Assisi, 1952: Georg Saeflund – Fioravante Caldari – Kàroly Kerényi
[Per gentile concessione del Generale C.A. (r.o.) dei Carabinieri Franco Caldari]
SESTO PROPERZIO E LA C.D. DOMUS MUSAE
(Casa di poeti o luogo di oracoli?)
Abstract: La c.d. domus Musae (casa della Musa) non può essere il ‘criptoportico’ di una ‘casa di abitazione’, nelle specie, casa natale di Propezio ad Assisi e casa anche del suo “discendente e municipale” Paolo Passenno, all’epoca di Traiano. La questione è complessa, coinvolgendo secondo un’ampia domus nelle immediate vicinanze, d’età augustea, scoperta per caso dopo il sisma del 1997.
L’inattendibilità di pregiati intonaci, scalfiti con un punteruolo nell’anno 367 d.C., quando ad Assisi non si era verificato alcun trauma storico-politico, e tutto rimaneva tranquillo, nel solco dell’ordinaria continuità, fa sì che il caso si presenti con altra sfaccettatura, dovendosi presumere, con l’abbandono del luogo, un sito di altra natura, giustificato dall’orientamento astronomico e della contiguità con la cerchia delle antiche mura umbro-romane. Si può uscire dall’impasse, in un complesso concomitante di singolari circostanze, compresa la presenza di graffiti greci e latini, apportati da mani diverse, rovinando l’intonaco originario dello zoccolo, sopra il quale, ad altezza d’uomo, figura una serie di quadretti d’affresco, ad andamento alterno, quadrati e rettangolari, postulando un sito oracolare e un percorso sacrale, dall’esterno della cinta muraria fino al luogo interno comunicante. In tale contesto, emergono altri significati, persino l’identità dell’autore (anonimo) del graffito datato 22 febbraio 367, in cui il luogo veniva chiamato domus Musae (il poeta Decimo Magno Ausonio, originario di Bordeaux, grande cultore di Properzio).
Ciò spiega perché, alcuni decenni dopo, sorse qui la prima chiesa di Assisi, col vescovado e le acque battesimali, inglobando e preservando la pianta originaria dell’edificio preesistente in zona “Moiano”, antico toponimo che sembra confermare il significato di monte, fonte o porta di Giano, con riguardo all’antica cinta muraria, qui caratterizzata dalla presenza di una ‘portella’, o passaggio in risalita, recante un’iscrizione latina, diversamente interpretabile, che doveva collocarsi verso l’alto, quasi alla sommità del muro, e non alla base dello stesso, giacché anche in questo caso si sono verificati errori di valutazione (qui, il muro, è alto appena due metri, in realtà ciò è dovuto al fatto che vi è stato addossato un terrapieno, che impedisce di scorgerne la profondità, mentre è viceversa da escludere che la cinta muraria antica, in questo punto, sia stata uniformemente abbassata, estraendone materiali lapidei). Nel 1162, data certa del rifacimento della chiesa di Santa Maria Maggiore, già antica cattedrale, la cinta muraria, coincidente con quella di età umbro-romana, era già a ridosso dell’abside romanica e della sottostante cripta dell’VIII-IX secolo.
La domus Musae si trova sette metri al disotto della pavimentazione della chiesa romanica, sulla navata destra. Analogo corridoio si trova in corrispondenza della navata sinistra (se ne scorgono le tracce, sebbene rimanga interrato).
La presenza del doppio corridoio, e di uno spazio libero all’interno, esclude ancora una volta che potesse trattarsi di una domus o “casa di abitazione”. Il riferimento alla [magica] Musa dipende poi da un verso di Properzio (cfr. IV, 4, v. 51: elegia dedicata a Tarpeia, con corrispondente passo in I, 16, v. 2). Le valutazioni di Fioravante Caldari e Kàroly Kerènyi erano corrette. Fu Caldari, allora Presidente dell’Accademia Properziana del Subasio, a scoprire e a valorizzare la c.d. domus Musae, studiata da Margherita Guarducci come “casa natale” di Properzio.
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PREMESSA
Fioravante Caldari – personaggio complesso e multiforme, noto farmacista di Assisi, e negli anni ‘50 del secolo scorso, già Presidente della secolare Accademia Properziana del Subasio – è il primo scopritore della c.d. domus Musae, comunque riferibile alla GensPropertia.
L’antica cattedrale di Assisi – o prima domus christiana –, cioè Santa Maria Maggiore, accanto alla quale si trova ancora oggi il Vescovado, com’era già al tempo di san Francesco e in precedenza, sorse nel V secolo, sopra i resti di un antico edificio di natura incerta, la c.d. domus Musae – o casa di poeti – secondo Margherita Guarducci, che dopo gli scavi di Caldari, proseguiti dalla Soprintendenza, si occupò della ricostruzione e dell’interpretazione dei graffiti, soprattutto greci, che comparivano sull’intonaco, al disotto di alcuni quadretti pittorici – quadrati e rettangolari – molti dei quali svaniti.
L’attuale chiesa romanica risale a un rifacimento del 1162, attribuibile a Giovanni da Gubbio, ma le sue origini, come luogo di cristiano, risalgono in antico, al momento in cui, sotto Teodosio I, il Cristianesimo fu ufficializzato, abolendo i culti pagani.
L’antichità del sito era già nota, tanto è vero che la Società archeologica locale, sorta in età unitaria dopo gli scavi ad Assisi di Charles Famin (1839-1842), nel 1864 aveva scoperto alcuni locali, a stretto ridosso dell’antica cinta muraria umbro-romana, che facevano parte delle fondazioni della chiesa.
L’edificio ecclesiale poggia difatti a valle, su antiche preesistenze, definite dalla Guarducci come “criptoportico” di una “casa di abitazione”, che sarebbe la casa di Properzio, ma l’impianto originario era stato obliterato, sebbene doveva esserci stata un’antica frequentazione, sia perché in quegli ambienti, poi ricoperti dal terriccio, sarebbero stati trasferiti alcuni materiali lapidei di altra provenienza, sia perché dagli scavi era emerso anche un antico sarcofago cristiano d’età longobarda (oggi conservato nella chiesa), e sia pure perché non può nemmeno escludersi che la grotta iuxta civitatem in cui Francesco nei primissimi tempi si ritirava in preghiera, potesse essere uno di questi locali sotterranei, che con i lavori globali del 1162 non potevano essere sfuggiti alle maestranze dell’epoca. *[Altro enigma: una lapide in latino, di difficile interpretazione, posta nell’abside della chiesa romanica e recante la data del 1216, che nomina espressamente Francesco].
Nel 1949 il Dott. Caldari iniziò – a proprie spese – dei lavori di scavo nelle antiche fondazioni di Santa Maria Maggiore, dal lato rivolto a sud, verso la vallata sottostante, avendo intuito col suo sesto senso che doveva esistere qualcos’altro d’importante, aldilà di quanto già gli scavi del 1864 non avessero messo in luce. A contatto con la cinta muraria umbro-romana, a stretto ridosso dell’abside romanica, nel 1864 erano stati individuati un paio di ambienti d’età romana, pavimentati e intonacati. Caldari aprì un varco laterale, sul fianco sud, penetrando in un vasto corridoio affrescato, i cui scavi non poterono proseguire per ragioni statiche inerenti al complesso soprastante.
Consapevole dell’importanza dei primi ritrovamenti, era difatti emersa una lapide frammentaria molto interessante, poiché recava l’indicazione della gens Propertia, Caldari volle consultarsi con massimi esperti dell’epoca, quali l’archeologo G. Saeflund e lo storico delle religioni antiche K. Kerényi.
Oltre alla lapide frammentaria, erano affiorati un pinax col ‘carro solare’ di Apollo, trainato dai grifi, e con le insegne oracolari ribadite da un graffito greco sottostante, un secondo pinax, anch’esso molto interessante, e infine un grande viridarium, con strane foglie rosse, a forma di cuore, e diverse specie di passeracei.
Il toponimo Moiano lasciava intendere una radice sacra: Giano, il cui culto, ad Assisi, era ben attestato epigraficamente (‘Giano bifronte’ è una divinità massima dell’antica Italia).
Caldari pensò a un luogo sacro, a un tempio oracolare: le nuove chiese cristiane sorgevano, di solito, sopra i resti di antichi templi pagani, ormai in abbandono. Gli scavi parziali avevano messo in luce una parte più vasta del complesso, ma non potevano essere sufficienti a fornire un quadro completo ed esauriente. Ciò nonostante, quanto emerso era già molto importante. Il graffito greco sull’intonaco, al disotto del quadretto del carro oracolare di Apollo, recitava: L’inclito carro di Apollo (Pean), l’arco e latromba acuta. I Grifi e i tripodi (sono) segni di virtù divinatrice (abbiamo riportato la versione fornita da Caldari).
Vennero ad Assisi G. Saeflund e K. Kerényi, confermando in pieno, con la loro autorità, la sensazione d’una importante scoperta (è rimasto il carteggio Caldari – Kerényi). Ma è bene riportare le stesse parole di F. Caldari nella comunicazione da lui fatta nel 1955 pubblicando un articolo sugli Atti dell’Accademia (Serie V- N.2 – dicembre 1955) intitolato Il tempiooracolare di Apollo e Sesto Properzio: << E’ toccata a me non la fortuna, perché già ‘tattilizzata’ anche se non visibile, perché già afferrata anche se non ponderabile, è toccata a me la gioia sulla carta prima e sul terreno dopo, a 7 metri di profondità, di sentire e di trovare i resti di un tempio pagano, grazie al psichismo anticipatore ed ai riflessi indicativi e localizzativi >>.
Fioravante Caldari è stato infatti un grande sensitivo, amico personale di Marco Todeschini. La scoperta gli derivava, sulla carta, dall’aver avvertito con certezza l’esistenza di qualcosa d’importante a livello ‘sensoriale’. Ciò non desti meraviglia o incredulità, perché Caldari, serissimo professionista e studioso altrettanto serio, era effettivamente dotato di certi ‘poteri’.
<< Mentre le bacchette stimolavano i riflessi ed incoraggiavano il lavoro, la terra si faceva lieve, obbediente, si lasciava trasportare per rivelare un segreto celato e difeso da tanti secoli. Un primo muro a pietre conce ed allineate, che ricorda la maniera di costruire degli Umbri, mi dette ragione dell’antica esistenza di un primo tempio e sicuramente quello di Giano, deità policefala, di origine nordica, portata già dagli Umbro-Veneti con i quali i filologi potrebbero trovare in comune molte nostre parole. Incoraggiato dai risultati e sospinto dallo stimolo delle bacchette, sono andato più avanti, ho trovato un altro muro, ma di epoca romana. L’ho rotto a fatica, ma la gioia si è fatta esplosione. Era una parete affrescata, fatta di più strati di malta per evitare, come un compensato, le gonfiature provocate dall’acqua di cristallizzazione che accompagna il nostro calcare e l’ultimo con tanti minutissimi granelli di sabbia in superficie per assicurare la presa e il mantenimento dell’affresco >>.
Con le parole dello scopritore siamo penetrati in un grande corridoio o criptoportico di quella che in seguito prenderà il nome di domus Musae. Casa di poeti oppure tempio oracolare di Apollo? Caldari si trovò davanti al quadretto non svanito del carro di Apollo e al graffito greco inciso con un punteruolo sull’intonaco originario. Scoprì anche altri affreschi (“pitture oracolari”), facendo colpo grosso (erano gli unici tre affreschi ancora ben conservati, mentre gli altri affreschi scoperti in seguito hanno lasciato appena una vaga traccia).
Proseguiamo nel racconto della scoperta. Dopo il carro di Apollo, c’era un secondo affresco: << Un isolano, un tratto d’azzurro marino, una bella testa adagiata d’Orfeo vaticinante e l’ariete e la capra e l’agnello, animai sacri al culto, danno colore e pienezza alla pittura. Anche sotto questo “pinax” c’è un distico greco graffito, poco leggibile per gli urti ricevuti >> *[Margherita Guarducci chiarirà che il distico greco si riferisce al mito di Polifemo e Galatea, già richiamato da Properzio in III, 2, 5-6: “e Galatea sotto il selvoso Etna, o Polifemo, / ai tuoi canti piegò i suoi cavalli, roridi di mare”].
Dopo quest’ultimo quadretto, comparve un grande viridarium, incassato nel muro (parete nord). << Le bacchette incalzano, stimolano e la terra viene rimossa a fatica nell’angusto cunicolo, già lungo una ventina di metri […]. Ma ecco il lucus apollineus nella parete rientrante, dipinta a ramoscelli di fiori e su questi e tra le foglie alcuni uccellini nell’atto di beccare o di cantare. In basso una civetta, simbolo di Athena, e in fondo altri uccelli rimasti a guardia di tanto segreto. Ma una vera sorpresa è stata quella di aver trovato dipinte le bacche o drupe di caffè nel loro bel colore roso ciliegia. Il Caffa era allora conosciuto e i mercanti d’incenso dovevano portare anche questi frutti e la Pizia facendone uso raggiungeva stati paranormali sollecitata dalla caffeina che come l’alcool esaltano queste peculiarità della psiche e fanno dell’individuo un percettore extra normale >>.
E’ difficile che un farmacista esperto com’era Caldari potesse sbagliarsi a proposito delle drupe del caffè (foglie rosse a forma di cuore). Gli uccellini risultarono, in seguito, 96 specie diverse di passeracei (96 in tutto).
<< Dopo il lucus apollineus, ecco una colonna dorica dove il tripode faceva ardere resine profumate e la Pizia ne traeva presagi e post III precationem ne dava il responso come ricorda un’iscrizione incisa sull’architrave della porticina aperta nel muro esterno di cinta romano >>. Qui il riferimento di Caldari consiste nell’associazione di un percorso d’ingresso nel sito magico, da una portella posta ad angolo sulle mura umbro-romane, che contornano l’abside di Santa Maria Maggiore, certamente individuando uno strano luogo, posto alla base delle mura stesse, a 7 metri di profondità rispetto al pavimento attuale.
Caldari recuperò anche la parte principale di una lapide frammentaria, di cui in seguito furono rinvenuti altri frammenti, però incompleti, in cui si leggeva chiaramente il nome Propertius. Scoperta importante, perché era un’ulteriore possibile prova della nascita ad Assisi del poeta, comunque già ammessa da tempo. Per Margherita Guarducci, quel luogo ove era già penetrato Caldari, posto a fondamenta della chiesa, non era un tempio oracolare, ma il criptoportico di una casa romana di abitazione (esempi a Pompei), e cioè una casa di poeti (la casa di Properzio e poi di Paolo Passenno, discendente del poeta, e amico di Plinio il giovane).
La Guarducci lo dedusse dalla lettura di un graffito latino anonimo, da lei rintracciato sull’intonaco parietale subito accanto al viridarium: Sotto i consoli Giovino eLupicino ho baciato la casa della Musa (osculavi domum Musae), il 22 febbraiodell’anno 367.
