua opera letteraria (Le nozze di Filologia e Mercurio), ma indubbiamente attribuisce ad Archimede una misurazione assai più ridotta delle precedenti stime, presenti nell’Arenario. Il dato di 408 mila stadi riportato da Marziano Capella è molto interessante ai nostri fini, perché finisce per scaricarsi su una possibile interpretazione alternativa del terribile problema bovino, sempre attribuito ad Archimede.

A questa citazione di Marziano Capella farebbe riscontro un passo piuttosto confuso, e tuttavia molto interessante, di Teone di Alessandria, a commento dell’Almagesto di Tolomeo. Per dimostrare che malgrado le più alte montagne, la terra è quasi una sfera liscia, data la sua grandezza, Teone chiamava in causa la misura del cerchio di Archimede (cioè il valore da lui calcolato per il “pigreco” in un rapporto ricompreso tra 22 /70 e 22 /71), e, quindi, passava ad accennare alle operazioni di stima effettuate da Eratostene con una “diottra” (che esisteva già prima di Erone).

Siccome Tolomeo aveva assunto, contrariamente a Eratostene, che la circonferenza terrestre era di 180 mila stadi, allora il diametro terrestre deve essere di 57.272 stadi. Per fare questo calcolo elementare, Teone adoperava un prolisso discorso, che qui tralasciamo.

Ciò che invece interessa è la notizia di Teone, che Eratostene, servendosi di una diottra, avrebbe stimato le altezze delle montagne, a quanto parrebbe, per valutare la rotondità stessa della terra.

Eratostene (rectius: i suoi geometri) avrebbe(ro) agito così: mirando la vetta di una montagna elevata, o di un alto picco isolato, nota la distanza e l’altezza in gradi, rilevata con la diottra, intendevano stimare la verticale di quel rilievo montuoso, la sua altezza, in base a una tavola trigonometrica pre-calcolata.

In tal modo potevano ottenere una rozza stima della profondità dell’orizzonte, e, perciò, della curvatura terrestre. Tale operazione di misurazione permetteva in qualche modo di stimare anche l’estensione ottica dell’orizzonte marino. Era risaputo che la terra fosse rotonda, e non occorreva certo Aristotele per affermarlo. I marinai antichi ne erano perfettamente consapevoli. Ma apparve necessario conoscere la circonferenza della terra, per fondare una geografia scientifica, di cui Omero era considerato il precursore.

La geografia omerica, espressa nei suoi poemi, comportò – in seguito – gli interessi geografici ed etnografici di Erodoto, e di tanti altri, fino a Dicearco, sottinteso da Archimede nell’Arenario, che sarebbe stato – perciò – il primo a stimare la circonferenza terrestre, con una misura abbastanza vicina alla realtà.

Tuttavia è possibile che le prime stime sulla grandezza della terra risalgano all’epoca faraonica, anzi è molto probabile, e che dunque Eratostene si siaispirato alla medesima metodica. Lo spunto è puramente indiziario, al riguardo non esiste alcuna notizia antica.

Invece, per quanto riguarda le misurazioni della terra a partire da Eratostene, rimandiamo ad un bellissimo e accuratissimo lavoro scientifico del Prof. Giorgio Dragoni dell’Università di Bologna (Eratostene e l’apogeodella scienza greca, Clueb, 1971), e a due libri di Denis Guedj (Il metro del mondo, Longanesi, 2000; La Chioma di Berenice, Longanesi, 2003, però in forma di romanzo).

4* Aristotele si era sbagliato due volte: sia il cielo, che la terra stessa, non rispondevano per niente alle sue teorie filosofiche metafisiche, non suffragate sperimentalmente. Quest’aspetto, nella sua “fisica”, era veramente abbastanza strano, poiché la più elementare constatazione balistica, quella di una freccia scagliata dall’arciere contro un bersaglio fisso oppure mobile, indicava già chiaramente all’occhio, che la traiettoria era una parabola (cioè una sezione conica, peraltro già nota ai pitagorici, accanto all’ellisse).

E’ vero che non conosciamo l’Aristotele autentico, infatti molte delle sue opere sono appunti di studenti, compilazioni e trascrizioni, e che è dunque possibile, sebbene improbabile, che il Maestro sia stato male inteso e peggio divulgato, ma non c’è dubbio che la teoria del cielo fosse completamente sbagliata. Il geocentrismo aristotelico rifletteva il principio apodittico dell’immobilità assoluta della terra, a prescindere dalla distanza del sole, tuttavia considerato in un ordine di grandezza paragonabile a quello della terra e della luna. Ma rimane inspiegabile – ed è pertanto falso – che non avesse presente il moto parabolico, del tutto evidente. La tendenza “naturale” dei gravi a cadere in basso, verso il centro della terra, imponeva un ragionamento distintivo tra la pietra lasciata cadere e la freccia scagliata, basato sull’impulso meccanico dell’arco teso dall’arciere. Quindi le “componenti” del moto in due “vettori” doveva essere presente ad Aristotele e agli antichi. La geometria greca, idealizzata, è considerata ‘immobile’, priva di tensione, ma questa è un’errata percezione di moderni, fondata sui Principia di Euclide, che fu un ‘sistematore’ geniale e che non ci è ugualmente pervenuto in originale.

Lo studio geometrico delle sezioni coniche era in realtà molto più fine e più acuto, negli scopi non immediatamente evidenti e direttamente dichiarati. Le sezioni coniche contengono per implicito il movimento. Anzi, è questo il loro necessario presupposto. La statica greca ha occultato a dinamica. Da qui la supremazia dell’ideale di perfezione che sovrastava spazio e tempo, ovviamente non potendo negare i concreti fenomeni della mutevolezza nel tempo e nello spazio.

5* I pitagorici si erano interessati alle sezioni coniche, come banco di prova per le proprietà dello spazio geometrico, e i grandi geometri ellenistici, come Apollonio di Pergamo, possedevano già gli elementi geometrici fondamentali che trovarono infine corretto impiego nella nuova astronomia di Keplero 18 secoli dopo. Faceva a loro difetto un’adeguata comprensione della dinamica, invogliati – com’era appunto Archimede – a concezioni ideali di tipo statico.

L’equilibrio delle forze era un principio invariante della fisica di Archimede, in base, appunto, ai due trattati che, al riguardo, ci sono giunti, sull’equilibrio dei piani e sui galleggianti, molto studiati dal giovane Galileo (il Ricci, suo maestro, aveva fatto omaggio al promettentissimo allievo della copia trascritta di un codice archimedeo).

Keplero fu il primo a comprendere che le orbite planetarie dovevano essere ellittiche. Soltanto l’osservazione era decisiva. Galileo studiò la parabola delle palle di cannone e la caduta dei gravi. La sua grande scoperta fu che la velocità di caduta non era proporzionale al peso dei corpi. Galileo aveva dunque scoperto un altro invariante fondamentale della fisica, sulla scia ideale e concettuale del grande maestro di Siracusa, che avrebbe potuto giungere alla medesima conclusione.

I pianeti ruotavano intorno al sole. Era questa l’ipotesi di Aristarco, che aveva trovato, con Seleuco, migliore espressione. Le orbite planetarie erano considerate circolari. Forse le stelle fisse erano lontanissime. Ma l’orbita di Marte non poteva essere tale secondo certi dati osservativi. Se si può dire che con Galileo e Keplero sia nata la scienza moderna nel XVII secolo, portata poi avanti da Newton e da altri, questa nuova età era pur sempre debitrice ad Archimede, vissuto ben 19 secoli prima. La rivoluzione scientifica moderna partiva di nuovo dai suoi trattati, anche se – adesso – stava nascendo la nuova scienza della dinamica.

Archimede era stato uno scienziato rigoroso, le sue opere e la sua fama erano un grande esempio. Nell’Anno Internazionale dell’Astronomia non si può ignorare la memoria di Archimede, che non solo fu un grandissimo matematico e uno straordinario scienziato applicativo, ma fu anche un valentissimo astronomo.

Citando correttamente Aristarco, Archimede nell’Arenario non aveva criticato la sua ipotesi, lasciandola per così dire in secondo piano. Ad Archimede interessava soltanto dimostrare che i granelli di sabbia sono numerabili e che allo stesso modo è intellegibile anche la grandezza del Cosmo. L’Universo era considerato finito, un rotondo sfero. Nell’Arenario tutto ciò è implicitamente presupposto.

Il modello geocentrico fu accolto dagli antichi per via dell’equivalenza pratica tra l’uno e l’altro sistema. In fondo era indifferente per le esigenze geografiche e per la navigazione in alto mare. Pertanto, anche la “sfera celeste”, costruita da Archimede (descritta da Cicerone, da Ovidio, e, alcuni secoli dopo, dal poeta latino Claudio Claudiano, che era nato ad Alessandria d’Egitto), poteva rimanere come modello geocentrico. E se Archimede avesse, o meno, costruito un telescopio a riflessione, munito di specchio parabolico di rame o bronzo, e di un deviatore con lente ingrandente, per la lettura dell’immagine formatasi per riflessione sul fuoco ottico, sebbene di tale invenzione non si abbia alcuna notizia antica, non si può però negare che l’esistenza della Catrottica archimedea è testimoniata anche da Teone nel suo commento all’Alamgesto di Tolomeo, e, come indica Diocle, che Dositeo, corrispondente di Archimede, allievo principale e poi successore di Conone a Canopo, aveva compiuto studi sugli specchi parabolici, che tra l’altro potevano essere già stati utilizzati per il grande faro di Alessandria voluto da Tolomeo I Soter (le descrizioni antiche del faro non lasciano ben comprendere come la luce dei fuochi potesse essere riflessa a grande distanza marina, mentre la monetazione romana mostra il faro con tali fuochi, che potrebbero essere però il rimedio spiccio per una situazione ben più complessa, venuta meno nel tempo: appunto, gli specchi parabolici).

6* La cosa più sorprendente è che nell’aition famoso di Callimaco sulla Chioma di Berenice (ripreso con fedeltà da Catullo nel carme 66 mentre dell’originale callimacheo possediamo soltanto dei frammenti), si parla della grande scoperta di Conone, grande amico di Archimede, di una minuscola e apparentemente insignificante costellazione, che prese appunto il suo nome dalla regina Berenice in virtù dei suoi riccioli votivi, sacrificati in un tempio per il ritorno incolume del marito da una guerra.

In questa costellazione poteva essere apparsa una stella nova con suoi filamenti, come ha ipotizzato nel 1983 il Prof. Giorgio Dragoni. Ma in tal caso si dovrebbe altresì immaginare, e questo lo aggiungiamo noi, che la scoperta di Conone sia stata effettuata mediante l’ausilio di qualche strumento ottico, ipotesi alquanto impervia e difficile, ma tuttavia non impossibile da sostenere, come vedremo in seguito (la storia del cannocchiale rimane alquanto oscura, sebbene è sicuro che Leonardo avesse tentato a Roma, aiutato da un matros vetraio tedesco, di costruirne un esemplare, ma senza riuscirvi).

Nella Catrottica, che gli viene attribuita da Teone (opera che è andata perduta insieme a tante altre), non è affatto improbabile che Archimede avesse trattato degli specchi parabolici, il che condurrebbe a ritenere non infondata la notizia, risalente a Diodoro Siculo e a Dione Cassio, riportata da Luciano, e, in seguito, confermata da Michele Zonara e da Giovanni Tzetze, che durante l’assedio di Siracusa almeno una volta egli avesse impiegato, contro le navi romane del console Marcello, degli “specchi ustori” esagonali, sotto il solleone nella torrida estate dell’anno 213 a.C.

NOTIZIE SU ARCHIMEDE E SU SIRACUSA

1* Archimede nacque a Siracusa. Si pensa, verso l’anno 287 a.C., dato che – secondo quanto afferma Giovanni Tzezte – sarebbe morto all’età di 75 anni.

In ogni caso, anche secondo Polibio (la fonte temporalmente più vicina ad Archimede), egli aveva diretto la difesa di Siracusa assediata dai Romani, quando ormai era già vecchio, nei frangenti della seconda guerra punica.

La data di nascita nel 287 viene dunque presa per buona. L’anno della morte è cronologicamente certo. Se fu veramente ucciso dai romani, allora ciò avvenne al momento della caduta di Siracusa.

