Archimene e il problema dei buoi

ARCHIMEDE E IL PROBLEMA DEI BUOI

 

IL PROBLEMA DEI BUOI DEL SOLE IPERIONE

CHE

PASCOLAVANO UN TEMPO NELL’ISOLA DI TRINACRIA

***

INTRODUZIONE

1*La chioma di Berenice è un romanzo di Denis Guedj in cui si parla anche di Eratostene e della misurazione della Terra. L’autore v’inserisce il problema dei buoi di Archimede. Raccogliamo l’episodio da questo libro.

Eratostene stava per allontanarsi, quando Teo lo apostrofò di nuovo: << Guardate il vostro amico Archimede, lui passa il tempo a raccontare storie >>. Eratostene lanciò a Teo lo sguardo che si riserva ai matti. << Sì, sono convinto di quello che vi dico. Una volta, Archimede si mise in testa di contare cosa? I granelli di sabbia nell’intero universo! Posso assicuravi che uno si ricorda di quei granelli. Un’altra volta, voleva sapere il numero dei buoi di tale o tal’atro colore che passano dalla Sicilia >>. Grazie, grazie, lo interruppe Eratostene: << Te lo ricordi che lo aveva chiesto a me?>>.

<< Certo. Mi ricordo che la lettera cominciava così:

A Eratostene

Conta, o amico mio, se hai saggezza sufficiente, con un’applicazione motivata, il numero dei buoi di Elios che un tempo pascolavano nell’isola di Trinacria, la Sicilia, suddivisi in quattro colori…[Nascondendo a fatica l’orgoglio, Eratostene si allontanò. La voce di Teo si perse nella notte].1

Denis Guedj lascia intendere che Eratostene quel terribile problema l’aveva risolto oppure preferisce sorvolare? In realtà, il problema era umanamente insolubile all’epoca, anche se era un problema corretto, cioè ben formulato. E’ pressoché certo che sia da attribuire ad Archimede, anche se alcuni suppongono che il testo epigrammatico che ci è pervenuto (in greco della koyné), non corrisponda all’originale (greco dorico di Siracusa).

Gotthold Ephraim Lessing (1729-1881), principale esponente dell’illuminismo tedesco, scoprì nel codice 77 Gud. Graec., conservato nella biblioteca di Wolfenbuettel in Germania, il testo del problema dei buoi del Sole che recava la seguente intestazione: Problema che Archimede compose in epigramma ed inviò a coloro chesi occupavano in Alessandria di cose di tal genere mediante lettera indirizzata ad Eratostene di Cirene.

Nel 1783 il Lessing pubblicò a Braunschweig il testo di questo epigramma [che doveva far parte della c.d. Antologia greca, una tarda raccolta di 48 di problemi attribuita ad un certo Metrodoro (V sec. d.C.), che forse compose direttamente alcuni degli epigrammi di tale raccolta, ma non tutti], insieme a uno scolio anonimo, contenente una pretesa soluzione del problema archimedeo e un tentativo nello stesso senso del matematico tedesco C. Liste.

L’Antologia greca era un libro di svago matematico della tarda antichità che senza riportarne le soluzioni, conteneva problemi abbastanza facili e semplici ad eccezione di un problema difficile, attribuito a Diofanto, e del problema bovino attribuito ad Archimede, che era incomparabilmente più difficile di quello di Diofanto (matematico alessandrino vissuto circa 5 secoli dopo Archimede, autore di opere di algebra, sebbene il termine sia arabo).

Il problema bovino, che si presenta gradevole e apparentemente semplice, è invece tremendo. Era incalcolabile, sicuramente al di fuori della portata di qualsiasi contemporaneo di Archimede, fosse pure una congrega organizzata di matematici alessandrini. In realtà nessuno lo risolse. E nemmeno avrebbe potuto trascriverne il risultato. Riteniamo che anche Archimede non lo avesse calcolato, sebbene fosse certo a priori della proponibilità di quel tremendo problema di analisi indeterminata (equazioni diofantee di secondo gradodel tipo così detto di Pell).

Nel 1880 due matematici tedeschi, Krumbiegel e Amthor, trovarono una via per la risoluzione del problema attraverso il metodo della scomposizione in fattori primi che però non è facilmente determinabile e che diviene presso che impossibile per grandi numeri.