Gli scavi iniziali di Caldari si arrestarono; per proseguire, negli anni successivi, col Soprintendente per l’Umbria, Dott. Umberto Ciotti, che decise, infine, di incaricare Margherita Guarducci del compito scientifico di recuperare pazientemente i reperti e di decifrarli. La Guarducci, nel 1976, fu in grado di fare una prima comunicazione, in occasione del Primo Colloquio Properziano, per pubblicare i risultati definitivi, prima nel 1979, in Memorie Acc. Naz. Lincei, XXIII, e poi nel 1985, in Rend. Acc. Naz. Lincei, 40. Lavori assai importanti, ma non per questo immuni da errori. La Guarducci corresse ad esempio la data iniziale, avendo dapprima riportato il 23 febbraio, anziché il 22.
L’epigrafe parziale, recuperata da Caldari nei suoi scavi, rimase a lungo in custodia della Soprintendenza Archeologica dell’Umbria, tanto che il figlio di Fioravante, il generale Franco Caldari, fece nel 1998 un’interpellanza all’allora Ministro per i Beni Culturali Walter Veltroni, per accelerarne lo studio e la pubblicazione. Nel 2004 Luigi Sensi pubblicò un importante articolo (I Propertii e il teatro di Asisium) col quale forniva il testo presumibile della lapide, giovandosi di altri quattro frammenti, che erano stati recuperati dalla Soprintendenza nello stesso sito.
Il senso della lapide incorniciata, una lapide pubblica, recitava nei termini del “mandato testamentario” di un C. Propertius affinché fosse ultimato il teatro di Assisi, incominciato da un Sex. Propertius. Presumibilmente il grande poeta latino, di cui si poteva parlare d’amore per il teatro. Leggibili i nomi, e leggibile anche la parola ‘chiave’ theatrum. Ma com’era finita quella lapide, spezzata in più parti e del resto mutila, nella c.d domus Musae? A quale stile possono essere fatte risalire quelle pitture, e chi avrebbe inciso sull’intonaco originario – e perché – i distici greci e gli altri graffiti latini?
Queste, e altre domande ancora, che investono la natura del luogo ed esigono una spiegazione razionale. Il corridoio, dove era penetrato Caldari rompendo il muro esterno, non solo era ornato da altri residui di affreschi, ma anche da “belle candeliere” (infatti il luogo prendeva luce da piccole feritoie), e c’erano infine affreschi non svaniti, molto interessanti, ognuno col suo graffito greco (10 in tutto), che essendo stati apportati sul’intonaco originario, rivelavano non solo mani differenti (almeno 5), ma anche intenzioni successive (dunque un bell’enigma).
Nel 1976, la Guarducci ripercorreva brevemente i fatti precedenti: << Tali rinvenimenti destarono l’entusiasmo di Karl Kerényi, il quale, dopo aver visitato a due riprese lo scavo (1951 e 1952), si dette a fantasticare un poco su Apollo e, insieme, pensò inevitabilmente anche a Properzio, il poeta umbro che tanti versi aveva dedicato a quel dio. Il ricordo di Properzio trovava sostegno, secondo Kerényi, in una lapide latina recante il nome di un Properzio, che i primi scavi di Fioravante Caldari avevano messo in luce […]. Il Kerényi non rifletté però che la famiglia dei “Propertii” era molto diffusa ad Assisi e non si accorse che quella lapide era, disgraziatamente, un pezzo di riporto proveniente da altra zona dell’antica città >>. << Fra gli entusiasmi e le ipotesi di vario genere intervenne, a un certo punto, la Soprintendenza alle antichità dell’Umbria, nella persona del dott. Umberto Ciotti. Ebbe inizio allora un’indagine sistematica, la quale mise allo scoperto tutta la parete su cui si trovavano le pitture, e un’altra parete opposta, non che alcuni ambienti attigui. Ci si accorse pertanto che ci si trovava non già in un luogo di culto, ma in un ampio corridoio (o criptoportico) di una casa e se ne confermò la datazione all’età augustea >>. *[La trascrizione corretta del nome di Kerényi è Kàroly].
Le sottolineature sono mie, e mia è anche la prima domanda: come faceva Margherita Guarducci a ritenere che i frammenti della lapide fossero materiale di riporto, proveniente da altro luogo della città?
Chiediamolo a L. Sensi. Egli scrive che << tra i materiali di riempimento che obliteravano quegli spazi, nelle successive campagne condotte dalla Soprintendenza furono individuati altri frammenti epigrafici, ma solo recentemente il riordino dei materiali, operato a seguito del sisma del 1997, ha permesso di riconoscere che tra i venti lacerti epigrafici provenienti da quell’area un gruppo di cinque pezzi appartengono a quella stessa lastra che reca inciso il nome di Properzio. Malgrado notevoli lacune i frammenti possono essere ricomposti e ricostituire la parte sinistra di una grande lastra >>.
Luigi Sensi dà atto del precedente rinvenimento, da parte di Caldari, del frammento più grande della lapide, e aggiunge che: << degli altri elementi non si hanno al momento dati relativi al rinvenimento, ma certamente sono stati individuati nella stessa area durante le lunghe e complesse operazioni di scavo condotte dal dr. Umberto Ciotti >>.
La questione è singolare. F. Caldari, nel 1955, parlava – infatti – di una lapide (frammentaria), << appoggiata nella parte esterna del secondo muro e non completamente liberata dalla terra che la sostiene, per timore di un distacco >>.
La Guarducci (nel 1976), parlava invece di << materiale di riporto >>; L. Sensi (nel 2004), di rinvenimenti plurimi, << nella stessa area >>. In tutto 5 pezzi, con ‘due coppie’ adiacenti. Che possa trattarsi di materiali lapidei di riporto è aleatorio. Rimane il problema della presenza di diversi frammenti di una stessa grande lapide, in quel dato luogo, lontano da dove si trovava il teatro romano di Assisi, accanto alla cattedrale di S. Rufino o nuovo duomo.
Sembra di poter intendere che le ipotesi sono non più di tre, nei seguenti termini: 1) la lapide che ornava il teatro, spezzata in più parti quando fu colpito anche tale simbolo pagano, fu ritirata dalla gens Propertia; 2) oppure qui fu portata, al momento in cui sorse la primitiva domuschristiana sulle fondamenta dell’edificio preesistente, di cui va meglio identificata la natura, non bastando il semplice riferimento a un criptoportico; 3) che in età medievale siano stati riutilizzati materiali lapidei antichi per le fondamenta o le sostruzioni della nuova chiesa romanica di Santa Maria Maggiore, ultimata nel 1162.
L’ipotesi più confacente al ritrovamento di Caldari è che la lapide spezzata qui si trovasse già in antico. Il che ci riporta al problema della natura del luogo.
A questo proposito non può essere sottaciuto che secondo la Guida di Assisi di P.M. Della Porta, E. Genovesi, E. Lunghi, la chiesa di Santa Maria Maggiore, cioè la primitiva cattedrale di Assisi, risalente in origine al IV-V secolo, è caratterizzata da un’antica cripta del IX secolo, da preesistenti elementi decorativi lapidei del VII e VIII secolo, e che un bell’esempio di sepolcro di età alto-medievale, riportabile al VII-VIII secolo, sarebbe stato rinvenuto negli scavi archeologici del 1954 (a cura della Soprintendenza).
Dunque, il sito archeologico della c.d. domus Musae, che fa da fondamento alla chiesa romanica attuale, non solo si trovava nelle immediate adiacenze della cinta muraria umbro-romana (di cui rimangono ampie tracce tutte al contorno), ma per forza di cose non era rimasto sconosciuto, in età alto medievale. Infatti, c’è un antico percorso di accesso, ostruito in seguito, che dalla cripta d’età alto-medievale, recava giù dabbasso, fino all’imboccatura del corridoio romano, e i primi due vani, a contatto con le mura antiche, a 7 metri di profondità.
La situazione descritta è quantomeno anomala, anche perché si scorgono analoghe strutture sotterranee, anche sull’altro fianco (lato “a monte”) dell’edificio ecclesiastico romanico. Il che lascia immaginare che i corridoi fossero due, come le due navate, e che il preesistente edificio più antico non potesse conformarsi a una vera e propria casa di abitazione, di cui il corridoio a valle (posto sul lato sinistro), fosse il ‘criptoportico’ di accesso a un giardino ricompreso. Il dislivello del terreno in risalita è evidente anche nella cinta muraria che si trova a stretto ridosso. Per cui, anche la portella posta ad angolo, che si insinua fin dall’origine, attraverso le antiche mura umbro-romane, che contornano l’abside, recante un’iscrizione latina che è stata spiegata come Iter Precarium – istituto giuridico del Digesto da intendere come passaggio breve, a “titolo precario” – non si concilia con lo stato effettivo dei luoghi giacché in quel tratto le mura non erano ricoperte da un dosso o collinetta di terra come oggi, bensì calavano in basso, come si vede dall’interno, appunto gli ambienti d’età romana che coincidono con le mura. Di conseguenza, la portella (che è poi orientata), che si trova poco al disotto del muro che, da questa parte, appare molto basso, appena due metri, in realtà si trovava originariamente quasi in vetta, quantomeno oltre la metà superiore. Quindi, anche l’iscrizione della portella: Iter Preca, che gira ad angolo acuto, unico caso per le mura antiche, viene ad avere altro significato, ad es. quello di un iter preca-tionis, nel senso già sottinteso da Caldari. Aspetto importante, questo, da cui discendono delle conseguenze altrettanto importanti circa la qualificazione dei luoghi.
Il tratto murario antico su cui si apre la portella è un complesso unitario originario, di natura difensiva, che non consentiva varchi e indebolimenti: l’apertura di passaggio era posta in sommità, e non alla base del muro, come si pensato finora. Si trattava, dunque, di un percorso sacrale, cui si accedeva in tempo di pace per mezzo di una scala di legno e attraverso il quale ci si introduceva oltre le mura, fino a scendere di nuovo in profondità, per sette metri, all’ingresso del corridoio, scavato e scoperto da Caldari, aprendo un varco sul fianco del muro di quell’edificio singolare, illuminato da piccole finestre strombate, contenuto all’interno del perimetro murario di contorno, dove doveva aprirsi un giardino, o altro spazio esterno, rispetto alle quote in risalita (attualmente, questo spazio è occupato dagli edifici dell’episcopio, che appunto si accostano alla chiesa romanica del 1162).
Le rispettive quote variano in rapida risalita, e l’antica cinta di mura ha qui i suoi tratti salienti. L’edificio ecclesiale è orientato, riflettendo l’antica pianta sottostante. L’abside della chiesa di Santa Maria Maggiore è rivolta al punto del sorgere del sole alla data del solstizio d’inverno. Anche le mura antiche umbro-romane, in questo tratto, hanno un andamento singolare.
L’aver ignorato questi aspetti, singolari e qualificanti, ha comportato una serie di errori di valutazione a catena, non ultimo quello di aver confuso l’effettiva esistenza di un doppio corridoio, posto su ambedue i lati, su cui poi sorse la prima chiesa cristiana di Assisi, appena dentro le mura, con il solo ‘criptoportico’ d’accesso, rispetto a una domus, posta a monte, là dove non poteva trovarsi alcun edificio di abitazione, sia per ragioni logistiche, che in relazione alla conformazione dei luoghi.
La prima chiesa di Assisi è sorta sui resti di un singolare edificio pagano, formato da due lunghi corridoi, tra loro comunicanti, intervallati da alcune stanze, che non avendo luci e finestre, non erano concepiti come abitazione.
Non è possibile superare l’obiezione, rispetto a una domus che non si saprebbe dove collocare, verso monte, poiché la pianta della chiesa romanica del 1162, rifacimento di quella precedente, più antica, insiste al disopra del corrispondente edificio d’età romana, riflettendone parimenti la conformazione e l’andamento. Ed è infine naturale presupporre che anche in questo caso si sia verificata una sostituzione tra il culto pagano e quello cristiano. Ne è prova diretta il fatto storico assodato che la chiesa primitiva e l’episcopio formavano un tutt’uno, giovandosi altresì delle acque disponibili (vasche antiche) per il rito battesimale.
La zona antica di Moiano è caratterizzata dalla presenza di rinomate acque sorgive, e il toponimo ha conservato in sé la traccia originaria del culto di “Giano padre” (monticello di Giano), qualora non si riferisca a una “porta” o una “fonte” (ianua Iani, mons Iani, oppure fons ianuae: è noto che nei toponimi si conservano tracce importanti del passato remoto).
La presenza di una strana porta sulle mura, caratterizzata da un’iscrizione, unico caso, indicherebbe in origine un culto di Giano (come mons et ianua Iani), corrispondente appunto a “Moiano”.
Altre domande attendono una riposta. A quale epoca appartengono gli affreschi, perché rovinando l’intonaco originale furono (da mani diverse) incisi quei graffiti greci di genere metrico, che relazione può esservi con i quadretti alternati (quadrati e rettangolari), quale la relazione con il tutto attesa la singolarità del luogo che non può essere isolato dal suo complesso.
Infine, come poté un anonimo sconosciuto entrare in casa altrui (nel 367 le belle “case” romane di Assisi erano tutte quante abitate, né ci sono segni di distruzioni e d’improbabili abbandoni dovuti a terremoti), per rovinare l’intonaco con un punteruolo, in un ricco criptoportico di passaggio, qui scrivendo che aveva “baciato la casa della Musa”? Casa di poeti o casa della magica Musa? C’è qualcosa che non va. Si è finora prestata fede a un quadro che non regge a una attenta analisi critica complessiva. Non intendiamo fare da correttori di bozze, ma ciò che non convince è la serie dei fatti e come sono stati valutati. Il dilemma è ben posto: ci vuole un eccesso di credulità per ritenere quel corridoio come appartenente a una casa di abitazione, come “criptoportico”. La “casa” della Musa si riduceva a questo spazio?
Vedremo che esiste il modo per rispondere alle domande, senza dover escludere che la casa di Properzio si trovasse nelle vicinanze, nell’ambito di una proprietà unica, almeno in origine. Ma c’è inevitabilmente un’ultima domanda, necessariamente coinvolta. Se il “Sesto Properzio” della lapide ritrovata per primo da Caldari fosse stato il grande poeta latino, e se Paolo Passenno, che era suo “discendente e municipale”, è quello dell’epigrafe assisiate n. 47 del lapidario civico, forse Properzio si sposò ed ebbe figli?
Con una certa leggerezza, cioè senza considerare la complessità d’insieme, sono stati compiuti studi parziali, slegati, sprovvisti di logica unitaria, e per così dire imposti d’autorità, metodo pessimo, che di recente si è arricchito di altri esempi. In questa maniera non si rende un servizio alla verità, innestando valutazioni aleatorie su dati archeologici certi.
Ne era consapevole Arnaldo Fortini, che in Properzio il più ardente poeta d’amore (pubblicato nel 1931), non solo cercò di rintracciare alcune linee prima mano, ma chiaramente affermava (accogliendo la tesi di Hertzberg) che Properzio fosse ritornato ad Assisi e che qui si fosse sposato e avesse avuto dei figli (Paolo Passenno era un “Properzio”).