Non esiste alcuna biografia di Archimede, ma soltanto notizie su di lui, sparse qua e là nelle fonti antiche. Una vita di Archimede era stata indubbiamente scritta da un certo Eraclide, il nome di un suo allievo, e quest’opera era ancora presente a Eutocio di Ascalona, nel VI secolo d.C. Non è da escludere che a tale fonte antica si siano ispirati gli autori che in seguito parlarono di Archimede, Cicerone compreso.

Apuleio definì Archimede in tutte le discipline matematiche superiore a tutti e ammirevole per acutezza di mente. Zonara (nel XII secolo d.C.) lo chiama artefice celeberrimo. La celebre fama di Archimede concerneva la scienza teorica e le applicazioni pratiche. Ma, Archimede, fu persino un grande astronomo e un grande fisico. Eudosso di Cnido, matematico e astronomo dell’Accademia di Platone, è precedente di almeno una generazione ad Archimede, che invece segue di poco Euclide e Aristarco. Siamo nel pieno del più glorioso periodo della scienza antica, non così lontano dalla rivoluzione scientifica di Copernico, di Galileo e di Keplero.

Archimede fu intimo e sincero amico ed estimatore del grande astronomo greco-egiziano Conone, rimanendo a lungo in contatto con Dositeo, suo successore all’osservatorio di Canopo, e fu altresì in rapporti epistolari con Eratostene di Cirene e con gli altri matematici alessandrini. Tutto ciò, restando a Siracusa, che evidentemente non voleva abbandonare, diversamente da tutti gli altri, sia scienziati, che letterati, tra i quali il poeta greco Teocrito, che accorrevano ad Alessandria dove, appunto, si trovavano il famoso Museo e la grande Biblioteca.

Nel 246 Conone aveva scoperto la nuova costellazione, mentre Eratostene (che era diventato il bibliotecario, succedendo – come oggi sappiamo per certo – ad Apollonio Rodio, quando s’insediò il nuovo regnante, Tolomeo III, detto l’Evergete). Probabilmente, verso l’anno 230, poco prima di morire, Conone aveva misurato la circonferenza della Terra, insieme ai suoi allievi astronomi e matematici. Il metodo di Conone divergeva da quello poi impiegato da Eratostene, la cui grandezza e perizia sul piano scientifico e astronomico è stata notevolmente esagerata, sebbene il famosissimo risultato della misurazione della circonferenza e del raggio terrestre porti giustamente il suo nome come coordinatore della meravigliosa impresa.

Ai tempi di Archimede, Alessandria d’Egitto era divenuta la capitale delle arti e delle scienze antiche. Fiorita sotto i Tolomei, Alessandria era stata fondata da Alessandro Magno. La modernissima e popolosa città (sorta alle foci del Nilo e dotata anche di un doppio porto), ospitava il Museo e la Biblioteca, due famosissimi centri culturali voluti dalla casa regnante e annessi ai palazzi regi.

La nuova città era sorta sull’isola di Faro, ricordata in un passo dell’Odissea: L’una delle isole sorge fra gli alti flutti del mare, / dinanzi al fiume d’Egittoe Pahrus hanome (IV, 355).

A parte la leggenda che riguarderebbe il nome di Pharos, con la fondazione di Alessandria nasceva una nuova civiltà, chiamata “ellenistica”, per distinguerla da quella ateniese, di cui aveva però ereditato gli influssi.

Archimede soggiornò per un certo periodo in Egitto. Molto probabilmente si era perfezionato negli studi ad Alessandria, qui legandosi di grande amicizia con Conone. Sembra, infatti, che la famosa “vite di Archimede”, o coclea, sia stata inventata per certi lavori di bonifica lungo il Nilo. Pare, inoltre, che Archimede avesse lavorato in Egitto per definirvi il catasto reale e per altri lavori a riguardo del canale, che in età moderna diverrà il canale di Suez.

Altre notizie, alle quali fece eco Leonardo da Vinci, inducono a ritenere una presenza di Archimede in Spagna, per certe estrazioni minerarie. Le miniere spagnole venivano ripulite dall’acqua che le invadeva, tramite la “coclea”di Archimede, che la portava in superficie, così prosciugandole.

Archimede fu soprattutto un “siracusano”. Doveva essere un vero caposcuola, ma la scuola da lui diretta, e, si deve immaginare, con tanto di aiutanti e di sovvenzioni regie, era alquanto diversa da quella di Alessandria, che invece era stata organizzata alla grande, in modo ufficiale e istituzionale. A Siracusa permaneva la tradizione pitagorica, estranea al nuovo mondo ellenistico.

A Siracusa Archimede compose tutte quelle opere che ci sono pervenute (12 in tutto), e qui concepì e impiegò le sue mirabolanti macchine da guerra e i suoi ritrovati. Indagheremo su questi misteri. Ma, anche la morte, di Archimede rimane alquanto oscura. Fu ucciso dai romani per errore o fu assassinato per vendetta? Dovendo scegliere tra le due possibilità, posto che la prima versione ha troppe varianti nelle fonti romane che ne accennano, riteniamo che Archimede sia stato eliminato per vendetta dai Romani vincitori. Egli era stato il loro peggior nemico.

Col saccheggio romano di Siracusa sparirono anche le altre opere e tutti i ritrovati di Archimede, a eccezione della sfera celeste, che presumibilmente doveva ornare il tempio di Atena, in cui Archimede aveva allestito anche una grande e meravigliosa meridiana.

2* Siracusa, che per un certo periodo fu la più grande città del mondo antico, e forse anche la più ricca, era una colonia greca, fondata dai Corinzi. Il primo insediamento corinzio si stabilì nell’isoletta di Ortigia (isola delle quaglie), vicinissima alla costa, in seguito collegata alla terraferma con un istmo artificiale.

La limpidissima fonte Aretusa sgorgava a Ortigia. Qui si trovava il Lakkios, l’attuale porto piccolo. Dall’isola delle quaglie, l’abitato greco si estese sulla terraferma, dando così vita ai grandi quartieri di Achradina (luogo del pero selvatico), Tyche (la buona sorte), ed Epipole (il belvedere), divenendo anche un grande scalo marittimo. La possente fortezza di Eurialo la difendeva sul lato opposto al mare. Famose erano le “latomie”, dette anche orecchio di Dionisio, grandi cave di pietra poi trasformate in prigioni.

All’epoca di Archimede Siracusa manteneva intatte la sua gloria, la sua fama, la sua potenza e la sua ricchezza, sebbene insidiata dai Cartaginesi e poi dai Romani. All’epoca delle guerre persiane, sotto il re Gelone, Siracusa era già una potenza navale. In seguito si trovò ad affrontare i Cartaginesi che avevano mire sulla Sicilia. Nel 474 si svolse la grande battaglia navale di Cuma in cui gli etruschi furono sbaragliati. Dal 405 al 367 a.C. Dionisio I il vecchio divenne il tiranno della città assumendone i pieni poteri. Gli successe il figlio Dioniso II, detto il giovane, che tenne Siracusa dal 367 al 344. In quest’epoca Platone si recò per tre volte in Sicilia, sperando che a Siracusa potesse realizzarsi quel governo dei sapienti o dei custodi, da lui teorizzato nella Repubblica.

Successivi sviluppi politici, dopo la presa del potere da parte di Agatocle nel 317 a.C., portarono nel 275 all’egemonia di Gerone II (è questo il periodo di Archimede), che poco prima del 240, associò al trono il figlio Gelone, che gli premorì, col nipote Geronimo che, nel 215, successe infine al nonno.

Data la giovane età Geronimo, il monarca fu posto sotto un consiglio di reggenza. Intanto le vicende della seconda guerra punica si erano trasportate in Sicilia e i due generi di Gerone II, Adranodoro e Zoippo, che adesso facevano parte del consiglio di reggenza, cominciarono a congiurare contro il giovanissimo Geronimo. Adranodoro s’impadronì del potere, stipulando un patto con i Cartaginesi, in funzione antiromana. Ma dopo appena un anno di governo fu deposto (214 a.C.).

Nel 218 era incominciata la seconda guerra punica, che durò fino al 202. Gerone II era sempre stato amico dei Romani. Con la sua morte, l’alleanza fu rovesciata. Siracusa si era ormai messa dalla parte dei Cartaginesi di Annibale, e i Romani, guidati dal console Marco Claudio Marcello, la cinsero d’assedio, per terra e per mare.

La strenua resistenza di Siracusa, fortificata da mura possenti e difesa dai formidabili ritrovati di Archimede, impedì agli assedianti di conquistarla, ma scoppiò una sommossa interna, capeggiata dagli esponenti filo-romani. Erano stati eletti nuovi strateghi, tra questi un certo Ippocrate. Uno di loro s’accordò di nascosto con Marcello, favorendo – con l’inganno – la conquista di Ortigia.

Dopo di che, caddero uno a uno tutti gli altri quartieri, e anche il potente castello di Eurialo fu espugnato.

Le fonti romane parlano della grande astuzia del console Marcello, ma si trattò di un tradimento interno, abilmente sfruttato dai Romani. Da quel momento Siracusa cessò di essere un libero stato. Il bottino romano fu immenso. Secondo Tito Livio (Storie, XXVI, 31), e secondo Plutarco (Vita di Marcello: ma Plutarco non ne era troppo convinto, e, difatti, presentò tre versioni diverse), infine secondo Valerio Massimo (Detti e fatti memorabili, VII,7,7), sembra che un legionario romano abbia ucciso Archimede, allora settantacinquenne (lo afferma anche Tzetze), ma in ogni caso già su cogli anni, mentre era intento – a casa sua: sic – a disegnare figure geometriche.

Moriva, con lui, l’ultimo grande scienziato dell’occidente greco, che si diceva fosse posseduto da una Sirenao dalleMuse. A nulla era valsa la sua estrema perizia nella “poliorcetica”, l’arte delle macchine da guerra, favorita e stimolata da Gerone II anche in tempo di pace, che s’inquadrava nelle nuove tecnologie d’età alessandrina. Tecnologia d’avanguardia, per quei tempi, che era stata introdotta da Demetrio Poliorcete, ma che i Romani non avrebbero ben assimilato, se appunto Vegezio (autore dell’età del prossimo crollo dell’impero romano, di un famoso trattato sull’arte militare) la ignora del tutto. La disponibilità di tali tecnologie militari non risparmiò il progressivo declino del regno tolemaico in Egitto, se dopo le guerre puniche Roma divenne, in breve tempo, padrona del Mediterraneo, conquistando prima la Macedonia e poi la Grecia. Archimede è Siracusa. E Siracusa era la metropoli greco-italica per eccellenza. Se di ciò non si tiene conto, sfuggirà anche la personalità del grande siracusano, ammirato e temuto dai romani.

3* Un oscuro poema ‘profetico’ in trimetri giambici, l’Alessandra, attribuito a Licofrone di Calcide (chissà se quello della Pleiade, che fiorì sotto Tolomeo II, detto il Filadelfo), aveva già previsto l’affermazione di Roma, con la “saga troiana”, che poi ispirerà l’Eneide di Virgilio. Ma, i dubbi d’attribuzione di quest’opera letteraria alessandrina, sorgono ex se, direttamente dal fatto che il poema, composto in forma di lungo monologo della profetessa di Troia, contiene anche il preannuncio di vicende identificabili storicamente con la vittoria di Tito Quinzio Flaminio sulla Macedonia (197-191 a.C.), e l’accenno di un impero universale di Roma. Il che costringe a ritenere che questo poema sulla futura grandezza di Roma, sia stato composto post eventum da un altro Licofrone.

Una potenza mediterranea come quella di Alessandria d’Egitto, che si fondava su grandi istituzioni scientifiche e su una cerchia di scienziati di grande valore in tutti campi dello scibile, declinò e dovette infine cedere il passo alle legioni romane, quando con Giulio Cesare, con Marco Antonio e infine con Augusto, l’antico Egitto divenne una provincia imperiale di Roma.

Trascorsi 137 anni dalla oscura morte di Archimede, Marco Tullio Cicerone – grande neopitagorico romano, allievo di Nigidio Figulo, ma anche di Posidonio di Apamea a Rodi – che allora ricopriva l’incarico di questore, alle dipendenze del governatore della Sicilia, Peduceo, avrebbe ritrovato la tomba di Archimede, appena fuori città, coperta dai rovi, e mezzo sepolta dal fango, in un cimitero abbandonato.