Nel 1889 tre ingegneri americani dell’Illinois, dopo 4 anni di continui sforzi, giunsero a una soluzione che comprendeva numeri con oltre 200 mila cifre.

Il problema non è di apparenze difficili o incomprensibili, ma è un caso di analisi indeterminata di quasi impossibile computazione. Le soluzioni, che devono essere numeri interi, sono infinite nell’analisi indeterminata. Le prime 8 soluzioni richieste dal problema bovino, con l’aggravamento delle due condizioni pitagoriche inserite nel secondo e ultimo gradino, sono date da numeri spaventosamente grandi. Si tratta, perciò, di un complicatissimo problema “logistico”, la cui difficoltà è soprattutto di tipo “computazionale”.2

Soltanto con l’ausilio dei moderni calcolatori elettronici si è giunti a determinare le 8 soluzioni minime richieste: la prima volta nel 1961 e in seguito con calcolatori elettronici sempre più potenti e veloci.

Con gli attuali computer il problema può essere risolto in meno di un secondo, ma per stampare le soluzioni occorre molto, ma molto più tempo (le cifre sono contenute in centinaia di pagine).

* Chi è interessato a questo problema può trovare su Internet tutti gli elementi per soddisfare la sua curiosità, consultando per esempio il Blog matematico del Prof. Umberto Cerruti dell’Università di Torino e il sito in inglese del Prof. Ilan Vardi.3

2* Dopo la pubblicazione da parte del Lessing il problema fu oggetto anche di ricerche filologiche. J. Struve e K.L. Struve, padre e figlio, notarono per primi che il problema sembrava ispirarsi a un brano dell’Odissea (XII, 165-169), in quanto il riferimento testuale dell’epigramma era alla Trinacria o Trinachia, cioè l’isola di Sicilia a tre punte e al gregge dei buoi del Sole Iperione.

Il citato passo dell’Odissea contiene un calcolo elementare, un minuscolo indovinello, ma il problema di Archimede – ed è assodato che egli ne sia stato l’autore – si imperniava invece in due fasi distinte, in primo e un secondo gradino, con un computo difficilissimo, umanamente impossibile con carta e penna.4 Il testo greco dell’epigramma, d’apparenze abbastanza innocue, 44 versi in tutto, conteneva invece un’enorme difficoltà.

Che senso poteva avere un problema simile? Era forse una beffa, oppure una sfida, e conteneva un trucco?

Archimede non era nuovo ai numeri mostruosi (sistema esponenziale delle ottadi nell’Arenario), e del resto aveva già inviato ad Alessandria dei falsi enunciati, forse per smascherare alcuni matematici presuntuosi, che gli erano antipatici (e che dovevano essere tali anche per il caro amico Conone di Samo).

Il problema bovino si compone di due parti, una addosso all’altra, con la seconda parte assai più complicata della prima. Sull’autenticità del problema non dovrebbero esserci dubbi: l’Hermann indicò per primo che un anonimo scolio al Carmide di Platone ne faceva menzione. Due brevissime citazioni di Cicerone si riferiscono indubbiamente a questo problema, la cui antichità e fama non possono dunque essere messe in dubbio. Il grande filologo danese, Joan Ludvig Heiberg (1854-1928), scopritore e primo traduttore del palinsesto bizantino del Metodo, lo attribuiva con certezza assoluta ad Archimede.

Sembra che Gauss era arrivato a risolverlo, tuttavia non pubblicò nulla.

Qualcuno però ha negato l’autenticità del testo greco. Altri hanno preteso di tagliarlo e di sfoltirlo in una versione assai più semplice e c’è stato chi anche in tempi recenti – come K. G. Calkins e Umberto Bartocci – ha ritenuto che le reale difficoltà computazionale del problema fosse dovuta a occasionali errori di trascrizione da parte degli antichi copisti che l’avrebbero involontariamente trasformato in un mostro “logistico”.

Tuttavia, a un’analisi testuale, non si colgono alterazioni: il problema sembra genuino e uscito da una mano o mente sapientissima. Heiberg lo inserì tra le opere di Archimede, pubblicate a Lipsia nel 1881, mantenendolo nelle edizioni successive.