Perugia ha cercato di esercitare almeno nell’ultimo mezzo secolo una sorta di mundio culturale su Assisi, ma veramente non ce n’era alcun bisogno (sappiamo fare da noi). Con quali risultati? Che la statua di Augusto in panni di pontefice massimo non sarebbe altro che la statua di un magistrato locale (per di più sbagliandone anche la datazione), che il tempio non è di Minerva, che la domus Musae non è come credevano Caldari e Kerényi, che non esistono ‘misteri’ per gli addetti ai lavori, e via dicendo. Così che lo scrivente, che invece trova e dimostra, sarebbe nei fatti uno scriteriato.
Gioverà ripetersi: ad Assisi ci sono tante cose importanti, mai prese in considerazione per come meritano, nella placida connivenza esclusiva, tra istituzioni e addetti (dunque un monopolio). Lo dimostreremo anche in questo intervento sulla domus Musae, con un richiamo al rispetto delle regole, che esigono – quantomeno – un leale ‘apprezzamento critico’ per le ‘dimostrazioni serie’ e per le ‘scoperte importanti’, senza altro scopo che la ricerca del ‘vero’ (non in regime monopolistico). Mentre sorprende l’assenza di studi sul tempio romano di Assisi, dopo Gross e Theodorescu (1987).
Abbiamo già rivelato che esiste una parte segreta di Properzio, poeta elegiaco d’amore, dimostrando tutta la solidità di tale scoperta. Qui invece dimostreremo che anche la c.d. domus Musae racchiude segreti mai compresi in precedenza. Il presente intervento, altrettanto originale, è integrato da un utile corredo d’immagini, particolarmente eloquenti, poste al termine dello scritto. Le didascalie consentiranno i riferimenti puntuali al testo scritto.
2. I LUOGHI
Giacché Margherita Guarducci, concentrandosi nel suo importante lavoro epigrafico, ha scordato di descrivere l’ambiente complessivo, ricorriamo al quadro tracciato da Maria J. Strazzulla nel 1985 (Assisi Romana), e alle pubblicazioni di Laura Manca (Le domus romane di Assisi, 2005; La domus del lararium, 2012), accanto al lavoro di Enrico Sciamanna (Asisium, 2011). Esistono altri lavori, a tali fini non rilevanti.
Scriveva la Strazzulla: << Alcuni scavi, condotti nel 1864 sotto l’abside della chiesa di Santa Maria Maggiore, rivelarono l’esistenza di tre ambienti comunicanti tra loro, due dei quali conservavano il pavimento originario a mosaico e resti della decorazione parietale. Riprese nel 1954 per iniziativa di un appassionato studioso locale, il dott. A. Caldari, le indagini, purtroppo condizionate da numerose difficoltà di carattere tecnico, portarono al ritrovamento di un tratto di un criptoportico che in origine doveva circondare uno spazio aperto, probabilmente adibito a giardino (Caldari 1955) >>. Possiamo già notare degli errori. Caldari si chiamava Fioravante, e non era uno studioso “locale” (ma uno “studioso”). Caldari non fece alcun riferimento a uno spazio aperto, a un giadino, circondato dal criptoportico, così come non fece alcun riferimento a un “criptoportico”, al quale si riferì invece la Guarducci. Infine, gli ambienti già scoperti nel 1864, non solo sono a contatto con le mura antiche, a 7 metri di profondità, ma il pavimento marmoreo geometrizzato di una di queste tre stanze adiacenti, ha rivelato un rovescio di mattonella quadrata recante a rilievo il disegno di una foglia spinosa d’acanto. Questo fatto è stato scoperto e interpretato da Laura Manca come il reimpiego, a uso di mattonelle di pavimentazione, di precedenti decorazioni parietali marmoree a rilievo. Strana soluzione (quella mattonella centrale rimuovibile, con la foglia d’acanto nascosta, non avrebbe altri analoghi e ripetuti esempi), anche perché è ben strana cosa un tale reimpiego, praticamente impossibile e pressoché insensato. Potrebbe invece trattarsi di un ‘rito fondativo’, del resto Acantide, la Spinosa, è il nome della lena di Cinzia in IV, 5. Agli archeologi è sfuggito anche il riferimento della Musa. Ci si può ‘fidare’?
Prosegue la Strazzulla: << Nel braccio interessato dagli scavi (quelli di Caldari o quelli poi eseguiti in silenzio dalla Soprintendenza all’epoca di Ciotti? – n.d.r.), il muro interno, in travertino (ad Assisi sono stati impiegati travertini diversi in epoche diverse: manca del tutto uno studio al riguardo – n.d.r.), era addossato ad un terrapieno retrostante; quello esterno in piccoli blocchi di calcare (locale) presentava invece una serie di finestrelle con strombaturaadangolo acuto (l’ambiente di passaggio era buio, degli lucerne come affreschi – n.d.r.). Le pareti erano rivestite da una finissima decorazione pittorica (qui l’archeologa, accennando al viridarium, ne tralascia i dettagli stupefacenti). Ai lati, sulle pareti del criptoportico, correva una decorazione ripartita in tre fasce sovrapposte. Inferiormente è un basamento decorato con motivi stilizzati, di maschere entro tondi e di ippocampi entro specchiature ovali. La parte mediana della parete è scandita da palme alternate a candelabri stilizzati collegati tra loro da festoni. Al di sotto sono dei piccoli quadretti sovra dipinti a tempera, ciascuno contraddistinto da un epigramma graffito in lingua e caratteri greci. Due solo quadretti sono leggibili […]. Il soggetto degli altri quadretti (alternatamente: quadrati e rettangolari – n.d.r.), ora evanidi (fu forse colpa della sola umidità e dei guasti del tempo? – n.d.r.), può essere comunque desunto dal testo dei versi (vero in tutti i casi? No – n.d.r.) apposti in calce a ciascuno (i graffiti metrici sono di ben 5 mani diverse e hanno asportato l’intonaco, pinax e graffito sono ben distinti, in un solo caso il graffito sta nella parte superiore del pinax – n.d.r.). I quadretti << si riferivano soprattutto a miti relativi alla sfera divina di Apollo e di Dioniso, mentre l’analisi di testi graffiti rivela una sicura padronanza della lingua, e, soprattutto, della letteratura greca da parte dell’ ideatore dell’opera >> (sic – quando poi i grecisti Carlo Gallavotti e Silvio Medaglia stroncarono la Guarducci, costringendola a una replica). *[Al possibile significato di questi strani graffiti greci, su uno dei quali si è in particolare appuntata l’attenzione di uno studioso americano, dedichiamo un intervento a parte]. […] Il terzo ambiente, privo di decorazione, risulta condizionato, nella sua stessa conformazione, dalla preesistenza del muro di cinta cui si addossava (nessuna menzione della porticina originaria sulle mura, definendone altrove la funzione di passaggio a titolo precario, come se ci fosse stato un custode o che altro – n.d.r.).
Proseguendo ancora: << Un suggestiva ipotesi, elaborata da M. Guarducci (1979), riconosce nelle strutture i resti di una casa assisiate del poeta Properzio (nessuno che si sia preso la briga di leggere attentamente, con acume critico, l’elegia III, 10?). Essa si fonda, oltre che sulla considerazione del particolare livello di cultura della quale risultano impregnate le decorazioni superstiti, sul ritrovamento di un graffito latino, apposto molto più tardi, che la studiosa interpreta nel seguente modo:[…I]ovino consulib(us) VII Kal(endas) Martiasdomum oscilavi Musae. Nella primaparte del graffito sarebbe dunque da leggere la datazione, il 24 febbraio di un anno (sic: così venendo meno la ricorrenza delle Caristie, o ‘caro estinto’ – n.d.r) che, sulla base dl nome el console indicato, Iovino, corrisponderebbe al 367 d.C. Il contenutodella seconda parte, alla lettera “ho baciato la casa della Musa”, costituirebbe secondo la Guarducci una inequivocabile allusione allo stesso Properzio, la cui casa sarebbe stata sino a tarda età meta di un pellegrinaggio reverente, del tutto consono con la sua fama (il ragionamento della Guarducci è viziato da petizione di principio: l’indicazione di Properzio non è ricavata dalla lapide scoperta da Caldari, ma dal termine Musa in un luogo privato, dove si poteva entrare per intaccare l’intonaco con graffiti – n.d.r).
Aggiunge la Strazzulla: << L’ipotesi, per quanto suggestiva, trova ostacolo di natura cronologica. Le pitture infatti appaiono stilisticamente inseribili in una fase avanzata del III stile, e non possono quindi essere datate prima degli anni iniziali del I secolo d.C. mentre, per quanto si ricava dall’incerta biografia di Properzio, la data di morte del poeta viene in genere collocata poco dopo il 16 a.C. >> (altra illogicità derivata – n.d.r.).
Maggiore chiarezza concettuale non è dato ricavare da altre pubblicazioni, fermo restando i limiti evidenti, almeno sotto il profilo razionale, dell’ipotesi della Guarducci. *[Ad esempio, la pianta dell’intero complesso della c.d. domusMusae, pubblicata da Laura Manca nel 2005, è stata invertita rispetto a chi guarda, con un effetto di non chiarezza: ma, per chi conosce i luoghi, non solo qui si vede chiaramente la stretta adiacenza al perimetro murario antico, bensì si può constatare anche l’esistenza certa del parallelo corridoio a monte, sotto l’altra navata della chiesa, per cui già il quadro stretto ha per forza di cose mutato sostanza].
Una delle tre stanze, che dal lato delle mura umbro-romane precedono il lungo corridoio, corrispondete alla lunghezza della navata destra della chiesa soprastante, sette metri al disopra, presenta una decorazione con motivi geometrici di fiori e stelle, formanti una trama di piccoli quadrati, entro i quali s’inseriscono motivi marini o zodiacali: pesci, scorpioni e granchi. Il pavimento è formato da tessere a fondo nero con inserzione di altri colori. Segue una stanza con pavimento in opus sectile a triangoli di marmo giallo e rosa. La terza stanza è direttamente addossata alla cinta muraria, ben visibile, e che dunque è profonda almeno sette metri, rispetto alla piattaforma absidale e al pavimento della chiesa romanica di Santa Maria Maggiore, a conferma che le mura antiche erano più alte rispetto a quanto sembri oggi, a ragione di un terrapieno, per cui la coeva portella, che non stava in basso, ma quasi alla sommità, non aveva alcuna funzione di passaggio “a titolo precario” (comunque incoerente rispetto al luogo), e che dunque l’iscrizione latina ITER PRECA ha un altro significato (da precor, anziché iter precarium).
Le stanze erano già note. Nell’alto medioevo vi si accedeva per delle scale discendenti, di cui restano alcune tracce, raccordate al percorso di risalita che procedeva per alcuni gradini dalla portella antica, posta in alto, quasi alla sommità delle mura, e originariamente coeva alla struttura difensiva di età umbra (II- I sec. a.C.).
Lo sbaglio iniziale è stato quello di non aver considerato (ad accezione di Caldari) la dislocazione complessiva dell’insieme, sul presupposto che il solo corridoio o ‘criptoportico’ fosse importante. Proveniente dalla Guarducci, l’errore si è poi trasferito ad altri, generando equivoci e inconvenienti. 3. NUOVO ESAME DELLA QUESTIONE
Che sulle esistenze precedenti, inglobandole e così preservandole, sia poi sorta la prima domus christiana di Assisi nel V secolo, è un dato di fatto, che non può essere trascurato. Nel trapasso dal paganesimo al cristianesimo, verso la fine del IV secolo, sotto Teodosio I, nonostante le forti resistenze conservatrici di Roma caput mundi, pressoché uniforme e costante fu la sostituzione fisica dei precedenti luoghi di culto, nel segno di una rinnovata continuità sacrale, soprattutto nel caso di luoghi particolarmente legati a memorie radicate e a speciale venerazione. Identico fenomeno riguardò il sito o complesso sacrale della domus Musae, così chiamata da quel graffito latino, recante la data del 22 febbraio 367 d.C., all’epoca di Valentiniano I.
La Guarducci individuò e ricostruì accuratamente ben 10 graffiti greci in forma metrica. Sette i quadretti affrescati sulla parete nord del corridoio, al disotto di cui figuravano le iscrizioni, apportate con un punteruolo sull’intonaco originario.
Secondo la Strazzulla sembrerebbe che gli affreschi siano stati eseguiti posteriormente all’intonacatura, che siano quindi un addobbo successivo, sicuramente del terzo stile avanzato. Ciò, tuttavia, non si desume dalle relazioni della Guarducci, che era ben disposta a definire le decorazioni di età augustea, per poterle accostare a Properzio. Grave errore, per di più viziato da irrazionalità, giacché non ha senso che Properzio abbia fatto incidere al disotto degli affreschi distici metrici greci di suo conio. Tra l’altro di scarso valore letterario, cioè non degni della sua arte, e nemmeno perfetti sotto l’aspetto linguistico, comunque pletorici e bizzarri. Quindi la Guarducci pensò che fossero stati coniati da Paolo Passenno, “discendente” di Properzio, fermo restando che gli affreschi e i decori risalissero all’ età augustea, il che è falso. Dunque, l’ipotesi della Guarducci è sostanzialmente arbitraria, sebbene abbia cercato di rimediare interpretando “casa della Musa” come “casa di poeti” (anche Paolo Passenno Poperziano fu un non ignobile poeta elegiaco, come appunto ricorda Plinio il giovane).
Il Passenno dell’epigrafe assisiate n. 47 del lapidario (CIL XI 5405) è lo stesso personaggio di due lettere di Plinio? Lo negava il grecista Gianfranco Maddoli, nel 1963, in un articolo sulla città natale di Properzio, proponendo UrbinumHortense, municipio posto sull’altro versante collinare, non lontano da Bevagna. A parte la bizzarria della proposta di Maddoli sulla città natale di Sesto Properzio, seccamente respinta da Armando Salvatore (1964), il Passenius Paulus di cui parla Plinio, non corrisponde – sic et simpliciter – col Passennus Paullus Propertius Blaesus dell’epigrafe di Assisi (rintracciata nei pressi della c.d. tomba di Properzio, all’imbocco dell’antica via che porta a San Damiano, luogo francescano per eccellenza). Ma anche in questo caso Maddoli sbagliava. La gens Propertia è riccamente attestata ad Assisi dal maggior numero di lapidi, e sappiamo poi da ‘Properzio segreto’ (vedi nostro pezzo al riguardo), che egli era originario di questa città. Quindi, se Passenno era suo “discendente” (la definizione conta assai!), ma era anche suo “municipale”, non c’è ragione per mettere in dubbio che il Passenno dell’epigrafe locale non sia lo stesso Passenno di Plinio, che tra l’altro aveva vasti possedimenti in Umbria, dalle parti di Città di Castello (si può ritenere che i Propertii di Assisi, con un ramo importante della loro gens già da molto tempo radicato a Roma, avessero altresì una loro casa di abitazione anche nella capitale).