La tomba era riconoscibile per via di un’iscrizione consunta e per la presenza di un cilindro e di una sfera. Cicerone, se non mentì, poteva però essersi sbagliato. Se è possibile credere a un cilindro e a una sfera di marmo, poggianti su una colonnina, con la sfera innestata sopra il cilindro, oppure l’uno accanto all’altra, non viene però riportata quell’iscrizione, che Cicerone dice aver letto, sebbene nella sua parte iniziale, perché ormai rovinata per la parte restante.

Forse Cicerone aveva letto soltanto la biografia di Archimede scritta da Eraclide e tutto il resto sarebbe una sua invenzione letteraria a scopo retorico e morale, tanto più che erano stati i Romani a uccidere Archimede per vendetta.

Un certo sospetto aleggia sullo strano racconto di Cicerone. Tuttavia la sfera e il cilindro possono essere intesi come simboli d’immortalità, trattandosi del grande matematico che seppe risolvere, da par suo, la dicotomia pitagorica tra il ‘retto’ e il ‘curvo’.

I Romani – portati per la guerra di conquista – trascurarono o ignorarono quasi completamente la raffinata cultura scientifica alessandrina, fraintendendola e travisandola. Si spezzavo così il filo della civiltà scientifica antica, e questa situazione durò fino a Leonardo da Vinci, Copernico e Galileo, tanto per fare dei nomi illustri.

Ha perciò il matematico Lucio Russo (La rivoluzione di dimenticata, 1997, e Flussi e riflussi, Feltrinelli 2003) a concludere, nonostante tutto, nel senso che se la civiltà è come fiume carsico, a rivoluzione scientifica moderna avvenne con la fortuna di un’influenza sotterranea e profonda esercitata dalle opere della civiltà classica.

4* Ricordare Archimede – con i suoi misteri e i suoi segreti – nell’Anno Astronomico Internazionale ha un particolare significato. Il suo intelletto divino (come dissero Cicerone e Plutarco) aveva anticipato i tempi. Leonardo, infatti, era costantemente alla ricerca delle opere di Archimede, e Galileo ripartì dai suoi trattati.

Di Archimede si sono salvate poche opere, sebbene importanti. Ma queste 12 opere in tutto, giunteci dopo mille peripezie, appartengono tutte al periodo della maturità, collocandosi senz’altro a dopo la morte di Conone, che nel 246 era ancora in vita.

Potrebbe fare eccezione la “misura del cerchio”, che è l’estratto ridotto di un’opera più ampia, essendo composto solo da tre teoremi. Qui Archimede stabilisce il valore di “pigreco” (ricompreso nel rapporto frazionario di 22/70 e 22/71). Adesso, egli era in grado di determinare la misura (approssimata) della circonferenza e dell’area del cerchio; due risultati fondamentali per la geometria delle figure curve, ma anche per la misurazione della terra (sua circonferenza e raggio).

Quest’opera dovrebbe precedere tutte le altre, ma non è questa l’opinione concordemente accolta dagli studiosi. Ad es., Attilio Frajese pone prima di essa il trattato sul cilindro e sulla sfera, che secondo Cicerone era stato ricordato nell’epigrafe funeraria sulla tomba di Archimede, che come si dovrebbe ritenere, era stato pietosamente sepolto dai suoi discepoli alle porte di Siracusa. Sempre che Cicerone archeologo improvvisato non fosse stato ingannato ad arte dai suoi informatori siracusani indotti a compiacerlo.

La Medaglia Fields, equivalente al Premio Nobel per la matematica, deriva dal fatto che il famoso scopritore svedese del tritolo, Alfred B. Nobel, si rifiutò di istituire analogo premio in favore dei cultori della scienza più antica del mondo per questioni di corna, giacché sua moglie lo aveva tradito con un matematico. L’ambita medaglia reca su una sua faccia l’effigie barbuta di Archimede con una scritta latina al contorno: Transire suum pectus mundoque potiri, un motto che esalta la potenza del pensiero astratto.

Archimede, il cui nome greco viene da archè e medos e significa pressappoco “primo” nel “pensiero”, non fu soltanto un grande matematico, bensì anche un fisico di rango, un grande pensatore, un astronomo, e un geniale inventore. Tanta completezza poteva rappresentare il meglio della scienza antica, nella quale però primeggiavano la geometria, l’ottica e l’astronomia.

La fama immortale di Archimede è risuonata nei secoli, trasformandosi subito in leggenda. Leggendaria la sua vita, e leggendaria la morte. Mirabolanti le sue scoperte e le sue invenzioni. Eccezionale la stessa vicenda delle sue opere, alcune delle quali fortunosamente recuperate nel 1906 in un palinsesto bizantino di preghiere – un “eucologio” – composto da un monaco di nome Giovanni alla vigilia di Pasqua (14 aprile) dell’anno 1229. Il codice archimedeo pergamenaceo risale invece al X-IX secolo. Questo codice poteva essere appartenuto alla famosa biblioteca di Leone “il matematico”, fondatore dell’Università di Costantinopoli, capitale dell’Impero d’Oriente, chiamata poi Bisanzio.

Della vita di Archimede sappiamo appena quanto riportano alcune fonti piuttosto tarde, in particolare da Plutarco (autore greco del II sec. d.C.). Altre notizie le possiamo ricavare direttamente dalle lettere di premessa alle sue opere. L’unica biografia di Archimede (scritta da Eraclide) è andata perduta.

L’insieme delle notizie dà tuttavia piena testimonianza della genialità di Archimede, lasciando arguire – anche al di fuori dei canoni – la presenza di certi aspetti segreti. Da umile omuncolo – secondo Cicerone – Archimede diviene, però, un dio e un intelletto divino.

La favola delle umili origini – nudum opus – fu ripresa da Silio Italico, quando parla di Siracusa, nel suo poema sulle guerre puniche. Diodoro Siculo, storico d’epoca augustea, accennando alla coclea, aveva promesso di trattare in seguito, più da vicino, l’opera e la vita di Archimede, insieme alle vicende di Siracusa. Questa parte della grande Biblioteca Storica (opera ricchissima di notizie, nella quale si parla anche dell’antichità della civiltà egiziana, risalente ad almeno 15.000 anni prima, e ci si riferisce persino a Stonehenge, e agli Iperborei, come a un grande recinto per il culto del sole e della luna), è andata sfortunatamente perduta.

Si dice anche che Santa Lucia, martire siracusana venerata dalla Chiesa, discendesse dalla famiglia di Archimede (che, dunque, era sposato); ma è difficile pensare quale moglie potesse mai vivere accanto a un uomo costantemente in preda al ‘canto arcano’ di una sirena, completamente assorbito nelle sue ricerche, ammaliato da una sua musa domestica come dice Plutarco, sapientissimo e prolifico autore, e persino sacerdote delfico.

La figura di Archimede, come ci è stata trasferita dalle fonti, appare quella di un solitario pensatore, un individuo isolato da tutto. Questo ritratto ideale non dovrebbe corrispondere alla realtà.

Archimede doveva dirigere una sua scuola a Siracusa, con tanto di aiutanti e allievi, anche se non ce n’è giunta notizia; ma Eraclide, l’autore della biografia di Archimede, era forse uno dei suoi messaggeri per rapporti epistolari con gli scienziati di Alessandria.

5* Quale musa o sirena incantava lo spirito di Archimede? La parola musa starebbe a significare l’ispirazione matematica e scientifica, soprattutto di tipo contemplativo. Ma la parola sirena è molto più allusiva e inquietante. La più famosa rappresentazione delle sirene (mostri o demoni altrimenti raffigurati con testa femminile e corpo d’uccello) è quella dell’Odissea: Ulisse, che volle ascoltarne il canto legato all’albero della sua nave, dichiarava che conoscevano tutto quanto accadeva nel mondo. La minaccia insita nel canto delle sirene – Circe ha ammonito Ulisse di non lasciarsi trascinare poiché sarebbe perito – corrispondeva alla loro natura extra-cosmica, alla loro alterità rispetto al mondo dei vivi. Da un lato le sirene simboleggiavano la morte, dall’altro il rapimento musicale. In questo senso figurato, si può dire che Archimede aveva doti sovrumane, egli udiva il canto delle sirene e la musica delle sfere.

Dopo alcuni viaggi, e il soggiorno in Egitto, Archimede era rientrato in patria. Qui scrisse quelle opere, a noi note, che poi inviava per nave ad Alessandria.

Plutarco dirà che era sempre allettato da una sua domestica e familiare Sirena, e che dimenticava perfino di mangiare. Quanto basta per comprendere aldilà delle leggende che era completamente assorbito nella contemplazione dell’Essere.

In questo, ci doveva essere molta affinità tra Archimede e Leonardo da Vinci, il quale affermò che chi a stella è fiso nonsi volge indietro. La stella di Leonardo, era, per Archimede, una Sirena incantatrice, o la Musa del pensiero.

Archimede fu definito da alcuni dotti il primo dei primi, cioè il “Signor Alfa”, quando le fonti antiche dicono ironicamente di Eratostene, che egli era il “Signor Beta”, il secondo in tutto, non scadente, ma neanche primeggiante.

Essendo contemporanei, non è impossibile che il metro di paragone, almeno in campo matematico, fosse l’eccellenza di Archimede. Di Archimede parlano Polibio, Cicerone, Tito Livio, Diodoro Siculo, Ovidio, Vitruvio, Silio Italico, Valerio Massimo, Plutarco, Luciano, e, molti secoli dopo, Zonara (che come già detto, lo chiama artefice celeberrimo) e Giovanni Tzetze (che riportò estesa notizia sugli specchi ustori). La fonte più antica su Archimede è Polibio, che scriveva all’incirca un secolo dopo la morte del siracusano.

6* Il ritratto barbuto di Archimede, che compare di profilo sulla Medaglia Fields, quanto è attendibile? Non è il busto marmoreo, conservato nel Museo Nazionale di Napoli, che lo rappresenta di fronte, pensoso e severo, con gli occhi fissi altrove. Negli affreschi delle Logge Vaticane Raffaello effigiò Archimede con le sembianze del Bramante. Nel Museo Capitolino di Roma, nella sala dei filosofi, al n. 22, è conservato un grande medaglione di marmo, opera d’antico scalpello, ove da un fondo verde, emerge un bellissimo basso rilievo. Alcuni attribuiscono questo ritratto a Eschilo, ma in un’iscrizione a lato, sebbene spezzata, si legge ARXIMHA, che indicherebbe Archimede. Questo ritratto, però, non può risalire al terzo secolo a.C., sebbene l’immagine sia quella utilizzata per rappresentare oggi Archimede (come abbiano fatto).

Per fornire, invece, un ritratto spirituale di Archimede, ci serviamo di Silio Italico, poeta latino che amava il lusso, che era stato una spia di Nerone, e che aveva scritto un poema sulle guerre puniche, in età imperiale, verso la fine del primo secolo d.C. La descrizione di Silio Italico, sebbene poetica, potrebbe avere qualche aggancio con la realtà, come da antica tradizione.

Eccone il “portrait”:

Era a quel tempo un uomo, decoro eterno

Di Siracusa, per virtù d’ingegno,

Facilmente maggior di quanti educa

La terra alunni. D’opulenza ignudo,

Ma tal cui terra e ciel senz’alcun velo

Discoprisser se stessi. Eragli noto

Perché con foschi rai quando dall’orto

Pallida sorge la titanica lampa

Presagisca tempeste; e se la terrea

Mole sta ferma e immota o instabil nuoti

Nel gran vano sospesa; e perché il mare

Cinga di se con immotato accordo

Il globo, onde i suoi flutti o al par l’assiduo

Variar della luna e per qual legge

Or monti or cali il gran padre Oceàno.

Né vano era attestar ch’ei del capace

Mondo le arene numerato avesse;

Certo dicean che a varar navi o in alto

Macigni enormi a sollevar bastava

Pei trovati di lui feminea mano.

Silio Italico sembra anticipare Plutarco, che scrisse di Archimede verso il 110 d.C. E’ assai probabile che circolasse la biografia di Eraclide, cui potevano essersi ispirati Diodoro Siculo e gli altri. Silio Italico riassume abbastanza bene la figura intellettuale e l’opera di Archimede, e se non accenna espressamente alla sfera celeste, la lascia però intendere, insieme a altri ritrovati, come l’argano, capace di tirare a secco grosse navi, con “femminea mano” (cioè con lievissimo sforzo). Ciò che Aristotele aveva negato, ritenendolo impossibile, Archimede lo provò appieno. Anche l’argano corrisponde a un invariante tra forza applicata e spostamento, ciò che Aristotele non aveva compreso.