Chi compose questo affascinante e misterioso problema, esprimendosi in versi epigrammatici in greco comune, non solo gli conferì un’allusiva e sottile veste letteraria, ma anche una sapiente struttura matematica. Ciò porta a ritenere che il testo è genuino e che può averlo composto soltanto Archimede.

Data l’enorme difficoltà del computo per le prime 8 soluzioni intere richieste dal problema per via del terribile aggravamento dovuto al secondo gradino, si deve presumere che neppure Archimede, autore del testo, potesse averle calcolate. Il problema bovino fu concepito a tavolino, per un certo scopo, sapendo a priori che nessuno a quell’epoca (ma anche nei secoli successivi) avrebbe potuto calcolarlo (tra l’altro i greci facevano i loro calcoli in un modo assai meno agevole del nostro).

Chi ideò questo problema con tanta genialità creativa sapeva anche che doveva necessariamente ammettere le soluzioni richieste. Soltanto un genio come Archimede avrebbe potuto immaginare e costruire con tanta sapienza un problema così concepito. Se l’ha fatto, per di più in forma di epigramma, il suo obiettivo doveva essere quello di lasciare delusi e sconsolati i destinatari del testo epigrammatico, impartendo loro una lezione di modestia. Si deve pensare a una beffa ovvero a una raffinata vendetta. Quale il motivo?

3* Il problema dei buoi del Sole che pascolano nelle fertili pianure dell’isola di Trinacria o Trinachia possiede effettivamente le 8 soluzioni minime richieste, che come sappiamo oggi sono spropositate. La loro trascrizione richiederebbe un libro di centinaia di pagine.

Le soluzioni devono essere ovviamente in numeri interi e chi abbia risolto il sistema lineare di 8 equazioni indeterminate di cui si compone il primo gradino del problema, si trova poi davanti alla doppia condizione pitagorica posta dal secondo gradino, quello della vera sapienza, che porta ad una equazione indeterminata di secondo grado. Da soluzioni a 7-8 cifre del primo gradino si passa a soluzioni di oltre 200 mila cifre per l’equazione indeterminata di secondo grado, a due incognite, del gradino successivo.

Ci si deve accontentare delle soluzioni minime: le equazioni di analisi indeterminata o diofantea hanno un ciclo d’infinite soluzioni.

Le soluzioni minime del secondo gradino sono numeri impossibili. Nemmeno l’ideatore del problema avrebbe avuto il tempo materiale di risolverlo, a pena di perdere inutilmente anni di fatica senza garanzia del risultato. Il problema bovino doveva essere una sonora beffa o una tremenda vendetta ma con un contenuto morale. Archimede doveva sapere in anticipo che quel problema da lui costruito in quella maniera ammetteva necessariamente le soluzioni richieste in base alla sua formulazione ma a prescindere dalla loro effettiva calcolabilità.

Le ingannevoli apparenze facevano parte del trucco, spietato e velenoso, che soltanto un gravissimo torto subìto avrebbe potuto giustificare. Il problema non insegna molto dal punto di vista strettamente matematico, sebbene per certi versi sia un “oggetto” interessante, per i matematici moderni, dal punto di vista computazionale.

*[Sul problema bovino segnaliamo quanto riportato da Gino Loria: op.cit., pp. 932 segg., e poi anche nella sua Storia delle Matematiche, Hoepli, 1950, pp. 113 segg. Si fa rinvio anche a Luciano Cresci, I numeri celebri, Milano, 2000, pp. 161 segg.; a Attilio Frajese, op. cit., pp. 622 ss.; a S. Maracchia, in “Archimede”, gennaio-aprile 1972, pp. 104 segg. Segnaliamo inoltre il lavoro di U. Bartocci (con M.C. Vipera), Variazioni sul problema dei buoi di Archimede, ovvero, alla ricerca di soluzioni “possibili” (2004), ove viene indicata la soluzione canonica del problema, ma sono presentate alcune soluzioni alternative, nell’ipotesi di un testo giuntoci eventualmente corrotto, e, in particolare, indichiamo la brillante soluzione, perfettamente esposta passo dopo passo dal U. Cerruti, completa in ogni dettaglio.Va infine ricordato che nel 2007 un gruppo di studenti liceali italiani si è accostato al problema bovino con la conclusione che probabilmente si trattava di una beffa o di una vendetta - la medesima possibilità era stata adombrata da G. Scarpati].5