Ma la Guarducci, comunque, non spiega perché Paolo Passenno, alla cui epoca difatti risalgono i quadretti affrescati, avesse poi fatto aggiungere altrettanti graffiti, e da ben 5 mani diverse, rovinando l’intonaco. Sarà più logico dover ammettere che questi graffiti siano opera più tarda, del tutto estranea a Passenno. Pertanto viene meno in radice il collegamento sia con Properzio, che con Pasenno. A questo punto le dotte argomentazioni della Guarducci precipitano nel vuoto, prive di sostegno. La stessa Guarducci dimenticava il richiamo del graffito latino dell’anno 367 all’elegia di Tarpeia, cioè alla fonte sacra, alla magica Musa (IV, 4), e alla porta di Tarpeia (I, 16: ianua Tarpeiae). Non ci siamo proprio, e in questo genere di equivoci è caduta anche l’Accademia Properziana, nonostante i miei richiami.
Secondo la Guarducci, l’autore del graffito latino (sic: in una domus privata, che all’epoca non poteva non essere abitata!), si sarebbe firmato col suo nome (‘io tal dei tali’), prima del nome dei consoli Giovino e Lupicino! Altro grave errore concettuale, che inquina ulteriormente i fatti (autore del graffito fu il poeta latino Decimus Magnus Ausonius, arrivato ad Assisi da Roma, di ritorno a Treviri).
Nel 1976 la Guarducci informava gli importanti Studiosi partecipanti al primo Convegno internazionale su Properzio organizzato ad Assisi, che gli “epigrammi greci” (distici) erano i seguenti:
Parete Nord, da destra a sinistra, con 7 pinax (partendo dalle vicinanze rispetto alla cinta muraria antica):
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verso in metro dattilico, alludente a Penteo, re di Tebe, sbranato dalle Menadi per essersi opposto ai riti bacchici;
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distico mutilo, in cui si riconosce il nome di Bacco, accanto a un leopardo;
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distico alludente al mito di Marsia, ai flauti gettati via da Atena, e a una sfida musicale con Apollo;
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verso dell’Iliade (VII, 264) circa il duello tra Aiace ed Ettore;
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distico relativo al rarissimo mito di Iamos, figlio di Apollo e di Evadne (vedi anche sesta olimpica di Pindaro);
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Distico relativo al carro di Apollo con le insegne oracolari (scoperto da Caldari);
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Distico sul mito di Polifemo e Galatea (affresco scoperto da Caldari, immediatamente precedente il grande affresco del virifdarium, con 96 specie di passeracei, incassato nel muro).
Parete Sud, da destra a sinistra:
1) distico sul truce mito di Teseo, re di Tracia, la cui moglie Procne gli
imbandisce le carni del figlioletto Itylos, perché è stata tradita;
2) distico alludente al mito di Narciso;
3) distico relativo a Ercole che fila le lane per la moglie Onfale.
*[Ciascuna parete era ornata da 7 piccoli affreschi, ad andamento alternato: quadrati e rettangolari (cioè: fas et nefas). Essendo due i corridoi, uno a sud e l’altro a nord (giacente ancora sepolto nelle fondazioni della chiesa), gli affreschi erano 28 in tutto, 7 per parete, quanti i giorni di visibilità della luna (28 è anche un numero pitagorico perfetto)].
Caldari e K. Kerényi, col supporto di G. Saeflund, un grande archeologo, insieme avevano ritenuto che gli scavi evidenziassero un luogo pagano di culto apollineo, rimanendo tuttavia legato a Properzio (lapide properziana frammentaria). E’ incomprensibile che il Soprintendente Ciotti abbia poi proseguito gli scavi di Caldari, senza lasciare alcuna relazione, e che abbia quindi deciso di far intervenire la Guarducci, e che infine, soltanto nel 2005, cioè almeno mezzo secolo dopo, L. Sensi abbia pubblicato un articolo (molto importante) sulla lapide di Caldari, ricomposta con altri frammenti recuperati dalla Soprintendenza, ma abbandonati in un magazzino. Se si è creduto di poter fare uno scoop con la Guarducci (scopritrice della tomba di San Pietro in Vaticano: scoperta contestata o messa in dubbio), di fatto ciò non è avvenuto: tanto è vero che la domus Musae è praticamente sconosciuta e con varie scuse, magari legittime, le visite numerate sono assai scarse (e carenti le spiegazioni). La vera casa di Properzio, piuttosto estesa, è quella scoperta per caso, poco più a monte, a meno di trenta metri di distanza, dopo gli eventi sismici del 1997, e poi valorizzata da Laura Manca. Questa la vera casa di abitazione, con ricchi decori d’età augustea (che sia appartenuta a Properzio, lo proveremo in questo ed altri interventi).
La suggestiva ipotesi di F. Caldari, tenendo conto del cospicuo frammento della lapide properziana, si fondava sull’antico toponimo di Mojano, che individuava quel luogo, posto nella parte più bassa (e meno antica) di Assisi umbro-romana, nelle immediate adiacenze del tratto murario antico in risalita. La stessa cripta di età longobarda è ornata di stupende colonne romane d’età imperiale. Il convincimento di un sito oracolare si fondava sul piccolo affresco rettangolare del carro di Apollo con le insegne profetiche e trainato da due grifi. Il graffito, posto al disotto, aggiungeva il richiamo saliente ai tripodi e alla virtù divinatrice. La traduzione fatta da Caldari e da Kerényi è conforme a quella fornita dalla Guarducci: 1) L’inclito carro di Apollo Pean, l’arco e la tromba acuta, i Grifi e i tripodi segni di virtù divinatrice; 2) Illustre carro di Paian, arco e armoniosa lira, grifi e tripodi, insegne di arte oracolare. Indubbiamente le indicazioni del pinax e del graffito hanno molto peso, tanto più che nel quadretto manca il tripode.
In Valerio Massimo (I,1) leggiamo che le azioni militari erano tratte dalle osservazioni degli auguri, che gli oracoli di Apollo erano spiegati in base ai libri profetici, mentre la liberazione dei prodigi con la preghiera avveniva secondo la liturgia degli aruspici etruschi. Viceversa, l’8 novembre del 392, Teodosio I prese la decisione radicale (cfr. Paul Veyne, L’Impero Greco-Romano, 2008) di vietare, una volta per tutte, i sacrifici e i culti pagani, arrivando perfino a proibire l’umile culto quotidiano per celebrare le statuette domestiche dei Lari e dei Penati, con ghirlande, bruciando incenso e versando un po’ di vino (CodexTheodosianus, XIV, 10.12).
L’imperatore d’occidente Valentiniano I (364-375), pur essendo cristiano, aveva mantenuto “un giusto equilibrio tra le due religioni opposte” (Ammiano Marcellino, XXX, 9,5). Con la grande vittoria di Teodosio I su Abrogaste, presso il fiume Frigido (6 settembre 394), corrispondente a quella riportata da Costantino a Roma il 28 ottobre 312, il cristianesimo si affermò definitivamente, malgrado che Roma restasse (almeno fino ai Simmachi), il maggior centro di opposizione pagana, che con l’imperatore Giuliano (361-363), avrebbe potuto schiacciare la diffusione, ancora non maggioritaria, della nuova religione.
Nell’anno 367 il cristianesimo non si era ancora affermato come religione di stato, e si può altresì ragionevolmente ritenere che in quell’epoca Assisi fosse rimasta abbastanza refrattaria rispetto al culto cristiano incentrato sul ruolo principale dei vescovi. La prima domus christiana della civitas sorse sicuramente dopo la svolta teodosiana, il cui “codice” (compilazione o raccolta completa di disposizioni precedenti) risale a Teodosio II (438 d.C., in vigore dal primo gennaio successivo). Di questo fatto abbiamo molteplici indizi, addirittura una prova certa, volutamente trascurati perché Assisi è stata poi la città di san Francesco e di santa Chiara, ma il municipio, molto legato alla antica tradizione degli Umbri, fu decisamente refrattario al cristianesimo (la prova certa è fornita dal c.d. rescritto di Spello). Gli indizi consistono nella mancanza di epigrafi cristiane e nel fatto che i primi segni artistici in questo senso non scendono al disotto del sesto secolo. Dopo Teodosio penetrò ad Assisi il Vangelo. Nessun santo locale (i passionari proto medievali sono falsi), mentre san Savino – menzionato da Paolo Diacono – è un ‘santo’ di Spoleto. I culti pagani resistettero a lungo, in Assisi ci sono chiare tracce di antiche croci di ribenedizione dei templi pagani (quello principale di Minerva ci è giunto intatto). Nel 367 d.C. la popolazione rurale dei dintorni aveva abbandonato le antiche superstizioni, e per questa ragione la c.d. domus Musae, che non era una vera casa di abitazione, ma un appannaggio della gens Propertia o di quanti avevano allora quelle spazi stesse disponibilità materiali, inserito cioè nell’ambito della vera domus, poco più a monte (c.d. “casa del larario”). Parlare di pertinenza o annesso è corretto. Una casa di abitazione non poteva sorgere in quel luogo, accanto alle mura, su quote in rapida risalita, in modo inadatto e in spazi ristretti. Il sito della domus Musae consisteva in un doppio corridoio a bracci paralleli, uniti da un corridoio minore, intercomunicante, dal lato della cinta muraria. Lo spazio racchiuso, su quote che variavano, era una specie di giardino. Su queste preesistenze è poi sorta, nel V secolo, la prima chiesa vescovile, non lontano da rinomate sorgenti d’acqua utilizzate a scopo battesimale. Il visitatore dell’anno 367 penetrò in un luogo di culto in abbandono, già appartenuto alla gens Propertia. E fu così che poté incidere con un punteruolo quell’intonaco pregiato, se non prezioso, cosa impensabile per un luogo di proprietà privata, ancora abitato o strettamente connesso a una domus (nell’anno 367 Assisi era intatta).
Il problema della domus Musae o “casa di poeti” della Guarducci, presenta margini incomprensibili in tal senso, benché i graffiti greci e i relativi pinaces (quasi tutti svaniti per via dell’umidità), si riferiscano ad alcuni miti classici, tra cui quello rarissimo di Iamo (ripreso, nel 2006, da A. Bulloch, in Iamus and Narcissus in the domusMusae), che sembrano riflettere un ‘qualcosa’ delle Elegie.
L’anonimo visitatore del 22 febbraio 367 (giorno di ricorrenza dei Caristia o cara cognatio, sotto l’aspetto pagano, ovvero della cathedra Petri sul versante cristiano) non si riferiva a “Properzio”, mentre avrebbe potuto e dovuto farlo. Costui lasciò scritto, con enfasi e commozione, soltanto di “aver baciato la casa della Musa” (oscilavi domum Musae: osculavi con la u greca o francese sta per osculavi: vana la pretesa di poter fornire altra versione, come per aggiunzione si legge in E. Sciamanna, op.cit.).
In definitiva, il maggior indizio di un collegamento stretto con la gens Propertia era stato fornito dal rinvenimento da parte di Caldari di quei frammenti d’iscrizione mutila, in cui si leggeva con sicurezza il nome Propertius. Il resto lo abbiamo già spiegato. Compresa la stranezza che l’intervento (ripetiamo: importante), di L. Sensi, sia avvenuto più di 50 anni dopo.
Le domus patrizie di Assisi, come vere e proprie case di abitazione, non solo continuarono ad esistere, totalmente integre, anche nel V e VI secolo inoltrato (almeno fino alla guerra gotica, durante la quale si registra il nome del vescovo Avenzio), ma sarebbe stato alquanto singolare, cioè del tutto anomalo, che una di esse, proprio la domus della antica gens Propertia, una domus sicuramente la più importante di tutte le altre, si fosse prestata come sede collettiva ad accogliere la prima ecclesia comunitaria.
Appare invece pressoché certa la continuità temporale del nuovo culto rispetto ai culti pagani, poco prima di Teodosio, malgrado il provvisorio stato d’abbandono di fronte al quale si trovò, nel 367 d. C., quel visitatore ben informato, qui richiamato dalla fama del poeta delle Elegie.
Certamente di peso è l’obiezione che in un luogo privato – il supposto criptoportico, assimilabile alla “casa del criptoportico” di Pompei – sarebbe stato sconveniente e inconcepibile rovinarne il prezioso intonaco – riccamente effigiato – con un punteruolo, per lasciare il ricordo di una visita sotto i consoli di quell’anno, Flaviano Giovino e Flaviano Lupicino. Nel 367 quel luogo era in stato d’abbandono, cosa però assai improbabile per una privata domus dell’epoca. Questa la principale osservazione: ma esistono altre eccezioni.
Una di queste eccezioni è che il supposto prolungarsi del “cripotoportico” oltreil grande viridarium, quindi oltre la facciata dell’attuale chiesa romanica (che appunto si sorregge sul fianco sinistro poggiando su tale robustissimo manufatto), è escluso dalla presenza del’graffito latino proprio in quel punto. Dopo aver compiuto la sua visita (baciai la casa della Musa: al passato remoto), il visitatore stava dunque ‘uscendo’ da quel luogo, che per forza lì doveva terminare. Pertanto, da dove era entrato? Se poi si prendono in considerazione i resti di un altro simile corridoio, rimasto interrato, ma su cui altrettanto solidamente poggia la navata destra della chiesa romanica, a maggior ragione acquista sostanza l’interrogativo di dove potesse trovarsi la vera domus abitativa. La stessa contiguità delle tre stanze, poste in fondo al corridoio, ma a stretto ridosso rispetto alla cinta muraria antica (una di esse ne condivide addirittura la parete), dichiara che non poteva trattarsi di criptoportico, giacché l’antico e ampio fabbricato del vescovado, che si sorregge a sud sulla stessa cinta muraria antica, che procede diritta, non poteva ospitare la domus di un criptoportico, con finestrelle strombate che prendevano luce proprio a sud. Insomma, né la Giarducci, né gli altri, si sono resi conto che la domus Musae è strettamente correlata al perimetro murario laterale e alla ‘misteriosa’ portella originaria. E nemmeno hanno colto il richiamo – evidente – alla magica Musa dell’elegia di Tarpeia. Ed è anche sfuggito il dato rilevante che all’altezza del varco sulle mura, queste girano all’improvviso, proseguendo a est. Tutto il sito è astronomicamente orientato, e si tratta di un’altra importante scoperta.
* Abside della chiesa romanica di Santa Maria Maggiore (rifacimento del 1162), sorta nel V secolo d.C. sui resti umbro-romani della c.d. domus Musae, e già primitiva cattedrale di Assisi, fino all’alto medioevo avanzato.
La struttura originaria, umbro nelle fondamenta (domus Musae) e l’edificio ecclesiale sorto su di essa, riflettendone la pianta, sono astronomicamente orientati sul punto del sorgere del sole al solstizio d’inverno (22 dicembre).