Si attribuiscono poi ad Archimede altri ritrovati, come la balista, la catapulta, il corvo, le mani di ferro, l’organo idraulico (che Plinio attribuisce a Ctesibio), il “lume perpetuo” (una fabula che secondo altre fonti avrebbe avuto un riscontro in alcune tombe a Roma), e la “scitala” (usata prima di Archimede dai greci per la corrispondenza segreta).

Gli sono inoltre attribuite molte altre opere, tutte perdute, alcune certe e altre fantasiose. Ciò nonostante, pensiamo che ci possa essere del vero nel fatto Archimede che abbia composto anche un commento a Omero (evidentemente opera a carattere geografico, atteso che Omero fu considerato il fondatore antico di questa scienza); un lavoro sulla misurazione delle distanze (il De viatico); un’opera sulle figure equilatere; e, infine, un testo di osservazioni astronomiche e uno sui numeri, ai quali si deve assegnare credibilità in quanto presupposti o indicati nell’Arenario, chiamato anche Psammites dal nome in greco della sabbia [quella “sabbia” cui potrebbe riferirsi Anassimandro se sul significato terminologico dell’apeiron avesse ragione il glottologo fiorentino eterodosso Giovanni Semerano, recentemente scomparso a tardissima età].

ARCHIMEDE SCIENZIATO

1* Per tracciare invece un breve profilo scientifico di Archimede ci serviamo di Bertrand Russell (Lavisione scientifica del mondo). Scrive Russell: Il genio greco fu deduttivo, anziché induttivo, perciò si addiceva bene alla matematica. Nelle epoche che seguirono, la matematica greca fu quasi dimenticata, mentre altri prodotti della passione greca per la deduzione sopravvissero e fiorirono, soprattutto la teologia e il diritto. I greci osservavano più il modo da poeti che da scienziati…[…]. Il più scientifico di tutti i greci fu Archimede. Come Leonardo da Vinci in epoca più recente, egli si raccomandò a un principe per la sua abilità nell’arte della guerra,e , come Leonardo, gli fu concesso di aggiungere al sapere umano a condizione che sottraesse dalla vita umana…[…] Archimede mostrò grande genio in matematica e straordinaria abilità nell’invenzione di congegni meccanici, ma i suoi contributi alla scienza, pur notevoli, dimostrano tuttavia l’attitudine deduttiva di greci, che rese il metodo sperimentale appena possibile per loro. […] Subito dopo l’epoca di Archimede, tuttavia, la passione che i greci avevano avuto per la ricerca scientifica dei fenomeni naturali decadde, e benché la matematica pura continuasse a fiorire fino alla presa di Alessandria da parte dei maomettani, non ci fu quasi alcun progresso nelle scienze naturali, e il meglio che si era fatto, come la teoria di Aristarco, fu dimenticato.

Lo storico Scipione Guarracino (in Le età della storia, Bruno Mondadori, 2001, pag.133), dopo aver rilevato criticamente che il ritratto di Plutarco è troppo platonico per essere del tutto credibile, afferma però che l’influenza che l’opera di Archimede ebbe su Galileo Galilei per quanto riguarda l’applicazione della matematica alla fisica, è certa. Ma, Guarracino, si domanda anche, se al di fuori della scienza pura, gli scienziati ellenisti si limitarono a costruire ingegnosi giocattoli per i loro committenti, sovrani e principi, affinché questi potessero sbalordire i loro ospiti e mostrare tutta la loro potenza (diversi esempi si trovano nelle opere di Erone), oppure se una simile divaricazione deve essere valutata diversamente. Perché, ad esempio, gli alessandrini non svilupparono la potenza del vapore? La risposta starebbe nell’abbondanza del lavoro schiavizzato. Perché il mulino ad acqua, conosciuto già nel I secolo a.C., non riuscì a imporsi nel mondo antico, riapparendo soltanto nell’alto medioevo?

Benjamin Farrington, che è stato anche grande studioso di Bacone, si adoperò per dimostrare che la decadenza della scienza antica, già dal II seclo a.C., dipese dal prevalere della tendenza speculativa su quella tecnico-applicativa (questa in fondo era l’opinione stessa di Plutarco, riferita ad Archimede, circa il suo disprezzo per le cose pratiche, cui si sarebbe voltato soltanto per necessità bellica).

E però possibile che abbia ragione Lucio Russo, che sostiene che la scienza alessandrina era quasi a un passo dalla ‘massa critica’ per una rivoluzione scientifica, che tuttavia non ci fu, perché assorbita dalla politica egemonica di forze estranee a quel percorso di civiltà, che pure si era rapidamente avviato, e in poco tempo, nell’età di Archimede. Guarracino mostra di apprezzare molto gli studi innovativi di Lucio Russo, particolarmente ben documentati e sicuramente molto affascinanti.

 

2* I presenti appunti su Archimede cercano di cogliere anche il margine tra ‘antico’ e ‘moderno’, facendo leva su questa figura. Il Siracusano era indubbiamente inserito in un circuito scientifico notevolmente progredito che tuttavia non ebbe a disposizione il tempo necessario per trasformarsi in un organismo scientifico-sociale in evoluzione, come sempre avviene se vi è continuità storica, essendo questa la condizione necessaria della crescita e dello sviluppo per ogni civiltà. Il mondo greco stava morendo poiché sorgeva la romanità. E’ stata questa la vera ragione del mancato trasferimento del grado di civiltà scientifica da un ambiente ristretto a un ambiente più diffuso. Cosicché si sono dovuti attendere secoli su secoli, fino alla ‘modernità’ recente di un Galileo Galilei.

La conquista romana di Siracusa è un fatto cruciale. Quanto meno terminava la “scuola italica”, presso la quale Platone aveva sognato di trasferire le sue dottrine, avendo fatto tre viaggi in Sicilia per questa ragione.

Ne resta testimonianza nelle lettere, che sono 13 in tutto, ove vengono riferite le impressioni su questi viaggi. Che Platone sia rimasto molto deluso, è riportato in un passo della lettera VII: Come giunsi, però, non mi piacque affatto la vita che qui si diceva felice, tutta impegnata nei famosi banchetti italioti e siracusani, nel riempirsi il ventre due volte al giorno, e la notte non dormire mai da soli, tutto ciò, insomma, che è solito accompagnarsi a un tale genere di vita.

A tali delusioni s’aggiunsero quelle politiche. Però Archimede non abbandonò mai la sua patria, la florida Siracusa, banchettante anche sotto Gerone II, quasi un secolo dopo.

Archimede “scienziato” pone tantissime domande in diversi settori e poi di vario ordine. Qual era la concezione e il ruolo della scienza per il Siracusano? Ovviamente è questo l’aspetto principale studiato dagli specialisti di qualsiasi tendenza. Esistono lavori illustri, di grandissima qualità, ma infine è possibile che qualcosa sia sfuggito, che alcuni enigmi non abbiano trovato soluzione. Non abbiamo l’ambizione di competenze che non ci appartengono, ma possiamo forse sperare che in questi rapidi appunti ci sia veramente qualcosa di nuovo e d’interessante, mai detto in precedenza. Il lettore scarti l’ipotesi.

LE OPERE DI ARCHIMEDE

1* Scipione Guarracino ha affrontato il problema del rapporto tra ‘antico’ e ‘moderno’ mostrando di apprezzare i conributi di Lucio Russo (La rivoluzione dimenticata). A nostro sommesso avviso, la scienza ellenistica non dipendeva più dall’autorità di Aristotele, ma dal talento di alcuni grandi scienziati, tra i quali primeggiava Archimedei. Se tutti o quasi gli storici della scienza si caratterizzano per una visione piuttosto riduttiva della scienza antica (tra questi, Alexandre Koyrè: Dal mondo del pressappoco all’universo della precisione, Einaudi, 1967), è stato Lucio Russo a indicare per primo (con solidi argomenti) che il mondo antico – cioè Archimede e la civiltà alessandrina fiorita sotto i Tolomei – era abbastanza vicino alla rivoluzione scientifica moderna dell’età di Galileo e di Newton. I circa venti secoli intercorsi tra la prima e la seconda rivoluzione scientifica nella nostra civiltà europea (per l’antica civiltà cinese si veda l’opera monumentale di un grande studioso del calibro di Needham), segnerebbero l’abisso d’ignoranza che s’interpose. Ignoranza scientifica, ben inteso, e questa soltanto, poiché già all’epoca di Vitruvio e di Plinio il vecchio, le conquiste della scienza ellenistica si erano spente, tranne forse che per la matematica, in un balbettio di memorie disomogenee e di equivoci sistematici.

Il mondo dei traffici mercantili mediterranei e delle guerre di potenza numerica potevano fare a meno della scienza speculativa, e l’abbondanza di manodopera servile non invogliava certo a investire risorse in tecnologie sostitutive. Rompendosi l’anello intermedio, si era spezzata anche la catena della civiltà scientifica, per sua natura elitaria. I Romani non furono gli eredi della scienza alessandrina, che doveva essere rimasta confinata nei suoi testi teorici e nei suoi modellini in scala. La rivoluzione scientifica del XVII secolo, inaugurata da Galileo Galilei, ripartiva però da Archimede. Causa di tanto ritardo era stato, soprattutto, lo pseudo razionalismo scientista di Aristotele, che con la Fisica, la Metafisica e il De Coelo, aveva fornito un’erronea concezione dell’Universo, sebbene il ‘pitagorico’ Platone si fosse già fatto promotore di una svolta, che portò – con Eudosso, Euclide, Archimede e Apollonio di Pergamo – almeno alla sistemazione del meraviglioso edificio della geometria greca quale strumento razionale per l’immagine e l’indagine del Mondo.

Aveva vinto con Platone, con la speculazione intellettuale pura, a prescindere dall’esperimento. Poi, con Aristotele, la metafisica aveva eliminato la vera fisica. C’era stato un ritorno al passato, agli Ionici, dimenticando anche il periodo intermedio in cui agirono geni del calibro di Archimede.

Aristotele, che era stato il precettore di Alessandro Magno, il conquistatore macedone che era giunto fino in India, di fatto era un ‘dogmatico’. La sostanza era un dogma, un’essenza in sé, che ignorava il concetto di energia, insomma la dialettica tra il divenire e l’essere. La morte prematura di Alessandro, che aveva fondato la nuova capitale alle foci del delta del Nilo, nell’isola di Faro, mise in crisi l’impero universale, che si sciolse nella sua unità, continuando nei vari regni dei Diadochi, che nel frattempo erano sorti dalle loro spartizioni.

I Tolomei, morto Alessandro Magno, fondarono la dinastia greca in Egitto, e da allora Alessandria ne rimase sempre la nuova e modernissima capitale. Qui fiorirono le prime vere istituzioni scientifiche organizzate del mondo antico, dopo l’Accademia e il Liceo di Atene; ma non dobbiamo tralasciare che in Italia, nella Magna Grecia, da molto tempo esisteva un’evoluta “scuola pitagorica”, che era d’impostazione scientifico-matematica. Archimede ne era, a nostro avviso, l’erede. E questo fatto, già da solo, spiega l’apparente isolamento di un grande scienziato come Archimede nella sua Siracusa, altrimenti inspiegabile.

Archimede, nella sua patria, era rimasto a capo della vecchia scuola italica, che adesso si concentrava tutta a Siracusa, sotto il dominio di Gerone, che era un monarca con velleità ingegneristiche.

La figura di Archimede è descritta nelle pagine che verso il 110 d.C. gli dedicò Plutarco nella Vita di Marcello.

Eccone un estratto: Questo grande uomo non considerava le sue invenzioni come opere seria; la maggior parte non erano per lui che semplici divertimenti di geometria. Le aveva fabbricate prima della guerra per l’interessamento di Gerone, che l’aveva impegnato distogliere un po’ della sua scienza dalle nozioni astratte e a volgerle agli oggetti materiali. Considerava la meccanica e in genere le arti che riguardavano i bisogni della vita come vili mestieri manuali e consacrava il suo zelo ai soli soggetti la cui bellezza ed eccellenza non sono mescolate con nessuna necessità materiale.

Il ritratto di Plutarco, tardivo di tre secoli, è quello di uno scienziato platonico. Ma, all’epoca di Plutarco, il mondo classico, dominato e governato da Roma, era stato contagiato dall’impero. Ne avevano risentito persino la letteratura e la poesia. Con la grandezza di Roma era iniziato il declino. Non esistevano più le città stato e il modello politico di Platone era divenuto un’anticaglia, se non si fosse rivelato un’utopia. Nessun “governo dei sapienti”, bensì il potere assoluto degli imperatori romani, fondato di fatto sul potere militare, anche se formalmente condiviso col Senato, e quello locale dei governatori nelle varie province. Lo stesso impero d’Oriente, fondato da Costantino, era una chiara conseguenza del declino.