4* Riportiamo per utilità del lettore il testo del problema nella traduzione in italiano seguendo l’epigramma di 44 versi, di cui abbiamo cercato di mettere in evidenza l’andamento separando tra loro i vari brani che lo compongono, insieme ai due distinti gradini di difficoltà. Il testo greco dell’epigramma è facilmente reperibile sul web6

Calcola, o straniero,7 il numero dei buoi del Sole,

operando con cura, se possiedi una qualche sapienza;

calcola in qual numero pascolavano un tempo sulle pianure

dell’isola sicula di Trinacria, distribuiti in 4 gruppi

di vario colore: uno di aspetto bianco latteo,

il secondo splendente di color nero,

il terzo poi di un bruno dorato, il quarto screziato.

In ogni gregge i tori erano distribuiti in considerevole quantità,

nei seguenti rapporti: ritieni i bianchi

come uguali alla metà della terza

parte di tutti neri e ai bruni;

i neri poi uguali alla quarta parte

e alla quinta degli screziati e a tutti bruni,

i restanti screziati considerali poi

come eguali alla sesta parte e alla settima parte

dei tori bianchi e di nuovo a tutti i bruni.

Le giovenche erano invece distribuite nei seguenti rapporti:

le bianche erano eguali precisamente alla terza

e alla quarta parte di tutto il gregge nero;

le nere alla quarta parte insieme alla quinta;

le nere alla quarta parte assieme

alla quinta parte delle screziate

prese insieme ai tori; le screziate

erano precisamente uguali alla quinta parte e alla sesta

di tutti gli animali del gregge bruno;

le brune poi uguali alla metà della terza parte

e alla settima parte del gregge bianco.

Quando avrai, o straniero, determinato esattamente i buoi del Sole

avrai distinto quanti erano i tori in tutto

ed avrai anche trovato quanti erano di ciascun colore,

non ti si chiamerà ignorante o inabile nei numeri,

però non ti si potrà annoverare tra i sapienti. Ma ora

bada bene a questi altri rapporti fra i buoi del Sole.

Quando i tori bianchi si mescolavano ai neri

formavano un gruppo equilatero

in altezza e larghezza: le vaste pianure

della Trinacria erano allora tutte piene di buoi.

Invece i tori bruni e gli screziati

tra loro riuniti costituivano una bella figura

triangolare. Quando avrai trovato tutto questo

e l’avrai esposto sotto forma intellegibile

e avrai trovata anche la quantità totale dei buoi,

allora, o straniero, per quanto hai fatto va superbo

come vincitore e sii sicuro d’essere considerato sapiente.

***

La parola “xeine”, che nell’epigramma compare 4 volte, sempre al vocativo, determinando una scansione evidente del testo, èstata qui tradotta come “straniero”, diversamente da chi preferisce il significato di “amico”. Ma “xenossignifica – anche e soprattutto – “straniero”, che ironicamente inteso può arrivare a significare profano. Profano non tanto della scienza, intesa come sapere, bensì privo di saggezza (la parola sophie apre e chiude l’epigramma, implementando la sfida con un ammonimento che è innanzi tutto di valore etico).

LA STRUTTURA DEL PROBLEMA BOVINO

1* Il significato letterale dei primi versi dell’epigramma è proprio questo: La sterminata quantità dei buoi del Sole, o straniero, misura / agendo con massima cura, se ne sei capace, / che un tempo pascolavano nell’isola di Sicilia “a 3 punte” / ripartiti in 4 diversi colori della pelle…- “Calcola tutto ciò se sei saggio”.

Si trattava delle mandrie di bovini sacri al Sole Iperione (la parola greca buoi significa ugualmente tori e vacche). Nell’Odissea erano 7 mandrie, che non generavano prole e neppure perivano.

Mandrie di tori e di vacche, che erano custodite in Sicilia da due dee dai bei riccioli, Faetusa (la luce) e Lampezia (la risplendente), figlie di Elio (il sole) e di Neera (nuovo anno o forse nuova luna).

Quando i compagni di Ulisse ebbero ucciso alcuni sacri giovenchi, allora furono tratti a sterminio da Zeus, su preghiera di Elio, cui Lampezia aveva riferito il misfatto.