L’abside confina con un tratto in risalita della cinta muraria del II-I secolo a.C., che sostiene l’impianto. A sinistra dell’immagine, l’antico edificio del vescovado, legato al famoso episodio francescano della rinuncia a beni paterni (vedi quinto affresco del ciclo iconografico giottesco nella Basilica Superire di San Francesco ad Assisi).
Lo stato di luoghi può essere apprezzato soltanto a ispezione diretta, giacché altre opere ne cancellano la vista dettagliata.
Le mura romane sprofondavano molto più in basso di quanto oggi possa apparire. La domus musae si trova 7 metri al disotto del piano dell’abside, corridoio di sinistra. A destra, un altro corridoio parallelo, ancora interrato, sostiene l’altra navata.
Un’importantissima lapide francescana del 1216 era incastonata sulla cornice dell’abside romanica risalente al 1162. La chiesa del V secolo era sprovvista di campanile.
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Tratto sommitale della cinta muraria umbro-romana del II-I secolo a.C. La sistemazione di un terrapieno, impiegato per secoli come orto e come vigna vescovile, impedisce di scorgere la profondità del muro, a destra del quale si apre un singolare varco di risalita, coevo alla struttura, erroneamente qualificato come iter precarium, istituto giuridico del Digesto giustinianeo.
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La portella, recante la scritta latina ITER PRECA (erroneamente si è letto III PRECA), è collocata quasi alla sommità del muro, la cui altezza, come visibile attualmente, non supera i due metri e mezzo sul suolo, a causa del terrapieno che vi è stato accumulato in seguito.
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Fornirò elementi decisivi per chiarire la vera natura complessiva dei luoghi.
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Le conclusioni raggiunte negli anni ‘50 da Fioravante Caldari, insieme a Kàroly Kerényi e aGeorg Saeflund, erano esatte.
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Errate le considerazioni successive circa la natura dei luoghi, a parte il prezioso lavoro realizzato a cavallo degli anni ’70 da Margherita Guarducci.
* Piccolo affresco rettangolare rappresentate il “carro di Apollo” con le “insegne oracolari”, ritrovato da Fioravante Caldari nel 1949, insieme al graffito greco sottostante.
* A seguire, in dettaglio:
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Fioravante Caldari durante gli scavi: ritrovamento di un rocchio di colonna dorica
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Secondo affresco ritrovato da F. Caldari
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Grande corridoio: è visibile l’affresco appena citato
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Particolare del magnifico viridarium, con le dupre rosse del “Caffa”
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Pianta della domus musae (primo corridoio a valle), tratta da L. Manca
- Immagine assonometrica dell’intero impianto (chiesa romanica e c.d. domus Musae), tratta da L. Manca
* Si scorgono chiaramente i resti del primo corridoio a nord, ancora sottoterra.
* A sinistra il corridoio denominato domus Musae.
La restituzione dell’epigrafe pubblica frammentaria, ad opera di L. Sensi, indica che il teatro romano di Assisi fu completato dalla gens Propertia su mandato testamentario di un Sexstus Propertius.
Molto probabilmente si tratta del grandissimo autore delle Elegie, un’opera unica (unum opus, fallax opus: vedi ‘Properzio segreto’).
Lo scopritore della parte principale di questa importantissima lapide fu Caldari.
La lapide doveva trovarsi ufficialmente affissa all’esterno del theatrum di Assisi che con assoluta certezza sorgeva nella parte alta e più antica della città. E’ strano che tutti i frammenti finora rintracciati siano stati recuperati, in tempi diversi, nel terriccio che ingombrava la domus Musae. Non c’è altra spiegazione razionalmente attendibile, se non quella che la lapide fu trasportata in quel sito della domus Musae, ormai in abbandono, che era una ‘dependance’ dei Propertii, dunque il ramo era ancora esistente, dopo l’abolizione delle rappresentazioni teatrali pagane. Ciò avvenne soltanto dopo l’anno 367 risultante del graffito latino.
I ludi circensi furono banditi in epoca cristiana (cfr., ad es. P. Veyne, L’impero Greco-Romano, cit., pp.479 ss.). Cessò infine anche l’attività teatrale.
Sul presupposto che la primitiva domus christiana di Assisi – sicuramente risalente al V secolo – è sorta su resti della c.d. domus Musae e che senza soluzione di continuità ne sia stata in seguito la cattedrale o sede episcopale fino al medioevo, s’affaccia subito alla mente l’idea che il trasferimento della lapide in quel luogo sia avvenuto proprio nel periodo del trapasso in Assisi dal paganesimo al cristianesimo teodosiano. Nella zona archeologica di Santa Maria delle Rose (nella parte alta della città), sono presenti tracce evidenti di ri-consacrazione di templi pagani col segno della ‘croce’ (vedi altri interventi). Col venir meno dei culti pagani, nel periodo intercorrente tra l’anno 367 (sotto Valentiniano I) e l’epoca di Teodosio I (all’incirca un trentennio), non è certo improbabile che i discendenti di quella importante gens abbiano avvertito l’esigenza – una volta cessata l’attività del theatrum, ormai in abbandono – di riportare quella antica lapide negli annessi o pertinenze della loro domus patricia. Parlare genericamente di “materiale di riporto” non risolve la questione. Gli Studiosi, puntualissimi nel loro settore specifico, tendono talvolta o spesso a porre in secondo piano tutto il resto.
Per comprendere gli enigmi la domus Musae non sono sufficienti i pur puntuali collegamenti fatti dalla Guarducci tra i graffiti greci e i miti corrispondenti nelle Elegie, occorrendo quantomeno rifarsi ad alcuni passi di I, 16; III, 10; IV, 1 e IV, 4.
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Nonostante che un quadro indiziario serrato indichi che Properzio è nato ad Assisi, di ciò non c’era prova certa, nemmeno in base agli elementi arrecati dalla Guarducci. La lapide ricostituita e interpretata da Luigi Sensi assurge quasi a rango di prova diretta, ma la prova certa e indubitabile, proveniente da Properzio stesso, è quella da me trovata e illustrata a parte.
Il nomen “Sextus” deriva da una notizia fornitaci del grammatico Donato. “Parva domus” – in Properzio – non è una dichiarazione di origini modeste. Servio (in Catone), ci fa saper che un antico Propertius era re di Fidene.
L’indovino Horos (in IV, 1) non fa il nome di Assisi-Asis (si tratta di un emendamento del Lachmann), ma indica in un modo inconfondibile Assisi dal punto di vista geografico e in relazione al tempio di Minerva, al quale ha alluso sottilmente.
4. ENIGMI ARCHEOLOGICI DI ASSISI
Abbiamo già trattato altrove della statua di Augusto “pontefice massimo” che dal marzo dell’anno 12 a.C. ornava il foro di Assisi. Questa statua fu abbattuta, sconciata e gettata sulle rovine pagane che si ammucchiavano nel foro, nel V secolo, dopo il 395, quando ormai il titolo di pontefice era stato rifiutato da Graziano, figlio di Valentiniano I, e si avvicinavano le invasioni barbariche (Alarico nel 410 metterà a sacco Roma).
Il pinax, che fa da copertina a questo intervento, molto probabilmente è la rappresentazione ideale – non veristica o realistica – di ‘Properzio e Cinzia’ (rappresentazione sognante, l’uomo ha gli occhi socchiusi e ‘Cinzia’ veste i panni di una matrona italica). L’affresco proviene dalla “casa del larario” (valorizzata da Laura Manca), prossima alla domus Musae. Non è difficile presagire che sia stata questa la casa del poeta, mentre ciò che sta poco più a valle, era una semplice dipendenza, e non una casa da abitazione. L’elegia III, 10 (compleanno astronomico di Cinzia, donna mai esistita, riferito al 21 giugno, cioè al solstizio d’estate con la luna nella ‘casa’ del Cancro), lascia trasparire un’ambientazione ad Assisi: dalla “casa del larario” si poteva, infatti, scorgere il locus Umber, verso Bevagna, che con le sue acque fa da sfondo all’elegia (l’ambientazione a Roma sarebbe assurda).
Il fanum di Spello, cui si riferiva nel IV secolo un rescritto di Costantino, fanumsacrum degli Umbri della vallata centrale, risalente al VI secolo a.C., ha latitudine esatta di 43 gradi nord. Ciò ne faceva l’umbilicus Italaie. E’ falsa la versione di Tito Livio (IX, 39), a proposito del lago Vadimome.
In questo luogo nei presi di Spello, dove oggi si trova Villa Fidelia, [lambito anticamente dal lacus Umber], il sole a mezzogiorno, nel solstizio d’inverno (22 dicembre), ha l’altezza massima di 23, 5 gradi, al di sopra dell’orizzonte (tale è l’inclinazione dell’asse di rotazione terrestre rispetto all’eclittica). Agli equinozi, l’altezza del sole sull’orizzonte sale a 47 gradi, per raggiungere l’elevazione massima di 70,5 gradi al solstizio estivo. Alla latitudine di 43 gradi, corrisponde la colatitudine di 47 gradi. Questa è la ragione per cui al mezzogiorno vero, nella data degli equinozi, l’altezza del sole rispetto all’orizzonte ha lo stesso valore complementare di 47 gradi.
Si può adesso comprendere il ruolo cruciale avuto da Spello in favore di Caio Ottaviano (Augusto nell’anno 27), nei frangenti drammatici (e in ordine ai giochi politici romani) del bellum perusinum. Qui, sulla piana di Hispellum, si arrestarono le milizie giunte in soccorso di Lucio Antonio e di Fulvia assediati a Perugia (dalle mura della città si scorgevano i fuochi notturni dell’accampamento). Ottaviano aveva seriamente rischiato di rimanere in trappola, assediato a sua volta alle spalle, in uno scontro per lui decisivo (decisivo, altresì, per la storia futura del mondo). Col denaro, e con gli intrighi, gli riuscì di corrompere i generali a capo di soccorsi e i caporioni romani del Senato, rovesciando alleanze ed accordi. Augusto non dimenticò la sua gratitudine per l’ausilio che Spello gli aveva assicurato in quelle drammatiche circostanze, gratificandola con un sostanzioso allargamento territoriale a spese di Assisi e di altri territori, arricchendola altresì di monumenti (le così c.d. torri di Venere).
Fu questa la speciale ragione della damnatio memoriae o cancellazione dell’antichissimo fanum umbro di Spello, strettamente collegato al fanum etrusco di Volsinii ( il fanumVoltumae ovvero lega sacra delle 12 città).
Oltre tre secoli dopo il fanum di Spello fu riabilitato dall’imperatore Costantino (o Costanzo), con un suo rescritto databile tra il 333 e 337 d.C., la cui lunga iscrizione fu rinvenuta nel 1733, nelle immediate vicinanze (area cimiteriale di S. Felice).
La damnatiomemoriae riguardò anche Assisi (infatti, il geografo augusteo Strabone evitò di menzionarla), colpendo severamente, almeno per un certo periodo, la stessa Perugia, che aveva ospitato entro le sue possenti mura, i rivoltosi umbri ed etruschi contro le espropriazioni terriere.
Properzio, a quell’epoca fanciullo, non potrà certo perdonare l’assassino di suo padre. Le espressioni elogiative del Princeps, presenti nelle Elegie, si rivoltano in feroci anagrammi, invertendone il significato, secondo un precedente, però favorevole, inaugurato a suo tempo da Licofrone di Calcide per elogiare Tolomeo II Filadelfo e la bella regina Arsinoe.
Horos (IV,1, verso 125) farebbe in chiaro il nome della città natale di Propertius: scandentisque Asis consurgit vertice murus. Ma potremmo leggere arcis, giacché Horos ripropone la medesima situazione che Propertius aveva riferito a se stesso, genericamente al plurale (arces). Come sia, Horos esordiva richiamando le “lacrime”, mentre vertice murus si riferisce tacitamente al tempio di Minerva (vedi anche E. Sciamanna, Asisium, op. cit).
Si concentrino ad Assisi il maggior numero di lapidi che menzionano la gens Propertia (circa una ventina: si veda in ogni caso il lavoro di Giovanni Forni sui “Properzi nel mondo romano“) e tutto il resto conduce a ritenere probabilissimo che qui il poeta sia nato. In realtà non esisteva una ‘prova provata’ in tal senso, nemmeno dopo gli studi di Raffaello Elisei (1916) e di Margherita Guarducci sulla domus Musae (1979-1985). L’intervento di Luigi Sensi (2005) chiuderebbe l’anello, in base alla scoperta di Caldari. Tuttavia è provata epigraficamente l’esistenza di altri Sexstus Propertius nella zona tra Assisi e Bevagna (si tratta di un cippo funebre, in marmo cipollino, di proprietà Riccardi).
Paolo Poccetti ha analizzato l’argomento Asis, con competenza linguistica e filologica, ripercorrendone la vicenda. A suo avviso Asis – genitivo oggi preferito – è sintagmaticamente coerente con scandentis. Viceversa, la lezione arcis sembrerebbe banalmente ripetitiva, al singolare, delle arces di Propertius (IV, 1, verso 65). Inaudita è Asis per Assisi: ma Poccetti riesce a legittimare il presupposto “nomen” preromano di Assisi, ancorché del tutto inusitato. Mantenendo Asis, si conservano in ambedue i versi – scandentis quisquis cernit de vallibus arces /e / scandentisque Asis consurgit vertice murus – le sei ‘esse’ complessive di ciascun verso, cosa che non avviene con arcis (il rilievo è mio). Tuttavia, Horos non poteva rivelare il nomen di Assisi, gelosamente custodito da Propertius nel Monobiblos. Tale nomen secretum può essere ricavato altrimenti (vedi altri interventi). lo si può ricavare corrispondente dalla soluzione ‘decrittata’ dell’ultimo verso di I,21: ecce mons et rus Asis (Properzio segreto). Horos, partendo Propertius da Roma, primitiva, indica la direttrice geografica che si scarica sul vertice del tempio di Minerva (vertice murus) ad Assisi, dominante sulla vallata. Non avrebbe alcun senso paragonare quel murus, già noto, al “più noto ingegno” del poeta, se non fosse stato famoso per la sua bellezza architettonica (murus qui indica il terrazzamento complessivo, ma con particolare riguardo al frontone del tempio e al timpano, le cui proporzioni riflettono il rapporto archimedeo del raggio rispetto alla circonferenza).
I due templi gemelli del fanum di Spello, in prossimità del lacus Umber, rappresentavano il sole e la luna: i simboli della lega umbro-etrusca della vallata centrale, fino all’epoca del bellum perusinum. Le fonti storiche non hanno registrato tali eventi, tuttavia implicati in un contesto coerente, in base a un passo di Svetonio nella vita di Caligola (43), il bosco sacro di Bevagna, vicino al Clitunno, che è alquanto indicativo. Perchè l’imperatore Caligola avrebbe dovuto concepire all’improvviso una spedizione militare in Germania visitando questi luoghi e soprattutto perché stava compiendo questa visita?