La civiltà si era spezzata, se pure non si spezzava ancora la storia di Roma. La civiltà scientifica alessandrina era terminata da un bel pezzo. Era in declino anche la matematica, che è una scienza pura, ma il cui progresso deve essere stimolato da esigenze dinamiche. Ed era il fatale portato storico del nuovo assetto del Mediterraneo dopo il crollo cartaginese (II secolo a.C.). Ciò significava che i grandi processi di sviluppo o d’involuzione dipendono da fattori politici imponderabili, in cui però recita un ruolo molto importante l’assetto economico e sociale. I romani, ormai signori del mondo, erano alieni rispetto alla civiltà e al pensiero scientifico, che si era formato dal IV al III secolo a.C. in ambito greco (dalle colonie della Ionia ai regni alessandrini).

Ecco perché è interessante interrogare la storia antica, anche per evitare che certi guasti possano continuare a ripetersi in nuove forme, poiché i saperi sono ‘veicolati’ nel tempo dalle nuove generazioni: sia verso la crescita, che verso l’impoverimento. Il ciclo di sviluppo organico di una civiltà impegna alcuni secoli, e occorre perciò che non si siano grosse fratture o gravi punti discontinuità.

2* Se Plutarco descrive alcuni ritrovati per la difesa di Siracusa assediata dai romani, nelle fonti più antiche non c’è alcuna indicazione sugli specchi ustori. Questo solo esempio solleva il problema del margine di verità tra storia e leggenda. A maggior ragione la questione se Archimede abbia veramente costruito il primo telescopio a riflessione, 19 secoli prima di Newton, desta un grande punto interrogativo. Com’è possibile?

Affronteremo questi argomenti in modo indiziario, ma – a nostro avviso – non sono questi i più grandi “segreti” di Archimede. Ce ne sono altri, più importanti, anche se crediamo che Archimede abbia effettivamente costruito una specie di telescopio, e abbia usato in qualche modo una concentrazione di raggi solari per incendiare almeno una volta le navi romane. Il tempo ha disperso memorie e documenti, ma il tempo può all’improvviso riapparire, con i suoi ‘segreti’, anche attraverso le leggende.

Così, infatti, è avvenuto per due opere di Archimede: il Metodo e lo Stomachion. Dello Stomachion (o “Stomacata”, ma detto anche l’Avaro), si aveva già un riassunto arabo, mentre l’esistenza del Metodo era del tutto sconosciuta, tranne che per accenno dovuto a Erone. Tra l’altro, Erone si era occupato anche di pneumatica, e aveva ideato congegni destinati ad essere mossi dall’aria, dall’acqua o dal fuoco.

Viene da pensare che forse, sotto il nome convenzionale di “Erone” (che potrebbe essere quello di un raccoglitore o compilatore di manuali tecnici anonimi, di varia provenienza, e che peraltro in lingua egiziana significa, tout court, “ingegnere”), possa perfino nascondersi il segreto stesso della civiltà alessandrina. La fondazione o consorzio degli scienziati “ellenistici” aveva accumulato questi materiali, che poi riemergono con Erone, un personaggio che rimane piuttosto oscuro e non facilmente definibile, che dovrebbe essere vissuto dopo Posidonio di Apamea. Certi apparati di Erone possono addirittura assomigliare ai tripodi esistenti a Delo, che nell’Iliade (canto XVIII) camminavano da soli, dicendo che Vulcano vi aveva apposto ruote invisibili.

E’ probabile difatti che esauritisi sia la vitalità che l’impulso scientifico della grande civiltà scientifica alessandrina, che sicuramente era rimasta confinata in una ristretta cerchia di grandi matematici e di abili scienziati, però distante dalla società corrente come dal potere politico, particolarmente evoluta ma in dialogo ristretto ed esclusivo tra i vari gruppi, ciò che rimaneva il lascito di quest’ambiente, che era durato appena per qualche generazione, sia stato in seguito ripreso e riassunto da una qualche istituzione, che però ormai non riusciva più a comprenderne a fondo gli argomenti teorici, perciò limitandosi ad alcune applicazioni modeste e a modelli pratici, al limite della pura curiosità e delle irrealizzabili esigenze e necessità concrete. Erone, più che un autore tardo, alquanto isolato e abbastanza inspiegabile, invece potrebbe essere l’aspetto emergente di un fenomeno di tarda trasmissione dei “saperi” precedenti in un’epoca di declino.

3*Il codice perduto di Archimede (Mondadori 2007), saggio divulgativo ma di valore, scritto a due mani da Reviel Netz, uno dei massimi studiosi di Archimede, e da William Noel, che è il curatore della sezione manoscritti antichi del museo Walters di Baltimora, ripercorre la vicenda del “palinsesto di Gerusalemme”, un libro bizantino di preghiere riscritto da un amanuense su un antico codice archimedeo all’epoca in cui Federico II, il coltissimo e poliglotta imperatore svevo, stupor mundi, stava diplomaticamente trattando la pace (1229) con i mussulmani, in contrasto con le direttive di Gregorio IX, il papa che per questa ragione lo scomunicava, e che aveva canonizzato San Francesco d’Assisi (luglio 1228), meno di due anni dopo la sua morte (3 ottobre 1226).

Il codice archimedeo, che in origine doveva far parte della biblioteca di Leone “il Matematico”, il fondatore dell’Università di Costantinopoli nel IX secolo d.C., conteneva il trattato sul Metodo meccanico (di cui appunto si ignorava l’esistenza), il trattato sui galleggianti (già noto), e una parte dello Stomachion.

Lo Stomachion – detto anche l’Avaro – era un’operetta, curiosa ma raffinata, dedicata da Archimede a un gioco allora in voga a Siracusa, abbastanza simile al tangram ‘cinese’.

Il tangram è un quadrato di legno, composto da 7 pezzi mobili, che dà luogo a una geometria combinatoria di straordinarie figure, mentre lo Stomachion era composto da 14 pezzi. Ma il tangram di 7 pezzi non avrebbe, così parrebbe, alcuna antica origine cinese, risalendo all’enigmista e prestigiatore Sam Loyd, nel 1903, come infatti rivelò Ernest Dudeney nel 1908, sebbene per James Murray il tangram fosse veramente antico: Edgar Allan Poe era un appassionato di tangram, come lo era stato, si dice, Napoleone relegato nell’isola Sant’Elena, e sicuramente esemplari di tangram in avorio circolavano già a primi dell’800 (vedi Martin Gardner, collaboratore negli anni ’60 di Scientific American, e grande studioso di giochi ed enigmi matematici).

Non è questa la sede per ripercorrere le vicende del palinsesto bizantino del Metodo, la cui scoperta ha dietro di sé una storia intrigante, e un successivo sviluppo non ancora esauritosi, poiché la prima lettura del palinsesto, fatta da J. L. Heiberg subito dopo la grande scoperta (Heiberg è stato un grandissimo filologo e tra i massimi studiosi di Archimede), è ancora oggetto di ricerche, ricorrendo ai più raffinati strumenti della tecnologia moderna – come i raggi ultravioletti, i raggi x, le scansioni computerizzate ecc. – per tentare di ‘leggere’ meglio quanto era sfuggito alle riproduzioni fotografiche e alla lente di ingrandimento del grande studioso danese.

Archimede fu autore di molti scritti, in gran parte perduti. E’ andato perduto il trattato sulla sfera celeste, che egli costruì materialmente, forse in età giovanile, più che da vecchio. Le sue opere non ci sono giunte in originale, tranne il palinsesto, bensì in trascrizioni e in traduzioni, anche a cura di studiosi arabi, emerse da altre copie. Il mistero di Archimede concerne persino i suoi codici, quelli che si sono potuti salvare, e quelli spariti per sempre.

Rimangono in tutto 12 opere, compresi il Metodo e lo Stomachion, però contenuti frammentariamente nel palinsesto bizantino, considerando nel novero anche il testo epigrammatico – 44 versi nel greco della koinè – del c.d. problema dei buoi del Sole, ritrovato dal Lessing nel 1773 in un codice miscellaneo, conservato nell’antica biblioteca di Wolfenbuettel, in Germania.

Non si riesce neppure a comprendere con chiarezza la cronologia interna delle opere rimasteci, per cui è incerto che cosa precede cosa.

Archimede pone grandi problemi: misteriosa è la sua opera, ma lo è anche la sua vita; ed è enigmatico, altresì, il suo modo di fare scoperte. Egli conosceva già intuitivamente molti dei suoi più importanti risultati geometrici, poi oggetto di dimostrazioni formali del tutto impeccabili. La cosa è sorprendente, ma è esattamente così. Tanto è vero che si parla, a tal proposito, di questione archimedea (A. Frajese). Crediamo d’aver trovato la ‘spiegazione’ di questo enigma, e ne accenneremo in un apposito paragrafo. In effetti, il pensiero di Archimede è di tipo “produttivo” (secondo i canoni della psicologia Gestalt di Max Wertheimer), ovvero di tipo “trasformativo” secondo l’affine accezione impiegata da David Perkins, nel saggio Come Leonardo (il Saggiatore, 2001).

La nostra convinzione si fonda su aspetti elementari, impliciti nelle ricerche di Archimede, spiegabili in modo semplice e diretto. Archimede scienziato pitagorico e platonico è la ricetta che sintetizza il significato intellettuale delle sue opere in matematica e in fisica.

4* Sono opere di fisica l’equilibrio dei piani (da cui la famosa frase: datemi una leva e solleverò il mondo) e il trattato sui galleggianti (tecnicamente importante per una civiltà marinara come quella di Siracusa).

E’ invece un’opera cosmico-numerica, oltre che astronomica e matematica, l’Arenario o Psammites, nel quale, a cominciare dal numero dei granelli di sabbia contenuti in un seme di papavero, vengono progressivamente stimate le dimensioni dell’Universo, attraverso un singolare sistema numerico fondato sulle ottadi, che sembra anticipare la notazione esponenziale, dando luogo a numeri immensi.

Sono opere di geometria pura la misura del cerchio, la sfera e il cilindro, il trattato sui conoidi e sugli sferoidi, il trattato sulle spirali e la quadratura dellaparabola.

Queste 5 opere geometriche furono inviate da Archimede ad Alessandria, per Dositeo, il migliore degli allievi di Conone, precedute da una premessa esplicativa.

L’amico Conone, famoso matematico e astronomo alessandrino, era già morto. Archimede lo rimpiange. Siamo dunque a una data sicuramente successiva all’anno 246 a.C., al quale rimonta l’aition di Callimaco sulla chioma, o meglio i riccioli votivi, della regina Berenice, sacrificati in un tempio per la salvezza del marito impegnato in guerra. Archimede aveva già più di 40 anni. Che cosa aveva scritto in precedenza?

Abbiamo finora citato 11 opere, compresi il palinsesto bizantino, ritrovato nel 1906, comprendente alcune parti del trattato sul Metodo e dello Stomachion, e il terribile problema bovino rintracciato dal Lessing. Mancano all’appello iLemmi, appartenenti al campo della geometria. E’ un trattato giuntoci dagli Arabi, tradotto verso il 1300 da Tebit Corraides, con annotazioni. In questo caso, trattandosi di un argomento del affine rispetto a notizie su Archimede già trasmesseci dal matematico e pensatore bizantino Eutocio di Ascalona (V sec. d.C.), l’attribuzione del Lemmi al Siracusano sembra certa. Il “lemma” è una proposizione preparatoria destinata a provarne un’altra. In questo trattato sono presenti due belle figure geometriche piane di tipo curvilineo, l’arbelos e il salinon.

Il Metodo meccanico è l’insospettata opera affiorata dal palinsesto bizantino che dovrebbe spiegare attraverso quali accorgimenti meccanici (pesature, piani di equilibrio, centri di gravità ecc.) il grande siracusano potesse anticipare i suoi teoremi geometrici, oggetto poi di formali dimostrazioni (molte volte per assurdo), a proposito di solidi particolari, come i conoidi e gli sferoidi, ai quali aveva già dedicato un trattato, ugualmente pervenutoci. Ma, anche il Metodo meccanico, non spiega mai veramente, come Archimede potesse ottenere i suoi principali risultati geometrici, senza conoscere il calcolo infinitesimale.