Queste greggi del Sole, in origine, rappresentavano l’immagine simbolica dei giorni dell’anno, che consisteva in 50 settimane di sette giorni e sette notti.

Nei luoghi ove Elio era venerato si trovavano ordinariamente le greggi a lui sacre di colore bianco o fulvo (Omero, Inno ad Apollo, 233; Erodoto 9, 93).

Elio vede e ascolta tutto (Iliade, 3, 77; Odissea, 11, 109). Penetra con la sua luce nei luoghi più segreti, trae in luce il nascosto e spesso castiga il colpevole (Sofocle, Edipo a Colono, 869).

Per questa ragione Elio era invocato nelle protestazioni e nei giuramenti. A Rodi gli era riservato un culto speciale (Pindaro, Olimpica 7, 54), rappresentato da una colossale statua, alta 70 braccia (33 metri), costruita da Carete di Lindo, allievo di Lisippo, fra il 294 e il 282 a.C. Nel 226 a.C. un violento terremoto abbatté il Colosso di Rodi (la statua si spezzò all’altezza delle ginocchia).

Rodi era stata il dominio della dea lunare Danae, finché la dea non fu sopraffatta dal culto del dio solare ittita Tesup, venerato in forma di toro.

I sette figli di Elio (e di Danae) indicano la settimana di 7 giorni, dominata dalle potenze planetarie (i Titani). In età faraonica l’Egitto commerciava con Rodi.

Omero chiama Elio con l’appellativo di Iperione (cfr. prologo dell’Odissea). Questo fatto è il ricordo della supremazia della Luna sul Sole, secondo il culto della Grande Dea. Il numero 7 si collega dunque al numero 12 delle lunazioni complete in un anno (c.d. anno di Numa: cfr. Censorino, XX), meno i 5 giorni sacri a Osiride, Iside, Set, Oro e Nefti. Eurifessa, dagli occhi bovini, è la Luna. Nell’antica mitologia europea i bovini erano gli animali sacri alla Luna più che al Sole (cfr. R. Graves, I mitigreci). Elio, il dio del sole, è figlio del titano Iperione (l’ascendente) e della titana Tia (Esiodo, Teogonia, 371 segg.).

L’epigramma bovino che non può non implicare questi riferimenti, insieme ad altre allusioni implicite di diverso genere, persino in uno sfondo cosmico (che si rifà alle eclissi di sole e di luna), volge al sodo. E’ un bando di sfida, con un monito in favore della saggezza, ma anche della modestia, rivolto ai presuntuosi e ai profani. Antiche fonti attribuiscono ad Archimede persino un commentario a Omero e un trattato sulle figure equilatere, oltre al libro Suinumeri, inviato a Zeusippo, di cui è diretta testimonianza nell’Arenario.

Per Cicerone, che ne fa menzione, il problema bovino era sinonimo per eccellenza di cosa difficile, di questione inestricabile. Archimede ha ideato e costruito l’epigramma intenzionalmente già dal primo verso come insolubile.

La sfida non consisteva nella risoluzione, sebbene Archimede sapesse che le soluzioni richieste dal testo esistevano con ogni certezza, ma in una lezione di modestia, di virtù e di temperanza, impartita con un’eccezionale invenzione matematica e letteraria, paradossalmente ricca di ammonimenti e di allusioni. Si esprimeva ironicamente fin dall’inizio, creando uno scenario portentoso con meravigliosa energia creativa. Anche i colori delle mandrie fanno risaltare la potenza solare di una terra magnifica e misteriosa, la Trinacria, in cui Omero aveva ambientato il dodicesimo canto dell’Odissea.

2* Il problema è suddiviso in due distinte parti o gradini, di diversa difficoltà, col secondo livello inerente al primo, che dà corpo all’ammaestramento per la vera sapienza. La potenza immane del numero, che abita nell’immensità cosmica come nell’Arenario, è esprimibile – ed è intellegibile – ma occorre essere sommamente modesti. La sua potenza sovrasta l’uomo, e chi se ne ciba nel sacrilegio o pretenda di dominarlo con superbia potrebbe non far più ritorno, perire come i compagni di Odisseo.