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L’archeologia umbro-romana di Assisi presenta diversi misteri, alcuni dei quali credo di aver risolto. Uno di questi ‘misteri’ era la statua del togato acefalo, conservata nel museo romano della città, che non è altro che una copia perfetta della statua di Augusto nei panni di pontefice massimo (12 a.C., in connessione alla feste dei 5 giorni per Minerva, dal 19 al 23 marzo).
Il distico messo in bocca a Horos (IV, 1, versi 125-126) era un’allusione all’arce di Minerva Assisi, a ragione della grandezza poetica di Properzio.
Horos poco prima aveva parlato di Cassandra e di Minerva, a proposito dello sfregio di Aiace Oileo. Qui, s’intende, si colloca l’evocazione della bellissima statua di Minerva seduta in trono, adorna di una bellissima veste, antico marmo greco (IV secolo a.C.), probabilmente giunto ad Assisi come preda bellica di una coorte locale che aveva partecipato alla conquista della Macedonia o ad altre analoghe campagne militari (l’influenza politica di Roma su Assisi, e sull’Umbria in generale, era già netta in questo periodo tra il II e il primo secolo a.C.).
Bevagna, il lacus Umber, un’arce sacra, a grandi terrazzamenti, discendente a valle a gradoni, che non può essere che Assisi.
Agli inizi dell’800 Assisi ‘romana’ fu indagata dall’Antolini, sulla scia dei primi studi archeologici e documentari dell’abate Di Costanzo (quest’ultimo si era interessato persino a Urbinum Hortense).
L’architetto Antolini sondò il sito archeologico di Santa Rosa (nella parte alta della città). La chiesa di Santa Maria delle Rose, che ha inglobato in sé antiche preesistenze templari, è perfettamente orientata a sud. Qui si trovano segni di ri-consacrazione cristiana, secondo le prescrizioni dell’edito di Teodosio. L’antico arco di Santa Rosa (un ingresso trionfale orientato da sud a nord) non era una porta urbica (manca ogni traccia di muro di cinta), ma l’ingresso solenne in un ampio spazio cultuale, un bosco sacro dedicato a Giano e ad Anna Perenna. Qui si trova (riutilizzato a rovescio) un architravedi calcare bianco, a forma di gioco di bue, recante due bassorilievi (mai notati prima), riportabili al III secolo a.C., le cui rappresentazioni si riferiscono, rispettivamente, a Giano notturno e a una epifania di fuoco in un bosco mentre un uomo è andato col l’ascia a far legna (vedi altro intervento, con riproduzione dettagliata). Il culto degli ingressi sacri (ianuae) è tipico dell’antica Umbria e di Giano italico.
Assisi quadrata sorse nell’età del ferro, all’interno della conca situata tra il c.d. colle del Paradiso e il monte S. Rufino (va ricordato il castelliere umbro dell’età del bronzo di Torre Messere, facente parte di quella serie di oppida di cui parla Erodoto: la zona è fittamente popolata di antichi castellieri).
Guardando a sud-est, ciò assicurava la salubrità, anche in ragione dello spirare dei venti, il capitolium s’appoggiava alle prime falde collinari (villa Berkeley), mentre una grande porta – ovvero un porticato formato da 4 grandi colonne circolari – s’apriva verso il c.d. Foro Sessoriano (Piazza Nuova).Frammenti templari non trascurabili (presenti nel c.d. “cortile degli aghi”) indicano l’esistenza di un tempio antico importante, mentre altri elementi (compresa un’antichissima riproduzione, in pietra calcarea, di una divinità ermafrodita, una mater matuta, appoggiata attualmente sul muro di palazzo Minciotti), provano il culto di bonamater (in zona S. Rufino: antico vocabolo “Bona Madre”) nonché di Giano bifronte (con un tempio posto sul capitolium: in quest’ultimo caso, l’elemento indicativo è rintracciabile nella rara scritta frammentaria, in lingua umbra, sull’antico portale conservato nel giardino di casa Ranaldi, in cui può individuarsi uno Ianus pater nella voce papi equivalente al latino pater ).
Il culto di “Giano padre” è epigraficamente attestato in Assisi da una lapide latina, e il Di Costanzo riprodusse, a suo tempo, l’immagine di una mater matuta – statuetta misteriosamente scomparsa. La c.d. domus Musae si colloca in zona Mojano, antico toponimo che ricorda ancora il culto di Giano, mentre un’iscrizione dedicatoria a Minerva menziona un Properzio.
Assisi umbra si estese sempre più valle, girando sui fianchi del colle, per cui la zona del Vescovado (con la chiesa di Santa Maria Maggiore), è quella più recente (risale a età sillana la cinta muraria in questa zona). Qui si trova la domus Musae.
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La prima piantina rappresenta, all’interno del cerchietto, la c.d. “casa del larario” scoperta dopo il 1997.
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La seconda piantina mette ancora una volta in evidenza l’esistenza di un doppio corridoio al disotto della chiesa di Santa Maria Maggiore.
Va altresì ricordato che a cavallo tra il II e il I primo secolo a.C. Assisi fu sistemata nella sua urbanistica, ricorrendo a un piano organico di grandi opere pubbliche, per il terrazzamento e il contenimento (possenti “mura” di contrafforte, disposte a ventaglio, e a diversa quota), arricchendosi inoltre d’ importanti monumenti e accessori (templi, pozzi, cisterne, cinta muraria ampliata, nuove porte urbiche, e le terme italiche del III-II secolo in località Regius et Sanctus, Santureggio, che ricorda il culto di Semo Sanco).
In questo quadro si collocano gli imponenti lavori della terrazza centrale (foro, colonnati, spazio per il mercato, fontane, un grande muro di sostegno ecc.), dove sorse un tempio esastilo, in stile corinzio, dedicato a Minerva, che sostituiva un tempio precedente. Il nuovo impianto, sorto nell’arco di meno di un secolo, divenne l’arce sacra protesa sulla vallata.
Il tempio ha proporzioni vitruviane di tipo femminile. La grande statua greca della dea, seduta in trono (sia stata Atena oppure Demetra), era venerata come Minerva. Il tempio, e la statua, formano un tutt’uno. Alcune evidenti asimmetrie del tempio di Minerva, rispetto alla doppia scala discendente ai lati, verso la zona sottostante del foro e dell’altare (o tribunal), indicano che in precedenza sorgeva nel medesimo luogo un tempio più antico, cui le scale laterali si riferivano. Pertanto il grande muro di sostegno ai piedi del tempio stesso, era un manufatto preesistente, sebbene arricchito di fregi bronzei a festoni. La singolare differenza tra le stesse scale (una più ampia dell’altra: di 10 e di 12 gradini) indica il passaggio dal calendario lunare a quello solare, per cui l’altare sottostante dovrebbe essere connesso a questo rituale, per cui il nuovo tempio di Minerva deve collocarsi in età cesariana.e non in epoca augusta. Il quadro è coerente con uno sviluppo e un abbellimento progressivi del medesimo impianto.
L’attuale tempio corinzio di Minerva, che è dunque coevo alla riforma del calendario romano, conserva tuttavia il suo carattere lunare (vedi altro intervento).
La zona di piazza del Comune, col tempio di Minerva, presenta tracce archeologiche che possono essere fatte risalire al VI secolo a.C. Ne consegue che le origini della città, sorta dapprima nella parte alta, risalgono all’età del ferro. Lo sviluppo progressivo, compreso in un’ampia cinta muraria (2,5 km), di cui si possono stimare le varie epoche, secondo la diversa qualità dei materiali impiegati e il modo di costruzione, avvenne lentamente, a buccia di cipolla. La zona del Vescovado non può risalire, anche per questa ragione, oltre il II-I secolo a.C., probabilmente si pone a cavallo. Ciò non toglie che sia stata una zona residenziale, costellata di abitazioni patrizie, di edifici pubblici e templi. La gens Propertia si era stabilita in questo nuovo quartiere, salubre e solatio, ricco d’acqua.
La Vetter 236 (classificazione delle epigrafi in lingua umbra) menziona un Nerio Propertius che potrebbe essere stato il nonno del poeta.
Assisi “umbra” entrò nell’orbita romana diversi decenni prima della “guerra sociale”. Una corretta interpretazione della lapide Vetter 236 (un cippo confinario pubblico, derivante dalla vendita di un terreno privato: n.d.r), darebbe Nerio Propertius come “marone” di Assisi (Nerio era il nome umbro di Marte). Il regolamento di confini avvenne tra Assisi e Bettona, per cui abbiamo la registrazione dei nomi di due coppie di “maroni” per parte (contrariamente all’interpretazione corrente, viziata in termini razionali).
Più in antico c’era il meddix, ricordato dall’epigrafe umbra di casa Ranaldi (arco sacrale o porta di padre Giano). Le c.d. ohtretie (da cui la magistratura dell’uhtur) sarebbero un equivoco.
Il termine oht ha un significato aggettivale sostantivato, almeno nel senso di “fissato”, “stabilito”, “consacrato” (termnas oht = stabiliti i confini), e la sacralità di tale determinazione, o statuizione, posta sotto la protezione di una misurazione accurata, e inalterabile, sarebbe provata – con carattere religioso analogo – da un’altra antica lapide umbra, ritrovata a San Damiano, in cui l’affine formula sacre stahu (cioè, ‘religiosamente fissato’: con valore imperativo e categorico), concerne la protezione dei campi, assicurata dalla coppia paredra Herentas e Fiso Sanco (nella lacuna di tale concisa lapide, si dovrebbe leggere oht, nel senso di protezione religiosa assicurata da Cerere, la dea delle messi, ma sotto la garanzia – sacre stahu – di Fiso Sanco, in funzione di custode dei confini agresti).
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Le bellissime terre di Sesto Properzio, cadute sotto la triste pertica delle espropriazioni di Ottaviano, si estendevano da Assisi verso Bevagna, comprendendo anche la zona di San Damiano (qui sorse il monumento funebre di Paolo Passenno, col problema della morte e del luogo di sepoltura del suo ‘ascendente’, stando alle informazioni di Plinio). [Sulle poetiche 'volontà testamentarie' di Properzio cfr. elegie II, 13, 14 e 15].
Bellissima era – ed è ancora – l’ampia vallata ai piedi di Assisi, una delle più belle d’Italia (nihil vidi dulcius – disse san Francesco).
5. IL PROBLEMA DELLA DOMUS MUSAE
La Guarducci repertò, ricostruì e tradusse 10 graffiti greci in forma metrica, tra cui un verso dell’Iliade, incisi sull’intonaco originario da 5 mani diverse, recuperando alcuni graffiti latini, uno dei quali già riportato.
Abbiamo già visto il pinax del carro di Apollo. L’altro quadretto scoperto da Caldari, col mito alessandrino di Polifemo e Galatea, portava il suo graffito: Pascola Polifemo cantando eGalatea sulla curva schiena del ‘camuso’ [*delfino] festante.
Non avendo scorto il graffito, Caldari aveva pensato all’immagine di Orfeo (volto barbuto sulle rocce), a ragione della “lira” (altro particolare del pinax). Dopo il pinax del mito di Polifemo e Galatea, si trovava in un grande incasso nella parete nord del corridoio, (sulla quale poggia la parte destra il bellissimo affresco del vridarium (dipinto anche sui due lati), il cui intrico di verdi racemi e fogliame (con fiori a 5 punti rossi), ospita 96 specie di passeracei (unitamente a un grillo, un gufo e una lucertola, posti in basso, su ognuno dei tre lati ‘a paravento’).
Esaminando i particolari, una pioggia di foglie rosse a forma di cuore, Caldari vi identificò le “drupe” o “bacche” della pianta del “caffè”, cosa singolare, certamente non impossibile, giacché l’Arabia felix era stata già penetrata dai Romani, vivente Properzio, in età augustea.
Il graffito latino con la data del 22 febbraio 367 d.C., rintracciato dalla Guarducci poco oltre il viridarium ad altezza di mano, parlava di una domum Musae” (baciai la casa della Musa). “Casa della poesia” è sinonimo di “casa di poeti”. Margherita Guarducci era più che convinta che quella fosse la casa di Properzio, e la stessa casa poi abitata da Paolo Passenno (aggiungeva Plinio: in domo Properti).
Nessuna casa antica dell’Umbria poteva vantare distici greci e graffiti di questo genere. Per la Guarducci era sicuramente la “casa” di abitazione (domus) di un poeta di raffinata cultura (graffiti metrici con echi callimachei e pindarici), e, dunque, soltanto Properzio, e Passenno, potevano esserne stati i proprietari. Con quale garanzia che fosse ancora la casa dei Propertii e più di due secoli e mezzo dopo se ne fosse conservata la conosciuta memoria fuori da Assisi e dell’Umbria?
Secondo Caldari si trattava di un sito “oracolare”, di un luogo di culto dedicato ad Apollo “guaritore”. Secondo la Guarducci e gli archeologi della Soprintendenza si tratta di una casa di abitazione, ancora interrata in profondità, sotto la pavimentazione della chiesa), che si estendeva ancora oltre la facciata della chiesa, al di sotto la piazza antistante.
Il lungo corridoio venuto alla luce ne sarebbe il “criptoportico” o corridoio di passaggio, anche per passeggiare al coperto, posto sette metri in basso. Fermo restando il collegamento stretto con Properzio, nel secondo caso (cioè l’ipotesi Guarducci), saremmo privati di una forte componente di suggestioni: una semplice abitazione, e nessun luogo misterioso.
Pur sempre un luogo singolare, particolarmente raro. Ma il problema rimarrebbe in sospeso nei suoi dati contraddittori: non vi è certezza, manca la chiarezza di fondo. La Guarducci ne ha fatto volentieri a meno.
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Per decidere sulla questione (domus Properti o luogo di oracoli connesso alla gens Propertia) è necessario assumere un atteggiamento critico coerente, e compiere una serie di verifiche. Le dottissime comunicazioni della Guarducci (1979 e 1985) non appaiono conclusive. in tal senso, poiché non del tutto impeccabili e non costringenti. Anzi, sollevano problemi di non poco conto: 5 mani diverse , intonaci rovinati, affreschi di età successiva rispetto a quella augustea, che in origine non recavano alcuna indicazione o scritta dipinta,successivamente scomparsa. La cosa non è razionale, come se i dipinti originali di un luogo di passaggio avessero avuto bisogno di essere spiegati, e, tuttavia, tranne un solo caso, i singoli graffiti metrici (però con alcuni latinismi), appaiono dotti e quasi studiati ad hoc. A che scopo?
A complicare le cose, si aggiungono altri elementi non trascurabili, come la dislocazione della domus rispetto al “criptoportico”, la sua estensione e conformazione, e il fatto che il visitatore dell’anno 367 (nel giorno della ricorrenza delle Caristia o cara cognatio per i pagani e della cathedra Petri per i cristiani), si sia espresso come domum Musae, rovinando (ad altezza di mano) l’intonaco, subito accanto al viridarium: quindi al momento di uscire da quel luogo, in cui era entrato (ma da dove?).