Infine, due teoremi del Metodo, le proposizioni 14 e 15, hanno qualcosa di prodigioso, e sanno addirittura di magia.

I misteri si moltiplicano e il nostro titolo è piuttosto corretto. Archimede, nel Metodo – opera indirizzata a Eratostene con una lettera di prefazione che ha un sapore ironico –, inventò di sana pianta due stranissimi solidi, inesistenti in natura, il cilindro a croce e l’unghia cilindrica, stabilendone il volume relativo rispetto al cubo contenente. Come fece a idearli, e perché lo fece? Ecco un bel “mistero”.

5* Nel breve frammento rimastoci dello Stomachion (“stomacata”) è stato sorprendentemente utilizzato da Archimede un metodo combinatorio, mentre il problema bovino, risolto in America da tre ingegneri in 4 anni di sforzi, soltanto nel 1889, le prime otto soluzioni richieste dal problema sono costituite da numeri così enormi che non possono essere contenuti in un foglio, bensì in libro di centinaia di pagine. Il libro dei lemmi, pervenutoci attraverso una parafrasi araba, tratta di singolari figure curvilinee, come l’arbelon (cioè il “falcetto”) e il salinon (cioè la “saliera”). Perché tanta attenzione a figure del genere?

Archimede, com’è noto, stabilì il valore ben approssimato di pigreco, calcolò la circonferenza e l’area del cerchio e dell’ellisse (ma non il perimetro di questa sezione conica che richiede funzioni trascendenti, come l’area dell’iperbole). Stabilì il valore della superficie sferica e il volume della sfera; determinò, infine, l’area di un ramo di parabola e studiò i rapporti generati dalla spirale.

Già questi strabilianti risultati, che completavano l’edificio della geometria greca risolvendo la dicotomia pitagorica tra il retto e il curvo, valevano l’immortalità.

A Siracusa, Cicerone (Tuscolane V, 23) riconobbe celata tra i rovi la tomba di Archimede, per due singolarità: la presenza di un cilindro e di una sfera, e una iscrizione nel basamento, recante certi versi in cui si parlava, appunto, di una sfera e di un cilindro. Vide una colonnina che spuntava da un cespuglio: sopra c’erano scolpiti una sfera e un cilindro. Dunque la colonnina terminava con un cilindro, sopra il quale poggiava una sfera? Cicerone non è chiarissimo; anzi, appare reticente, se non confuso. L’epigramma del basamento si vedeva ancora bene, per quanto i versi fossero rovinati alla fine, e non se ne leggesse che la metà.

Peccato che Cicerone non riporti quel frammento, che aveva letto, e che in ogni caso doveva già conoscere sommariamente, e, dunque, non ci consenta di credere appieno alla sua scoperta; ma, per un grande matematico platonico, la sfera e il cilindro dovevano rappresentare il simbolo dell’immortalità, oppure racchiudere un loro segreto. Forse il segreto geometrico dell’universo platonico del Timeo e delle figure e dei solidi curvilinei, rispetto alle figure quadrabili e ai solidi delimitati da piani? Archimede studiò questi rapporti per tutto l’arco della sua vita. Forse nel tentativo pitagorico di correlare alla razionalità del logos la dicotomia tra la famiglia delle figure curvilinee e dei solidi curvi rispetto alla famiglia delle figure regolari e dei solidi quadrabili? Senza l’ausilio del calcolo infinitesimale, di cui però l’opera di Archimede finisce per essere il primo basamento, ciò sembra quasi impossibile. Eppure è qui che si nasconde il segreto della “questione archimedea”, enunciata dallo studioso e traduttore italiano di Archimede, Attilio Frajese, che insegnava storia della matematica all’Università di Roma.

La sola edizione italiana delle opere di Archimede è quella curata della Utet di Torino, risalente al 1974, ad opera di Frajese, e con sua introduzione. Manca il testo greco a fronte, anche perché è un’edizione didattica, invero assai utile, ma non un’edizione scientifica in senso filologico critico. Esistono due edizioni francesi, con testo greco, rispettivamente a cura di Charles Mugler e di Paul Van Eeke. Attitlio Frajese traduce Archimede in notazione moderna, e alcune volte preferisce riassumere, ma lo rende accessibile al lettore comune. Su Internet si segnalano per la loro qualità due siti web in particolare: quello di Chris Rorres e quello dell’Università di Saint Andrew. Molti altri siti completano il panorama archimedeo (sulla storia del codice C, il palinsesto bizantino scopeto nel 1906, si veda il sito della Walter Art Gallery).

6* Quanto ai codici archimedei, si deve a Gugliemo di Moerbeke, alto prelato nato in età francescana nel Brabante, fra il 1215 e il 1235, già vescovo di Corinto e poi aggregatosi alla dotta corte papale di Viterbo, la traduzione in latino di alcune opere principali di Archimede (codice A), però non correttamente intese (ma una traduzione letterale è sempre preferibile, in questi casi).

Il codice A è sparito (ne sono rimaste soltanto delle copie), e stessa sorte ha avuto il codice B, che doveva essere appartenuto a Federico II, per poi passare agli Angioini.

Ci è rimasto il codice C, quello del palinsesto contenente una parte del Metodo e un frammento dello Stomachion, tradotti per primo da Heiberg. Le copie di un originale perduto sono comunque sufficienti a fissare il testo, ed è già molto. Come abbiamo già riferito molte opere di Archimede sono andate totalmente perdute. Ciò che rimane è già un grande tesoro. L’antichità non è stata sopraffatta dal tempo, anche se tanto non ci è pervenuto per varie ragioni concomitanti, come la mancanza d’interesse nei secoli almeno per certe opere.

Gli antichi greci scrivevano in caratteri maiuscoli e senza intervalli. Ciò rendeva ancor più difficile la lettura e poi la traduzione-comprensione. I codici pergamenacei che ne derivarono erano solitamente accompagnati da figure e illustrazioni se si trattava di opere scientifiche. Tali figure o diagrammi sono stati “visti” anche nelle pagine del palinsesto bizantino del 1906.

Le principali opere di Archimede furono composte nel dialetto dorico di Siracusa, una sorta di prosa scientifico-filosofica, nata in Magna Grecia con Filolao e Archita: le c.d. Dialèxseis. Il contenuto ‘dimostrativo’ di questi lavori non era certamente di facile comprensione nel medioevo, quando Guglielmo di Morbeke si accinse alla traduzione dei “codici” conservati nella ricca biblioteca di Leone il matematico, contemporaneo di Fozio, che a sua volta riscopriva certi libri antichi, ormai dimenticati dal tempo, compilandone i riassunti per suo fratello (la Biblioteca di Fozio per tale ragione è un’opera preziosa, avendoci trasmesso notizie sull’esistenza e il contenuto di tanti libri spariti).

La grande Biblioteca di Alessandria aveva già subito molte perdite per incendi e saccheggi. Sparì con la conquista araba dell’Egitto (anno 642). Ma i dotti di Alessandria, almeno fino a Ipazia (415 d.C.), fecero in tempo a salvare molti materiali papiracei selezionati della Biblioteca, trascrivendoli su pergamena, e poi trasferendoli nel circuito letterario bizantino e dell’occidente, non ancora devastato dalle invasioni.

In fondo, le biblioteche di Costantinopoli, che potrebbero aver subito i danni della conquista crociata del 1204, che però permise in seguito, a Guglielmo di Moerbeke, di fare la sua traduzione latina, funsero da cassaforte e da scrigno dei tesori librari ellenistici.

Le opere di Archimede furono rivisitate nel VI secolo d.C. da alcuni addetti ai lavori. Il che permise che ancora più tardi, potessero essere di nuovo trascritte e conservate nella capitale dell’Impero d’Oriente. Così Archimede si è potuto salvare, pervenendo anche agli Arabi, sia attraverso i canali bizantini, che con la conquista dell’Egitto (la distruzione della Biblioteca di Alessandria, che fu massiccia, tuttavia fu selettiva per le opere d’interesse scientifico, che incuriosivano i conquistatori).

In lingua italiana esiste la traduzione di Archimede di Attilio Frajese e va segnalato l’agile saggio di Daniele Napolitani (ottobre 2001, Quaderno n. 22 de Le Scienze).

Altra monografia divulgativa, ricca di notizie, è Archimede e il suo tempo di Pasquale Midolo (Siracusa, 1912), citata dal Boyer nella Storia della matematica. Di utilissima consultazione è il magnifico lavoro di Gino Loria, Le scienze esatte nell’antica Grecia (1914, ristampa Hoepli). Ho trascurato riferimenti ai lavori di Heiberg, Lipsia 1915; di M. Clagett, 1964; di W. Knor e di E.J. Dijksterhuis, 1938-1978, in quanto di valore specialistico. Il nostro Archimede rimane nei limiti della leggenda, con riguardo alle sue intuizioni fondamentali.

I segreti di Archimede, oggetto d’indagine in questi appunti, non hanno a che fare con gli elevati studi specialistici, filologici e matematici, sul Siracusano, bensì con le intuizioni primitive che dovettero animare la sua ricerca, soprattutto in campo geometrico. Ciò che qui interessa è un’indagine sul “pensiero produttivo” di Archimede. Ma non possiamo fare a meno di citare anche Ernst Mach, a proposito della fisica di Archimede (La meccanica nel suo sviluppo storico-critico – ed. 1912). Mach svolge interessanti critiche alla fisica archimedea, a proposito del principio della leva e dei centri di gravità.

ARCHIMEDE PITAGORICO

1* Gli storici della matematica e più in generale gli storici della scienza sono molto agguerriti e accorti, professionalmente alieni a voli di fantasia. Le nostre osservazioni sui presunti “segreti” di Archimede, anche se si pongono aldilà dei canoni, però non sono campate in aria. In primo luogo, ci sembra necessario porre questa domanda: Archimede era un ‘pitagorico’ italico, oppure un atomista ‘epicureo’ ?

Lo storico della scienza Michel Serres, nel suo famoso saggio su Lucrezio e l’origine della fisica (Sellerio 2000), ha trasformato Archimede in uno scienziato atomista. Ma questa versione, fondata sull’incessante movimento degli atomi, o profluvio atomorum come diceva Cicerone (che però era un antiepicureo per eccellenza), nascerebbe dal fraintendimento dell’intera ricerca di Archimede, che mirava invece all’equilibrio delle forze e all’utilizzo sistematico degli invarianti, anche in campo geometrico.

Secondo noi, Archimede era un “platonico” di origini “pitagoriche”. Egli apparteneva, cioè, alla stessa “scuola italica” di Filolao di Crotone (cosmologo eliocentrico della seconda metà del V secolo) e di Archita di Taranto (grande matematico e valentissimo meccanico come Archimede, morto nel 360).

Questa scuola era stata fondata da Pitagora in persona, e vi erano appartenuti Parmenide di Elea ed Empedocle di Agrigento, autori di famosi poemi sulla natura.

Non per un abbaglio storico gli Arabi avevano chiamato Archimede “figlio di Pitagora”, suggerendone la paternità intellettuale. Cos’è stato il pitagorismo, aldilà della tradizione mitica e della leggenda neoplatonica che lo accompagnava nelle tarde fonti classiche?

Il pitagorismo era una visione del mondo fondata sull’armonia del numero che aveva a sua base sia il metodo sperimentale ante litteram, che una visione della geometria e dell’aritmetica a specchio della realtà. Numero e figura non erano disgiunti. Il vero tessuto dell’Universo era immateriale, costituito idealmente da un piano infinito, senza alcun limite, ove si disponevano geometricamente, in serie infinita, tutti i “numeri quadrati”.

Dobbiamo immaginare un velo sottilissimo, i cui grumi o addensamenti costituiscono la realtà. Una sorta di analogia primitiva col continuum quadridimensionale del c.d. “spazio-tempo” di Einstein, un tessuto di relazioni matematiche che anche in assenza di una teoria quantistica della gravità presuppone l’esistenza della materia atomica.

I corpi ‘perturbano’ il tessuto dello “spazio-tempo”, generando la gravità (ecco perché la terra è costretta a ruotare intorno al sole, seguendo una curva geodetica di minimo percorso). Ananke in Platone (cioè la Necessità) non è poi dissimile. Essa tiene sulle ginocchia il fuso cosmico, aiutata dalle 3 Parche (dunque 4 figure).