Occorre scegliere l’abito dell’umiltà, che è anzitutto contemplazione solenne del mistero. Farlo con riverenza sapiente, unica virtù che consente di evitare il pericolo mortale rappresentato dai due mostri di Scilla e Cariddi. E se proprio si vuole udire il canto ammaliante delle Sirene, che però fa impazzire, è bene premunirsi con astuzia. Nessuno si glori e si vanti oltre misura. Il periglioso naufragio è un’insidia da tenere in considerazione se ci si avventura in mari troppi vasti.

Il cielo si compone di 9 sfere. Otto sfere planetarie compresa la Terra. L’ultima sfera delle stelle fisse avvolge l’Universo. Il “problema bovino” di Archimede, che potrebbe richiamarsi alla sua famosa “sfera celeste”, propone 8 incognite, in 9 equazioni (7 equazioni nel primo gradino e la doppia condizione pitagorica del secondo gradino). Ci sarebbe un’analogia cosmica.

Se le incognite del problema sono 8, il primo gradino si fonda sul numero 7. Le ripartizioni dei tori e delle vacche sono 7, ma il sistema lineare è a 8 equazioni. Il problema 79 del papiro Rhind, scritto dallo scriba Ahmes verso il 1650 a.C., si fonda anch’esso su 7 gatti che mangiano 7 topi, i quali mangiano 7 spighe. Ogni spiga dà 7 misure di grano. Si chiede di conoscere quante cose ci siano in questa storia.

Il numero 5040 di Platone si fondava anch’esso sul numero 7. Il numero 5041 è il quadrato di 71. Il numero 5038 è divisibile per 11. 7/5 è un rapporto molto vicino alla radice di 2, 7 e 5 sono soluzioni dell’equazione di Pell: < X al quadrato – 2 Y al quadrato = -1 >.

7 sono i colori dell’iride, 7 le note musicali. Nel Timeo le 7 note musicali corrispondono ai 7 pianeti. 77 volte 7 è il numero del perdono. Apollo e Atena erano associati al numero 7. 7 sono i livelli del purgatorio nella Divina Commedia e 7 i veli della famosa danza. 7 le età della vita.

3 e 4 sono la combinazione del sacro e del profano. 3 sono le ripartizioni dei tori, 4 le ripartizioni delle vacche.

Secondo le dottrine pitagoriche il numero 7 era considerato plenus in quanto composto dal 3 e dal 4. Il numero 3 corrisponde al triangolo, il numero 4 corrisponde al quadrato. Anche nel secondo gradino del problema ritroviamo il numero 7.

Sette erano le mandrie omeriche del Sole, che non figliavano né perivano, e che un tempo pascolavano in gran numero nell’isola di Trinachia a tre punte.

Arrostendole con uno “spiedo” (cfr. quanto detto a proposito dell’aition di Callimaco sui riccioli di Berenice), di quelle carni proibite, perché sacre al Sole Iperione e custodite da 2 dee dai bei riccioli, si cibarono ignominiosamente i compagni di Ulisse, che per questo sacrilegio furono puniti con la morte.

Le corna dei bovini rimandano alla luna nascente, mentre a Menfi, l’antica capitale dell’Egitto prima del regno macedone, era adorato il bue Api come incarnazione del dio Ptha. Il culto di Serapide era associato a Osiride-Api. Tutto lascerebbe scorgere una struttura fatta di tante allusioni, anche di tipo astronomico connesse alle eclissi di sole e di luna, da cui sarebbero derivati miti e credenze religiose già implicite nella narrazione omerica.

Il problema dei buoi del Sole, nel suo primo gradino che è bipartito, consiste in 3 rapporti di ripartizione frazionaria fra i tori e poi in 4 rapporti fra le vacche in relazione ai tori dello stesso colore. Il sistema frazionario utilizzato è quello delle c.d. frazioni egiziane, con numeratore 1, mentre i denominatori, ben accostati tra loro non superano il numero 7.

Le ripartizioni in frazioni costituiscono un doppio anello chiuso, con un sapiente andamento, entro il quale si cela il numero di Platone 5040, indicato nelle Leggi, che nasce dal prodotto fattoriale del numero 7 e che possiede 59 divisori (un numero ideale per effettuare suddivisioni).