La Guarducci rintracciò altri graffiti latini, di cui ritenne inutile l’interpretazione (apparivano frammentari e/o privi di significato). Infine, non volle tener conto della contiguità di una delle tre stanze, poste in fondo al corridoio, a diretto contatto con le mura umbro-romane di cinta, nonché di altre caratteristiche del luogo, trascurando persino il fatto che la prima chiesa cristiana qui era sorta. Rispetto al “cripotportico” tutto passava in secondo fila. Quella era una domus, secondo quanto attestato dal visitatore. Ma nell’anno 367 d.C. era impensabile che si potesse entrare in una domus privata (in abbandono?), rovinando un prezioso intonaco, per lasciarvi una scritta mutila (l’anomino visitatore si era firmato oppure no, e chi poteva essere costui?).
L’accuratissimo lavoro della Guarducci si era concentrato sui graffiti greci, difficili da leggere, in base ai quali ella poté asserire lo stretto collegamento con alcuni miti o citazioni, presenti nelle Elegie di Properzio, con echi callimachei e pindarici. Ma chiaro era che quei graffiti non potevano provenire dalla mano del poeta, e che non procedevano nemmeno dalla sua mente; se mai, da quella di Paolo Passenno, ma è cosa strana che ad aggiungerli, al disotto dei quadretti – e in un solo caso al di sopra: per il mito rarissimo di Iamo –, siano state mani diverse, forse pure in epoca diversa, mentre in due casi, le iscrizioni discordano dall’immagine figurata, sebbene gli affreschi siano quasi del tutto svaniti.
In base a questa ricostruzione, quella era la “casa dei poeti”, e dunque era stata la casa di Properzio, successivamente domus di Paolo Passenno, suo discendente e concittadino, come attestato da Plinio.
* L’ipotesi della Guarducci non è peregrina, pur fondandosi su presupposti di fatto irrazionali o inverosimili: ma siamo sempre a Caldari, che qui aveva rintracciato l’interessantissima lapide.
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Il toponimo Mojano è assai indicativo (in tal senso anche il Brizi nel 1908 e il Fortini nel 1931). La strada che scende verso san Pietro, attraversando un’antica porta romana, oggi sparita, si chiama apollinara (toponimo spiegabile con la presenza di una chiesa di S. Apollinare, se non valesse il viceversa). C’è poi il sementone: campo da semina oppure un’evocazione di “Semo Sanco” con riguardo alle anzidette terme italiche in zona “sanc(t)uset regius? E c’è, infine, cosa importante, la stranissima postierla sulle antiche mura umbro romane, con la sua scritta latina.
A suo tempo il Bormann (CIL XI n. 5473) leggeva – secondo tradizione – (Post) IIII preca (-tiones), e tale affine ‘lettura’ accompagnò il Brizi e il Fortini (Caldari ne tenne conto, ma non si espresse, riportandosi genericamente a un “tempio di Giano”, il cui culto ad Assisi è epigraficamente attestato).
Che possa trattarsi di un “passaggio pedonale” (iter precarium – Digesto 43, 26, 3), una scorciatoia attraverso tra le mura (tuttavia coeva alle mura stesse, e non un varco aperto in seguito), sembra più che altro una giustificazione ad hoc, che non tiene adeguatamente conto del quadro complessivo.
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L’attività di Margherita Guarducci si svolse nell’arco di un decennio e non fu un lavoro facile. Le iscrizioni erano infatti, in complesso, abbastanza mal ridotte ed opponevano spesso alla decifrazione ora lettere corrose ora lacune nella superficie dell’intonaco. Le pitture dei quadretti si riferiscono – si sostiene – quasi tutte alla musica e alla poesia, cui divinità sono Bacco e Apollo. In Properzio ci sono richiami a Itylos, a Onfale, a Iamo, a Evadne e le figure mitiche animano i quadretti (sic) stabiliscono stretti contatti con la poesia di Ovidio, intimo amico di Properzio. Peccato che tutto ciò non risale all’epoca augusteae nemmeno a quella di Traiano! La realtà dei fatti non si accorda per nulla con le affermazioni della Guarducci. Nemmeno a proposito del “criptoportico”, che diventerà in seguito una specie di criptoportico (1985), e neppure circa a una presunta stanza di una domus. Le affermazioni che vanno aldilà della ricostruzione dei graffiti greci sono in gran parte errate, o insufficienti, o irrazionali, sebbene finora nessuno si sia mai posto criticamente di fronte al problema. La conclusione che la domus Musae sia la casa di Properzio non è correlabile alle valutazioni della Guarducci. Nel 1985 la Studiosa darà conto di un errore di data (22 febbraio anziché 23 febbraio), e non spiegherà la presenza e l’interpretazione di altre scritte latine da lei rintracciate, come ad es. Verananius, ritenuto un nome di persona (ma allora che senso avrebbe avuto?). Ecco perciò un classico esempio di studi assai accurati e tuttavia di considerazioni aberranti (con un ignoto visitatore del 22 febbraio dell’anno 367 che ‘scarabocchia’ un intonaco affrescato, impiegando un verbo latino, osculare = baciare, come oscilare). Ritornando sulle proprie affermazioni la Guaducci (1985)riferiva i graffiti greci (di 5 mani diverse) a Paolo Passenno in domo Properti, lasciando ancora una volta scoperte le questioni pregiudiziali condizionanti: chi avrebbe fatto eseguire la serie di affreschi, non di età augustea, in quel buio e strano corridoio (che ha poi un analogo a nord), e soprattutto perché?
In un altro intervento tratterò degli affreschi e dei distici greci. In questa sede lo scopo principale è quello di dimostrare ciò che è sfuggito fino a oggi a proposito della domus Musae, la cui evocazione delle Elegie di Properzio si fonda su un elemento testuale diretto, estremamente coerente (IV, 4, verso 51: o utinam magicae nossem cantamina Musae! – “o se potessi conoscere gli incantesimi della magica Musa!”).
La Guarducci riteneva che l’anonimo che col suo graffito latino aveva lasciato traccia della sua visita, fosse un pagano ammiratore delle Elegie, facendo i possibili nomi di Prudenzio, di Claudiano, di Nemesiano, e di Decimo Magno Ausonio. La riposta esatta è Decimus Magnus Ausonius, il poeta di corte nativo di Bordeaux.
Ausonio, grande ammiratore di Properzio, aveva saputo che era nato ad Assisi. Era lui l’anonimo visitatore della domus Musae. Egli aveva annotato il suo codice, trascrivendo Asis accanto ad arcis. Glielo aveva detto, a Roma, il dottissimo Avieno, un etrusco originario di Volsinii, che appunto lo indirizzò.
Ausonio si era recato a Roma in occasione della nomina dell’amico Vettio Pretestato a Praefectus Urbis, all’inizio del 367. Sulla via del ritorno, che lo avrebbe portato a Treviri, dove assunse l’incarico di precettore di Graziano, il figlio decenne di Valentiniano I, poi associato all’impero, Ausonio aveva profittato di una sosta ad Assisi, lungo l’itinerario della via “francigena”. Perfetto conoscitore dell’opera di Properzio, Decimus Magnus Ausonius, che nella sostanza era rimasto pagano, e che tra l’altro amava i giochi di parole,si firmò elegantemente con uno svolazzo, una specie d’immedesimazione, ricorrendo a un acronimo nel quale fondeva il suo nome, in un’evocazione poetica di Properzio, correlata al luogo in cui era liberamente penetrato e che dunque si trovava ormai in abbandono. Domus Musae (basta vedere come il graffito è stato disegnato dal punteruolo), racchiude l’identità completa di quel dotto e incantato visitatore nel giorno della ricorrenza delle Caristie. Appunto: oscilavi [ego], DECIMUS MAGNUS AUSONIUS, DOMUM MUSAE. Ho baciato il luogo della magica Musa.
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Questo graffito si è conservato, come tutti gli altri, in quel braccio di uscita. La prima chiesa cristiana di Assisi, sorta pochi decenni dopo, conservò, nelle sue viscere, l’impianto preesistente, quell’insieme di corridoi posti accanto alla antica cinta muraria umbro-romana, che resistette all’assalto dei Goti di Totila (episodio di Sisifrido in Procopio e notizie del vescovo Avenzio nella Cronaca di Marcellino ‘comite’).
6. ALTRI ELEMENTI D’INDAGINE
[...I]ovinoconsulib(us) VIII Kal(endas) Martias domum oscilavi Musae *[Nel museo romano di Assisi è conservata una epigrafe con la data del 22 febbraio 368 d.C.]. L’indicazione dei consoli dell’anno 367 d.C. (i consoli Flavio Lupicino e Flavio Giovino) impedisce di ritenere che l’autore del graffito avesse indicato in precedenza il proprio nome. Costui volle rimanere anonimo, e ciò nonostante si firmò. Domum Musae è un elegante gioco di parole che iterando l’identità di D.ecimus Ma.gnus Aus.onius richiama altresì il verso 51 dell’elegia di Tarpeia (IV,1): o utinam magicae nossem cantamina Musae! La sua ‘firma’ è inequivocabile. EGO SUM DECIMUS MAGNUS AUSONIUS [VILIS] (poeta da poco, rispetto al grande autore dell’unum opus).
Basta collegare le due elegie di Properzio in cui compare il nome di Tarpeia: I,16 (ianua Tarpeiae nota pudicitiae: un’autentica crux) e IV, 4 (elegia di Tarpeia, innamorata del re sabino Tito Tazio). Ausonio era penetrato in quel sito magico (ormai in abbandono, ma legato a memorie properziane), notando la postierla sacra, posta sulle mura (ianua precationis).
L’elegia della ‘porta parlante’ (cioè I, 16) terminava col canto mattutino degli uccelli (et matutina obstrepit alitibus), mentre nell’elegia di Tarpeia (IV, 4) abbiamo una fonte sorgiva, un bosco sacro, i presagi della luna (omina lunae: verso 23), e una magica Musa, coi suoi incantesimi (cantamina). Il poeta pagano Decimo Magno Ausonio, commosso ed estasiato, si firmò ad altezza di mano, giacché l’uscita si trovava lì, subito accanto a quel viridarium, con 96 specie diverse di passeracei (gli antichi umbri traevano presagi dal volo degli uccelli). Novantasei potrebbero essere state le elegie di Properzio, anche perché il secondo e il terzo libro ci sono giunti frammentari (le elegie rimaste sono 92, almeno secondo l’attuale sistemazione).
Domumoscilavi Musae è la sintesi poetica del percorso compiuto dal visitatore del 367, che non si risolveva esclusivamente all’interno di un “criptoportico” affrescato, nonostante i graffiti metrici greci. La < i >, in luogo della < u > (per osculavi), pur giustificabile in base a un passo di Quintiliano, rifletterebbe un gallicismo.
Decimo Magno Ausonio di Bordeaux uscì da quel luogo, dopo aver visitato il primo corridoio, quello a nord, dove immettevano le scalette di risalita della ianua sulle mura. Ogni parete dei due corridoi era affrescata con 7 pinaces ad andamento alternato: quadrati e rettangolari. La luce proveniva da alcune feritoie, che si aprivano a destra e a sinistra. Dopo aver compiuto il giro del primo corridoio, trovò le altre scale, che scendevano dove iniziava l’altro corridoio, quello a sud, più in basso, con 7 analoghi affreschi per parete, fino all’uscita, che si trovava poco dopo il viridarium. Non era un labirinto, ma un percorso sacrale, umbratile: un percorso di preghiera.
Il primo corridoio, a monte, rappresentava i 14 giorni della luna crescente, il secondo i 14 giorni della luna calante (un pinax per ogni giorno delle 4 fasi di lunazione, con 28 giorni di luna, un numero ‘perfetto’). In antico si risalivano i gradini a gomito della ianua sacra, posta sulle mura, per accedere al primo corridoio, e poi discendere di nuovo, tramite altre scale, verso l’altro corridoio (procedendo dall’esterno delle mura e poi al loro interno). Era un percorso sacro di tipo serpentino, ombelicale, con 28 stazioni di sosta, quanti gli affreschi sulle 4 pareti ad altezza d’uomo, reso possibile da un gomito che portava al secondo corridoio, quello venuto alla luce con gli scavi di Caldari. Sulla parete nord di quest’ultimo corridoio o ambulacro sacrale, il pinax del carro oracolare di Apollo avvertiva gli impetranti che di lì a poco sarebbero state date le sorti dalla Pizia, davanti al viridarium incassato nella parete. Il pinax – immediatamente successivo – del mito di Polifemo e Galatea che precede, sulla stessa parete nord, il grande viridarium o lucus apollineus, dopo di che si trovava l’uscita, presenta una singolarità, notata dalla Guarducci, ma rimasta oscura. Sotto il secondo verso del graffito greco (Pascola Polifemo cantando e Galatea / sulla curva schiena del ‘camuso’ festante), restano altri residui di scrittura: HOCI vac. HOCI A.
<< Non mi è riuscito di ricavare un senso da queste lettere >>, affermava Margherita Guarducci (1979, pag. 281, nota 46), che aveva rintracciato altri graffiti latini: Veranianus DIOR Iridis subito accanto, mentre nella parete sud (munita di feritoie), sotto il graffito greco del mito di Ercole e Onfale (e i due cestelli delle lane: con eiria = lane, messo in particolare evidenza), figuravano IAKA (sotto il primo I di eiria) e ONEN. Un bel rompicapo (se le scritte latine, qui leggibili, non potevano essere considerate frammentarie, per mancanza di altre tracce).
E’ noto, in base a Flegonte di Tralle (autore di età adrianea), che il sole era rappresentato, quale simbolo di Apollo, con una testa barbuta, in genere poggiata su rocce, mentre una rappresentazione della luna (suoi movimenti in cielo) può essere identificata ‘a dorso’ di un ‘delfino’. Il quadretto del mito di Polifemo e Galatea sottintende il sole e la luna (vedi riproduzione: un volto maschile barbuto sulle rocce e un volto femminile sulle onde del mare).
Iakcos è uno degli epiteti di Dioniso. ONEN – se con una M inserita nel mezzo = ON(M)EN – potrebbe restituire nomen omen; oppure, da solo, figurare così: O(men) N(omen) E(st) N(umen).
VERANIANUS [un nome di persona: ma qui il graffito è un chiaro ‘non senso’ dato il luogo], può essere inteso come altro gioco di parole: VER – ANI – ANUS, con un significato allusivamente di tipo lunare: La luna di primavera è la vecchia luna del giro dell’anello.
DIOR – IRIDIS è ancora un altro gioco ‘magico’ di parole ricorrenti: DIIS-ISIDIS-OSIRIDIS (che otteniamo per eliminazione della costanti di ripetizione IS-IS-IS).
A questo punto abbiamo gli isiaka omina ovvero gli omina lunae del verso 23 dell’elegia di Tarpeia. *[Non a caso l’elegia di Tarpeia, nella tradizione di Arnaldo Fortini, precedeva l’articolo di Fioravante Caldari sugli Atti dell’Accademia Properziana del Subasio, nel 1955].