Se Parmenide ed Empedocle parlavano, nei loro magnifici poemi (che ci sono giunti per frammenti), del rotondo Sfero (a proposito sia della verità che del mondo), allora il segreto dei segreti che veniva così sottinteso, è quello della superficie sferica, cioè il piano ideale infinito (il tessuto geometrico e numerico della realtà), in modo che il discontinuo numerico possa ritrovarsi nel continuo geometrico (vecchio problema dibattuto dai filosofi ionici).

La serie pitagorica dei numeri quadrati riempie progressivamente tutto lo spazio del piano infinito. Questo sottilissimo velo fascia il mondo, ne rappresenta la superficie rotonda dello sfero, con ciò anche il limite tra essere e non essere.

Il modello ideale del piano infinito, riflesso nel simbolo sacro della decade pitagorica, attiene – in un certo senso – alla ‘quarta dimensione’, analogamente a quanto si alludeva nel mito della caverna della Repubblica di Platone.

La concezione del piano infinito è un’idea simile al sogno: è un archetipo matematico. Il “sogno” di Cartesio, da lui fatto in Germania, al caldo di una stufa, che divenne realtà con la “matematica universale”, cioè la geometria analitica annessa al Trattato del Metodo (1637), poteva difatti coniugare, in modo biunivoco, aritmetica e geometria. Questa visione o sogno sembra germinare “produttivamente” da un archetipo latente che aveva colpito Platone. Le visiones dovute a improvvise illuminazioni della mente in matematica e in poesia, sarebbero quasi i punti di contatto dello spirito umano con l’universale.

A una concezione del genere era giunto il grande fisico quantistico svizzero Wolfgang Pauli (molto legato allo psicanalista C. G. Jung), nel suo saggio Psiche e Natura (pubblicato in Svizzera nel 1954 e in Italia nelle edizioni Adelphi nel 2006).

Se abbiamo reso l’idea, ciò può bastare. Gli archetipi sono entità psichiche complesse, dotate della ricchezza dei simboli. ‘Antico’ e ‘moderno’ non sono categorie contrapposte, appartengono invece alle fasi dell’evoluzione della coscienza, che nelle dottrine – analogiche e simboliche – di Platone è accostata alla reminiscenza (Platone ne era così convinto, che usò proprio la forma discorsiva dialogica, poi ripresa da Galileo nei suoi saggi, sottintendendo perciò che la verità è pressoché indicibile, come nella “doppia navigazione” che Ludwig Wittgenstein compì in filosofia moderna).

La decade pitagorica o tetraktys sacra rappresentava il simbolo della profonda unione tra il punto ideale inteso come luogo puro e il numero. Rappresentava i primi dieci numeri naturali, raccolti a piramide e disposti in 4 file. Era un archetipo matematico-geometrico, capace di identificare analogicamente l’essenza impalpabile del Cosmo.

In questa immagine o disposizione figurata della tetraktys pitagorica sono coinvolti i numeri naturali da 1 a 10 e le 4 dimensioni. Nel mito della caverna (Repubblica, libro settimo) è stata rappresentata da Platone la condizione dell’umana prigionia rispetto alla vera conoscenza. Ed è l’anticipazione del “noumeno” kantiano.

2* Se Galileo riteneva (come i pitagorici) che il grande libro della natura è scritto in caratteri numerici e geometrici, e che dunque l’esperimento corretto potesse valere a leggere bene su questo libro e a spiegarne i fenomeni, egli però commetteva un peccato di ottimismo. In effetti, la matematica è dotata di una “irragionevole” capacità di rappresentazione, ma il “noumeno” – la cosa pensata, l’oggetto intelligibile contrapposto ai fenomeni – rimane insondabile. La scala semantica del sapere rinvia sempre a un altro livello superiore, in una catena apparentemente infinita. La scienza non è episteme, non rappresenta la vera conoscenza, ma è soltanto una corretta prassi operativa che possiamo anche definire come operazionismo, secondo Percy W. Brigdman, premio Nobel per la fisica nel 1946, nel suo saggio sulla logica della fisica moderna, pubblicato nel 1926, ove il concetto corrisponde soltanto alle operazioni.

La fisica moderna – con la teoria generale della relatività – ha concepito la geometria quadrimensionale dello spazio-tempo e ha scoperto che il tessuto dell’universo ha una strana consistenza relazionale, comprovata dagli esperimenti. I prigionieri di Platone, immersi nel regno bidimensionale delle ombre, scorgono l’esistenza del reale, che li sovrasta in una dimensione superiore, intuibile ma non è rappresentabile dai sensi.

La loro non è una conoscenza erronea, ma un sapere mutilo, parziale e incompleto. Il mondo delle idee si lascia dunque scorgere, ma non è catturabile del tutto. Le essenze preesistono, la geometria non fa altro che scoprirle. E sebbene nell’universo lo spazio e il tempo appaiano come categorie separate, l’Essere ne ha nascosto ai sensi l’unione profonda, come nella filosofia di Parmenide che nega il mutamento o nella filosofia del vescovo Berkeley che nega idealisticamente la materia, mentre il razionalista Hume negò il principio di causalità. Le problematiche del neopitagorismo moderno, che si estende alla fisica quantistica, sono state affrontate nel magistrale saggio Magia dei numeri del matematico e storico della matematica Eric Temple Bell, pubblicato negli anni ‘40. Ritornano di nuovo nella scienza speculativa moderna i vecchi personaggi iniziatici del pensiero antico col loro fascino misterioso. Ecco perché Archimede, come tutti i geni sommi, era costantemente assorto nell’incantesimo della Sirena o della sua Musa domestica.

Verità” e “bellezza” si percepiscono, ma non sono esattamente definibili. La conoscenza proviene dal profondo e si eleva verso l’alto. L’atto di pensiero è un tramite, come un filo metallico percorso dall’alta tensione, ma l’idea trascende lo stesso soggetto pensante, e dunque il pensato è immagine, simbolo, trasfigurazione; ed è l’immaginazione capace persino di operare il bene, con riguardo ai vari bisogni umani; ma non è èpisteme, conoscenza assoluta, a differenza di quanto invece riteneva Aristotele. Platone ne era consapevole. Non presumeva di arrivare all’essenza delle cose, che pur doveva esistere per se stessa, ma distingueva ciò che è teoricamente possibile presagire e scorgere aldilà del transitorio e del puro mutamento. Il concetto di essenza necessaria – ousia – gli derivava dall’Essere Parmenide, che non può conciliari col divenire, dando luogo a un paradosso, che non può risolversi se non nel Mondo delle Idee. Siamo prigionieri delle cose. La ragione universale delle realtà affonda negli abissi. I livelli sono forse infiniti: dal basso verso l’alto e poi dall’alto verso il basso. Si tratta di scale bibliche, nella visione sublime del cielo. E non c’è nessuna differenza nel salire o nel discendere. I livelli di coscienza restano gli stessi a ogni gradino. La storia umana ce li presenta fatalmente. Può progredire o regredire. E quando ci apprestiamo a cercare di comprendere il passato, la lezione discende allora dal presente. Ai vari livelli della conoscenza evolutiva e limitata dell’uomo non regna in assoluto il caos del profluvio casuale degli atomi, bensì una continua possibilità di ordine di cui il Demiurgo si è reso in qualche maniera garante. Il livello analogico è quello tipico della condizione umana ed è allo stesso tempo il modello dell’invenzione e della creatività. Sant’Agostino s’interrogava sulla stessa identica questione, appunto domandandosi da dove tutto ciò venisse all’anima. Così come s’interrogava sul tempo, avendo a tratti quasi la percezione di poterne comprendere intuitivamente l’enigma insondabile.

3* Stiamo cercando di dire che il percorso di risalita della coscienza umana che avviene nello spazio-tempo della storia, lungo l’evoluzione, è legato a meccanismi di tipo fisico sensoriale, il cui imput è minore dell’output.

Il gradino in più di coscienza individuale e collettiva che si è potuto così salire, corrisponde integralmente alle sue radici, ma rimaniamo ugualmente prigionieri nella caverna. Aumenta la luminosità, ma non potremo mai fissare il sole della dimensione superiore. Non raggiungeremo mai il sapere pieno e totale, ma l’esercizio del pensiero si arricchirà sempre di più, dando ragione sufficiente alla necessità di esistere. All’imput biologico si aggiunge in premio l’output di una coscienza maggiore, dilatata, sebbene non totale. La Necessità è questa, aiutata da tre Parche (le tre dimensioni che percepiamo).

L’operatività della scienza moderna è anzitutto una critica dei fondamenti, ed è poi una realizzazione tecnologica progressiva e articolatissima, che deriva da se stessa, per germinazione pressoché spontanea. Il sapere comporta nuovi livelli di conoscenza.

La natura del pensiero non è diversa dalla natura delle cose. Il vivente è quasi totalmente ‘umanizzato’. Ed era la teoria pitagorica della metempsicosi, ripetuta nel magnifico mito di Er, che sigilla la Repubblica, l’opera più complessa e discussa di Platone. La tetraktys pitagorica era l’anticipazione simbolica della conoscenza arcana o archetipa, esprimibile soltanto attraverso l’analogia o l’allegoria. Platone, con la teoria della reminiscenza, ipotizzava una conoscenza, derivante da principi eterni, nascosti da sempre, cui però l’anima s’accosta nella sua evoluzione o maturazione nel tempo, che ha indubbio carattere e forza morale. “Conoscere”, in questo senso, è come “ricordare”, così come – per Parmenide – “pensare è come essere”.

Se non è data una verità assoluta, tuttavia neppure è negata. Il magnifico triangolo divino, rigorosamente equilatero, si prestava a rappresentare i 10 “numeri-punto” della realtà immateriale. Il Timeo (le dottrine cosmologiche di Platone) e la simbolica tetraktys pitagorica sono in stretto contatto.

Le ‘dimensioni’ indicate dalla tetraktys sono 4. Analogia calzante col mito platonico della caverna. Se Platone deve scalare di una dimensione per raffigurare la conoscenza del mondo sensibile, la tetraktys pitagorica indica ugualmente, su due dimensioni, che la realtà universale è invece quadridimensionale. Il simbolo è disposto su un piano, quindi le dimensioni sono 2, ma il piano illimitato è tendenzialmente infinito (quindi le dimensioni diventano 4: dal punto, che può valere 1, si è passati alle dimensioni superiori del 2 e del 3, ma la somma fa 4: e 4 sono le righe in cui si dispongono, a triangolo, i primi 10 numeri naturali: 1, 2, 3, e 4 = 10).

Il concetto ideale di piano geometrico infinito è dunque il tessuto invisibile di tutte le forme. Questo il significato arcano e simbolico del rapporto tra segno geometrico, che è continuo (come il segmento), e il numero naturale che per sua natura è atomico, cioè granulare e discontinuo. Nel piano infinito, ‘numero’ e ‘geometria’ si riconciliano e si fondono.

Ispirandosi alle dottrine pitagoriche di cui era un avido indagatore, in un celebre passo del Menone Platone passa all’annichilimento del punto, che adesso è divenuto un ente geometrico senza dimensioni. Un punto ideale ha dimensione zero. Come avviene nel caso del centro di qualsiasi ente geometrico: un cerchio oppure un quadrato. C’è un punto centrale in cui la figura (piana o solida) è svanita. La ‘singolarità’ è chiaramente equivalente a zero (anche se gli antichi greci non impiegavano questo concetto fondamentale in aritmetica, vittime di un pregiudizio che nell’Odissea trova sfogo nel canto di Polifemo che possiede un occhio solo ed è poi accecato con un palo infuocato).

Conseguentemente, la linea fu concepita da Platone come una lunghezza privadi larghezza, e la superficie comepriva di spessore. Tali idealizzazioni non sopprimono la realtà, ma la riportano all’occhio ideale della mente. A che cosa equivale la superficie sferica, calcolata per primo da Archimede? Qual è il mistero della linea di demarcazione impalpabile tra essere e non essere per il rotondo Sfero?

Archimede ‘pitagorico’ venne a capo della dicotomia geometrica tra retto e curvo, apparentemente incoercibile e irriducibile, rifacendosi intuitivamente – attraverso il “pensiero trasformativo” – alla concezione del piano pitagorico infinito espressa simbolicamente dalla quarta fila della tetraktys. Archimede incarnava un secolo dopo quel grande maestrodella geometria tanto atteso e invocato da Socrate in un notevole passo della Repubblica (VII, 527 D).

Dopo aver accennato ai “solidi tridimensionali”, Socrate evidenzia che la disciplina in questo campo è incompleta e che occorre pertanto un vero “maestro”. Subito dopo comincia a parlare dell’astronomia che difatti “si occupa dei solidi in movimento”.

La geometria greca era rivolta indifferentemente al cielo e alla terra. Era uno strumento servente, il mezzo ideale ed efficace per la conoscenza del Cosmo, da cui indubbiamente è derivata l’ottica (infatti, da dove proviene la luce, se non dal cielo?).

Parmenide di Elea ed Empedocle di Agrigento avevano parlato, nei loro grandi poemi, del rotondo sfero dell’Universo. Il segreto della superficie sferica, che racchiudeva in sé il Cosmo intero, consisteva in senso pitagorico nel numero 4, cioè 4 volte la superficie del cerchio massimo.

Siamo costretti a sostenere che Archimede arrivò a intuire la dimensione del piano infinito, cioè il fattore 4 – o seconda costante pitagorica – della superficie sferica, prima di dimostrarlo formalmente attraverso una serrata serie di teoremi strettamente collegati tra di loro (trattato sul cilindro e sulla sfera).

4* Perché Ananke, la necessità, ha imposto quest’ousia o essenza della sfera solida a 3 dimensioni, rispetto al cerchio che vive nella seconda dimensione? La mente umana non può che restare colpita e stupefatta, anche se alle scuole elementari questi misteri non vengono mai a galla e nei licei scientifici l’argomento banale del calcolo della superficie sferica è ricompreso nelle applicazioni elementari del calcolo infinitesimale.

In realtà, esiste un principio fondante per cui non può che essere così. 4 volte l’area del cerchio massimo di una qualsiasi sfera equivale alla superficie di quella sfera (la stessa idea di superficie sferica è assolutamente geniale). Il mediatore è pigreco, ma 4 è l’altra costante. Il che rende indifferente la misura del raggio. Con raggio zero non c’è sfera e non c’è superficie sferica. I greci conoscevano concettualmente lo zero, ma non lo impiegavano nella loro aritmetica.

Tutta la geometria di Euclide derivava da 5 postulati. Tali postulati erano stati ‘pensati’ per la geometria retta. Euclide non aveva trattato della geometria delle figure curve. Sfera e cilindro, e pure il cerchio, erano un’anomalia nella loro perfezione formale. La ruota era stata un’antica scoperta. Funzionava perfettamente, eliminando al massimo l’attrito. L’orma di un carro era idealmente una linea diritta. Una sfera rotolante lasciava la medesima orma diritta, sebbene incavata, su un terreno morbido, ma anche abbastanza resistente. Un cerchio sottilissimo e una sfera rotolante non si distinguevano, su un terreno ideale. Ambedue lasciavano la traccia ideale di un segmento ideale, che era di dimensione 1 se il punto ideale vale zero. Il cerchio valeva 2, e la sfera ovviamente valeva 3. Aggiungendo 1, si ottiene così la continuità spaziale delle dimensioni del tutto analoga allo sviluppo necessario, in 4 righe, della tetraktys numerica pitagorica. Sembra una banalità, ma non lo è per niente. Ciò è necessario: e quel che è necessario, è anche inquietante.

Misteriosa, almeno in parte, era anche la piramide, nei riguardi del cono. La geometria pura poteva giustamente considerarli dei solidi o delle figure di rotazione, ma le loro superfici e i loro volumi – soprattutto quello della sfera – avevano un che di diverso e d’inquietante.

Da dove potevano venire quei rapporti semplici, come il valore 4 per la superficie sferica e 4/3 per la sfera? Col moderno calcolo integrale non c’è problema, almeno in senso operativo. Il volume della sfera ha un coefficiente di 4/3, mentre la sua superficie prevede un coefficiente 4.

Questi numeri semplici rappresentano l’ousia, l’essenza stessa della sfera, cosicché Archimede poteva contemplarne la bellezza e udire il canto delle Sirene che si accompagnava alla sua “domestica Musa”.

Su di lui avevano agito inconsciamente le suggestioni della simbologia della tetraktys che era transitata nel mito della caverna in Platone.

Utilizzando in serie diverse proposizioni, già dimostrate nel stesso primo libro del trattato sul cilindro e la sfera, Archimede raggiunge l’articolata e laboriosa dimostrazione che la superficie della sfera è necessariamente equivalente a 4 volte l’area del suo cerchio massimo. Si trattava di una dimostrazione puramente geometrica, mentre il calcolo infinitesimale fu inventato sia da Newton, che da Leibniz soltanto nel XVII secolo. Da dove spuntava questa idea del magico quadruplo del cerchio massimo (in tal senso Attilio Frajese)?

Il matematico Serge Lang (La bellezza della matematica, Mondadori 1991, pagg. 217 segg.), colloquiando discorsivamente con gli studenti di una scuola media, fornisce a questi giovani la spiegazione elementare del valore della superficie sferica, derivandola dalla formula già data per il volume della sfera e utilizzando uno sviluppo fatto di semplici espressioni algebriche che erano partite dalla considerazione elementare che il volume è a tre dimensionie la superficie a due (pag. 218).

Qui non interessa il procedimento discorsivo di Lang, un grande matematico che si è dedicato anche alla divulgazione pedagogica e scolastica, che però partiva dalla formula del volume della sfera; bensì interesserebbe sapere come abbia fatto Archimede a intuire in anticipo il fattore 4 della superficie sferica e il fattore 4/3 del volume della sfera, che sono poi le espressioni numeriche determinanti e caratterizzanti l’ousia stessa di questo solido dalla perfezione ideale al quale sono accostabili soltanto le bolle di sapone e la forma degli astri del sole e della luna. E si deve dire che Archimede “intuiva in anticipo”, perché le sue fondamentali dimostrazioni formali sembrano sempre derivare dal nucleo oscuro di un altrimenti inspiegabile germe intuitivo.

5* Bene, questi numeri semplici o rapporti fondamentali [ 4/3 corrisponde a un numero periodico infinito: 1,333333333…] Archimede li aveva concepiti per via ‘dimensionale’, in modo analogico. Ecco perché dalla formula (moderna) del volume della sfera, con pochi passaggi algebrici è possibile ‘dimostrare’ la formula della superficie sferica. In realtà le due cose stanno insieme, appartengono alla sfera in sé e rappresentano un ponte straordinario tra aritmetica elementare e geometria di base. Tra il numero e il punto.

La superficie sferica esige di necessità il numero ‘dimensionale’ 4 [già indicato dalla tetraktys pitagorica], che a sua volta comporta il fattore 4/3, che è la costante del volume della sfera [derivando questo rapporto frazionario di 4/3 dalla dimensione 4 rispetto alla dimensione 3 propria di tutti corpi solidi].

Sembra assolutamente incredibile che la superficie sferica appartenga alla quarta dimensione, simbolicamente indicata dalla disposizione della decade pitagorica e richiamata nel mito platonico della caverna: ma questa idea sorprendete fa sì che la “curva di Peano” è effettivamente capace di riempire un quadrato, che è di dimensione 2.

La curva di Peano ha la stessa dimensione 2 del quadrato e di conseguenza la superficie sferica, cioè il piano o superficie che avvolge la sfera e la contiene, ne rappresenta il prodotto infinito: 2d x 2d = dimensione 4. E così deve essere, giacché la dimensione 3 può riguardare soltanto i solidi, che per essere tali sono necessariamente ‘delimitati’. E’ impossibile avvolgere una piccola sfera con il minimo del materiale impiegato, utilizzando ad esempio un foglio di carta. La superficie sferica, in senso materiale, non può essere riportata in piano, pur avendo un suo dato valore numerico d’area. Qualsiasi sfera è ontologicamente identica a se stessa, sebbene possa variare in concreto il suo raggio, e così variando il raggio, varino per conseguenza anche la superficie e il volume. Esistono due sfere per così dire ai limiti, la sfera nulla e quella impossibile: cioè la sfera ristretta a un punto e la sfera infinita. Nella sfera infinita (puramente ideale), la superficie sferica conserva il valore d4, ma non ha senso la moltiplicazione per un raggio di valore infinito. Mentre la sfera puntiforme ha una superficie sferica sempre di valore d4, ma in questo caso opposto non ha senso la moltiplicazione per zero. Perché possano esistere per i sensi i corpi solidi, è necessario che in geometria esista idealmente il piano infinito, che deve avere valore dimensionale < 4 >. Lo spazio-tempo della moderna e complicata teoria della relatività di Einstein è idealmente coinvolto da Ananke, la necessità, nello stesso concetto geometrico di sfera. Il reale ha la dimensione tempo, l’ideale geometrico ignora il mutamento, ma non fa a meno della quarta dimensione. I prigionieri della mitica caverna di Platone, anime pensanti, hanno compreso che esiste una dimensione superiore, che tutto contiene e rappresenta.

Ecco svelato il mistero dei grandi poemi pitagorici di Parmenide e di Empedocle sul rotondo Sfero, insieme ai cinque solidi del Timeo, e lo studio di Archimede, a noi non pervenuto, sugli altri 13 solidi semiregolari, testimoniati da Pappo [le prime indicazioni geometriche sulla cristallografia deriverebbero dal trattato rinascimentale di Luca Pacioli sui 5 solidi platonici, pubblicato nel 1509 a Milano con disegni di Leonardo].

Il piano pitagorico infinito, rappresentato dall’ultima fila della tetrktys pitagorica, ha il valore ‘dimensionale’ 4, appunto come la superficie sferica. E questo spiega anche perché è impossibile che la superficie sferica possa adagiarsi perfettamente su un piano delimitato. Tuttavia va fatto presente che il concetto moderno di dimensione non coincide con quanto detto.

La geometria moderna è pluridimensionale (es. l’ipersfera: vedi Pg. Odifreddi, La matematica del Novecento, Einaudi 2000, pagg. 22 segg.). La concezione platonico-pitagorica delle dimensioni geometriche, con il limite ultimo della quarta dimensione, interdetta agli occhi umani dei prigionieri nel “mito della caverna”, invece si fondava sulla concezione del piano infinito ideale, capace di avvolgere l’Universo, e pertanto delimitandolo e rendendolo concreto. Il Mondo – pertanto – ha un limite fisico invalicabile, dato dalle tre dimensioni sperimentate dai sensi, mentre l’Idea del piano infinito o quarta dimensione lo costringe a esistere.

Com’è ovvio, ci riferiamo a una concezione antica dell’Universo, anche se in modo nuovo. Sostenendo cioè che Archimede ‘pitagorico’ aveva presente il modello del Timeo di Platone e le dottrine pitagoriche. Il Siracusano non era un atomista, come ritenne di inquadrarlo Michel Serrès, ma un seguace degli ideali platonici di perfezione. Perciò sarebbe vano e inutile farne il fondatore della matematica del movimento, e il prototipo di uno scienziato moderno del XIX secolo. Archimede resta un platonico, e lo è anche nell’Arenario, la cui ‘sabbia’ o granelli di papavero sono solo e soltanto un termine di misura per il volume immenso del Mondo (o rotondo Sfero). L’atomismo di Democrito e di Epicuro non riguarda Archimede, la cui opera è dominata dalla speculazione geometrica e dalla contemplazione delle forze in equilibrio (un’anticipazione della terza legge del moto in Newton). L’atomismo di Platone è di tipo ideale, da intendere in senso geometrico e non in modo fisico. Così doveva essere anche per Archimede. Al discreto numerico si contrapponeva il continuo geometrico, per cui l’Universo ovvero l’Essere immutabile di Parmenide era una sintesi di questi due aspetti, come sarebbe oggi per il concetto unitario di materia-energia. L’ideale di perfezione prescindeva dal divenire, nel senso del mutevole. Esistere era più che modificarsi. La tendenza all’essere era lo scopo del divenire. La metafisica dell’Essere è implicita nel pensiero matematico e fisico del Siracusano le cui matrici culturali erano d’impronta pitagorica e platonica.

 

1 Si tratta del “grande anno”, cioè il ciclo intero in cui le singole orbite planetarie (stelle mobili sullo sfondo del cielo delle stelle fisse) sembrano riunirsi (minimo comune multiplo). Ne ritroveremo un sorprendete riferimento criptico in ‘Properzio segreto’, con l’indovino Horos (elegia IV, 1). Vedi articolo specifico sul nostro sito anche a proposito del tema astrale di Augusto presente nella monetazione e celebrato dai poeti.  

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