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Le indicazioni presenti sotto il pinax e il relativo graffito greco del mito di Polifemo e Galatea (il volto barbuto del sole e la bianca luna a dorso di delfino) hanno rivelato il loro significato recondito: HOC I(nitium) V(aticini) / HOC I(nitium) V(aticinium) A(alterum). [Da qui l’inizio del vaticinio, da qui l’altro inizio].
Aveva ragione Fioravante Caldari. Era un luogo sacro per gli “oracoli” che all’uscita del percorso di preghiera erano forniti dalla Pizia, abitatrice di quelle stanze: lì, accanto al viridarium, si trovavano i tripodi della virtù divinatrice di Apollo Paian. Questa la domus (pertinenza della genspropertia), riferita ai cantaminamagicae Musae.
Rufio Festo Avieno venerava Nortia, antica dea lunare etrusca della fortuna, del calendario e degli annales. Lo afferma lui stesso, in una iscrizione metrica. Cynthia corrisponde a Nortia (lo si ricava da “Properzio segreto”: < Nortia quae lunam fert numini melo > = I, 1, 30 traslitterato).
Qui si chiuderebbe il cerchio (“orbe”, il cerchio di un canto – cfr. III, 2,1).
Il poeta Decimo Magno Ausonio aveva compiuto la sua visita ad Assisi baciando la casa della magica Musa il 22 febbraio dell’anno 367 d.C.
7. CONCLUSIONI
La facciata della chiesa di Santa Maria Maggiore ad Assisi – prima domus christiana risalente al V secolo – è orientata a 303 gradi NORD. Viceversa, l’abisde opposta alla facciata guarda a 123 gradi SE. Identico l’orientamento dei due lunghi corridoi paralleli che ne costituiscono antiche le fondazioni. Pertanto la domus Musae è orientata sul punto del sorgere del sole alla data del solstizio d’inverno. Alla latitudine geografica di 43 gradi e 04 primi, corrispondente ad Assisi, il punto del sorgere del sole, il 22 di dicembre, si colloca a 123 gradi SE (in tale direzione guarda l’abside di S. M. Maggiore).
Il sole nasce esattamente a est in due soli giorni dell’anno, rispettivamente agli equinozi di primavera e d’autunno, variando di giorno in giorno la direzione in cui spunta. In inverno (minore durata diurna) il sole sorge a più di 90 gradi, in estate il contrario (maggiore durata del giorno). Sorgendo a 57 gradi NE nel giorno del solstizio estivo (22 giugno), il sole lo stesso giorno (massima durata sopra l’orizzonte) tramonta a 246 gradi SO. Lo scostamento massimo rispetto all’est vero durante il corso della primavera è di appena oltre 33 gradi a sinistra del est vero, viceversa a destra, durante l’autunno.
*[La formula trigonometrica per questi calcoli, rispetto alla latitudine del luogo considerato, mi è stata gentilmente fornita dal Prof. Umberto Cerruti dell’Università di Torino, che qui ringrazio. Il giorno del solstizio d’inverno ad Assisi il sole rimane sopra l’orizzonte per 8 ore e 56 minuti, culminando a mezzogiorno, sud vero, all’altezza sull’orizzonte di 23, 5 gradi. E’ questa la giornata più corta dell’anno].
Il giorno del solstizio d’inverno, il sole al tramonto, spostato a sinistra rispetto a dove guarda la facciata della chiesa di Santa Maria Maggiore, colpiva con i suoi ultimi raggi le feritoie sulla parete sud del corridoio della domus Musae, illuminando il carro di Apollo, con le insegne oracolari, tirato dai grifi (che indicavano il ritiro iperboreo del dio).
Rivolta al punto del sorgere del sole il 22 dicembre su dal monte Subasio, proprio verso questa direzione si trova la postierla esterna del muro antico umbro-romano, che da qui gira verso est, determinando perciò quell’angolo ottuso su cui va ugualmente a incurvarsi lo stipite, e sul quale si legge la scritta ITER PRECA.
L’impianto murario antico in questo punto ha chiare caratteristiche sacre di carattere astronomico. La domus Musae non può essere compresa se non all’interno del quadro complessivo che ne caratterizza il sito.
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La casa dell’elegia III, 10 – compleanno astronomico di Cinzia cadente il 22 giugno, data del solstizio estivo – è l’esatto contrario rispetto alla domus Musae, invece orientata lungo l’asse del solstizio d’inverno. Dunque il trionfo della la vita in III, 10 è stato contrapposto alla morte.
I postulanti pagani che entravano dall’esterno delle mura nella c.d. domusMusae, compivano un itinerario di preghiera, percorrendo le 28 stazioni lunari nei due lunghi corridoi paralleli, e sostando in raccoglimento davanti all’ultima rappresentazione, il quadretto di Polifemo e Galatea (sole e luna), ricevevano infine gli omina. Nel cielo invernale la luna è alta, viceversa nel cielo estivo. In 15 giorni la declinazione della luna in cielo può variare da + 28, 6 gradi a – 28,6 (con una ‘caduta’ di oltre 57 gradi). Il fenomeno, assai vistoso, era fonte di riti e superstizioni. [Cynthia è il nome della Luna, anche in Orazio: Carmina, 3, 28,12].
Cinzia di Properzio (cfr. IV, 5, 35-36) ha due falsi compleanni: il primo d’Aprile e alleIdi di Maggio. *[La lena Acantide è Augusto]. Le Elegie sono un capolavoro della letteratura mondiale, concepito da un genio (Ardoris nostri magne poeta iaces: I, 7, v. 24 = < Magne poeta Caesaris nostri rido >), consapevolmente più grande di Mimnermo e di Omero, già dal suo esordio giovanile (cfr. I, 9, 11). L’entropia delle “Elegie” (= canto d’amore e lamento funebre) ha la sua parola chiave in ossa [cuius honoratis ossa vehantur avis: ultimo verso delle Elegie, opera ingannevole, fallax opus, che ne racchiude il significato nascosto = < honor sit cui ossa sua vehantur avis > - vedi altri interventi].
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Lungo la parete nord del “criptoportico” della domus Musae – e i resti visibili di un’antica scala interna a ridosso della cinta muraria – si allineano 7 piccoli affreschi e 7 corrispondenti graffiti greci, prima del viridarium e dall’uscita da quel luogo. I pinaces si alternano a forma quadrata e a forma rettangolare: fas et nefas. L’intero percorso comprendeva i 28 giorni lunari, (due le notti caecae, senza luna). E il ciclo riprende, con la luna nuova, che spunta a ovest (l’aurea bulladimissa collo al momento del rito di passaggio alla maggiore età, o maturazione fisica, rappresentava simbolicamente la luna piena, in basso il brillante cratere Tycho). I due corridoi paralleli erano un luogo di culto risalente all’epoca stessa delle mura umbre del II-I secolo a.C., e non una domus. Il sito era un appannaggio della gens Propertia, la cui domus è quella scoperta dopo il 1997 e valorizzata da Laura Manca. Qui il pinax d’età augustea col ritratto ideale di Cinzia e di “Properzio. Fallax opus, haec tua castra! Anche le tende militari, di un ideale accampamento, si vedono nel triclinio, dove appunto regnava il poeta (cfr. II, 34, versi 55 ss.).
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Margherita Guarducci recuperò con pazientissima fatica 10 graffiti o epigrammi greci apportati sull’intonaco da 5 mani diverse. Occorreva trovare una spiegazione per giustificarli al disotto dei rispettivi pinaces originali, risalenti a epoca precedente (comunque post augustea).
La soluzione è questa: l’antico luogo ‘oracolare’, coevo alla cinta muraria e dedicato a Giano, prima di Paolo Passenno subì un’evoluzione, voluta dai Propertii, che avevano completato il teatro di Assisi, per cui i due corridoi intercomunicanti del sito antico cominciarono adesso ad assomigliare a due criptoportici, riccamente affrescati. Pur mantenendo la medesima funzione sacrale, i committenti s’ispirarono a episodi mitici presenti anche nelle Elegie.
Successivamente, all’epoca di Passenno (in età traianea), quando però era già vecchio, si presentò l’esigenza di spiegare i vari episodi, per cui fu lo stesso Passenno a dettare quei distici, che furono apposti sotto gli affreschi, tranne un solo caso (mito di Iamo).
La servitù della domus appena a 30 metri in linea d’aria, oppure i sacerdotes del luogo, eseguirono materialmente con un punteruolo i vari graffiti. La lingua greca fu impiegata per in il culto di Apollo “guaritore” (oulios), che si era intanto sostituito a quello originario di Giano, “custode delle (due) porte”(del cielo).
Riporto ole traduzioni fornite dalla Guarducci per i singoli epigrammi:
* Parte nord, da destra a sinistra (cioè in direzione dell’uscita):
1) Il giovane che una volta osteggiava il gregge di cerbiatte (si tratta di Penteo, re di Tebe, sbranato dalle Menadi: cfr. Elegie III, 17, 24 e III, 22,33);
2) graffito notevolmente deteriorato, che fa riferimento al leopardo bacchico;
3) I flauti che la dea (Atena) gettò nel lago Tritonis trovò una volta il frigio, destino di grande contesa (il frigio è il satiro Marsia, che con i flauti sfidò Apollo in una gara musicale). *[Nessun corrispondente nelle Elegie, bensì un episodio dell'affresco della Volta Pinta in Assisi (prob. attrib. Raffellino del Colle, 1556), che sotto il patrocinio dell'Accademia (sorta nel 1516), si riporta alla contesa tra Marsia e Apollo, il che dà da pensare sulle effettive conoscenze del sito di Santa Maria Maggiore, forse a seguito di altri lavori, a seguito di qualche sisma];
4) Ma, ritiratosi, afferrò una pietra con forte mano (vi si può leggere “Omero”, e si tratta, infatti, di un verso dell’Iliade: VII, 264). *[Il relativo pinax, pressoché svanito, mostra due capre in fuga. Perciò non si tratta del duello tra Ettore e Aiace, bensì dell'episodio della follia di Aiace: (sol che nel duello tra Ettore e Aiace compare, a un certo punto, Apollo, in soccorso di Ettore abbattuto da una pietra];
5) O Iamos infelicissimo, quale amico hai o quale consanguineo? Difesa a te morente Febo (Apollo), ecco, dette, o fanclullo. *[E' l'unico caso in cui il graffito greco è posto sopra il pinax. Rarissimo è il mito di Iamo: VI ode olimpica di Pindaro. A Iamo, abbandonato dalla madre sotto un cespuglio di rovi e sopra un letto di viole, Apollo inviò due serpenti con un nutrimento di miele. Nessun corrispondente nelle Elegie];
6) Illustre carro di Paian, arco e armoniosa lira, grifi e tripodi, insegne di arte oracolare *[Nessun corrispondente nelle Elegie];
7) Pascola Polifemo cantando e Galatea sulla curva schiena del ‘camuso’ (delfino). *[Una lira è presente nel pinax. Cfr. Properzio: I,8,18 e III,2,7. In I, 8 (il pretore dell'Illiria che insidia Cinzia), Galatea propizierebbe un viaggio. In III, 2 compare per intero il mito (Polifemo nel selvoso Etna e sotto il mare con Galatea). "Galacta" - cioè lattea - è la luna].
Parete sud, da destra a sinistra (senso inverso):
1) Ahimè, Tereo dall’infelice amore, se tu avessi giaciuto in un solo talamo, giammai tu, il padre, saresti divenuto tomba di Itylos. *[La moglie Procne, da lui tradita, imbandì a Tereo, re di Tracia, le carni del figlioletto. In Properzio (cfr. III, 10, 10), invece Filomela, che per vendicarsi del marito Tereo uccise il figlio Iti, fu trasformata in usignolo];
2) Un nuovo, o Eros, un nuovo dolore del cuore immaginasti di costruire: costui, non volendo, ama l’acqua della propria immagine. *[Si tratta del mito di Narciso, innamorato della propria immagine. Nessun corrispondente nelle Elegie, sennonché il mito di Ila (cfr. I, 20) molto vi somiglia. I,20 è un'elegia criptata, apparentemente riferita a due egloghe di Virgilio, ma il cui vero scopo consiste nel passaggio dalla Cynthia alla sphragìs del monobiblos];
3) Il forte Eracle, servendo Onfale, le lane e due canestri, schiavo alla moglie, sorveglia *[Si tratta di un famoso esempio di servitium amoris , presente in III, 11, 17 - Qui Ercole fila con le sue dure mani le morbide lane].
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La serie dei graffiti s’interrompe perché la parete sud, munita di feritoie che si concentrano sul viridarium, è crollata, cedendo verso l’esterno. Sull’altro lato, la navata sinistra della chiesa poggia – lato a monte – sul corridoio nord, la cui struttura è rimasta inesplorata sottoterra, tranne quanto fu necessariamente visto nel medioevo, allorché la chiesa primitiva fu rifatta. E’ fuori di dubbio l’esistenza di analoghe strutture sul lato a nord. La Guarducci non ne tenne conto. I piccoli affreschi dovevano essere 7 per ciascuna parete. Le osservazioni affacciate da Fioravante Caldari e da Kàroly Kerènyi rimangono intatte. La domus Musae, legata alla gens Propertia, non era una casa di abitazione, ma un luogo oracolare. E’ mio merito l’apporto di ulteriori elementi oggettivi di chiarezza, la cui originalità, importanza e solidità appaiono documentate e provate.
*Assisi, Palazzo Bernabei, Sala del Caminetto, venerdì 18 maggio 2012
(avv. Arcangelo Papi)
A solenne ricordo di Fioravante Caldari
Presidente dell’Accademia Properziana del Subasio e Primo Scopritore della Domus Musae
G. Saeflund – F. Caldari – K. Kerényi
Rovescio della mattonella marmorea recante una spina di acanto
Posizione del sole al tramonto in data 22 dicembre rispetto al sito della chiesa di Santa Maria Maggiore e della sottostante domus Musae che ne riflette esattamente la pianta
Antichissima portella coeva alle mura umbro-romane del II-I sec. a.C.
con l’iscrizione latina
ITER PRECA
Il primo ambiente lastricato della domus Musae e il lungo corridoio
del lato sud
in origine illuminato da piccole finestre strombate
Cripta della prima cattedrale di Santa Maria Maggiore al Vescovado
risalente all’VIII-IX secolo con il riutilizzo di importanti materiali antichi
Sarcofago cristiano del VII secolo
Altra postierla esistente nell’antica cinta muraria guardante a valle che sostiene la mole del Vescovado e della chiesa di Santa Maria Maggiore: non sono presenti iscrizioni come nel caso successivo (unico del genere) della domus Musae
Allineamento della domus Musae lungo l’asse astronomicamente orientato di 123 – 303 gradi: 123 gradi SE corrispondono per Assisi
al punto
del sorgere del sole nel solstizio d’inverno (22 dicembre)
Antichi resti della scala discendente ai primi locali della domus Musae la cui esistenza non era sconosciuta nel XII secolo come in precedenza
Resti antichi inseriti nella struttura romanica del XII secolo che rivelano la complessità articolata del sito originario della domus Musae