I 4 colori degli animali consentono tali relazioni frazionarie disposte l’una sull’altra. Le incognite da trovare sono 8: cioè il numero dei capi di bestiame di ogni gregge di colore, sia per i tori che per le vacche. Ovviamente si tratta di numeri interi. Le soluzioni del sistema lineare di analisi indeterminata che compone il primo gradino non superano i milioni di capi di bestiame. Nel secondo gradino l’aggravamento numerico diventa mostruoso con numeri di 200 mila cifre, umanamente incalcolabili.

Archimede ha ideato il suo problema in due gradini successivi. Nel primo gradino, quello della semplice abilità nei numeri, si hanno due ripartizioni: a) quella dei tori tra di loro, secondo il loro colore; b) quella delle vacche tra loro, secondo il colore, ma con riferimento ai tori dello stesso colore. Il secondo gradino ha invece riguardo soltanto ai tori, stabilendo che la somma di quelli bianchi e quelli neri, presi insieme, formano un numero quadrato (sono cioè un quadrato perfetto), mentre la somma di quelli bruni (o marroni) e di quelli pezzati (cioè di colore screziato) corrisponde invece a un numero triangolare pitagorico. I pitagorici parlavano di numeri figurati: triangolari, quadrati, pentagonali, esagonali ecc., con riferimento alla “figura” che essi formano, quella cioè di un triangolo, di un quadrato ecc.. Sono “triangolari” i numeri interi dati dalla somma di tutti i numeri naturali presi in serie Ad es. il numero 3 è triangolare, essendo la somma di 1 + 2 + 3 (ed è perciò rappresentato da 3 puntini, disposti su due righe). La moderna formula algebrica dei numeri triangolari è: n [(n+1) /2]. I numeri quadrati sono il prodotto del numero moltiplicato per se stesso: per es. 2 per 2 = 4 (i numeri quadrati sono rappresentati da un quadrato formato da altrettanti puntini: ad es. 16 puntini si dispongono a formare il “quadrato” di lato 4 ‘puntini’). Le soluzioni del primo gradino sono 8 numeri nell’ordine dei milioni (numeri a 6 o a 7 cifre). Le soluzioni del problema, comprensivo del secondo gradino, sono cifre spropositate, che a stento possono essere contenute in un libro (200 mila cifre). Ma a guardar bene è evidente, sia nel primo come nel secondo gradino, una struttura fondata sul numero 7.

3* Il secondo gradino rende il problema difficilissimo. Il numero dei tori neri è composto di oltre 200 mila cifre. Come si fa a calcolare a mano, a trascrivere numeri simili, come 7766 per 10 elevato a 206541? Inutilmente, si perderebbe un’enormità di tempo, ammesso che ci si possa riuscire, come quei tre ingegneri dell’Illinois che però si giovarono di tutti i vantaggi del calcolo moderno. L’estrema difficoltà si verifica già all’interno del sistema decimale, con cifre arabe e con lo zero, che è senz’altro agevolato. Come potevano i contemporanei di Archimede calcolare quei numeri spropositati con i loro metodi computazionali che erano fondati sul difficoltoso calcolo attraverso 36 lettere-numero prese dall’alfabeto greco? Si deve ritenere (in alternativa a un testo alterato dai copisti: ipotesi che respingiamo), che gli antichi neppure ci abbiano provato, arrestandosi al primo gradino. Tranne l’esistenza di un’altra via, una sorta di scorciatoia che però non si riesce a immaginare (se esistesse i matematici moderni l’avrebbero già individuata).8

Per lo stesso motivo si deve ritenere che neppure Archimede poteva averlo calcolato. Egli aveva ideato a tavolino un terribile problema numerico che per forza doveva soluzioni certe a priori, essendo stato costruito proprio in quella maniera, in due distinti gradini, quando però, ponendo le condizioni del secondo gradino, si anticipava come cosa certa che le somme delle due coppie di tori sono rispettivamente la figura di un numero quadrato e di un numero triangolare, numeri pitagorici, dando così l’impressione d’aver già fatto i calcoli conoscendo le prime 8 soluzioni intere.

Diofanto (5 secoli dopo Archimede) sapeva che qualsiasi numero quadrato dispari è composto da 8 numeri triangolari identici più l’unità.

Ne erano a conoscenza i pitagorici, sicuramente lo sapeva Archimede. Da sé ciò non risolve il problema. Né si possono invocare altre nozioni sui numeri pitagorici, come il fatto che due numeri triangolari immediatamente successivi formano un numero quadrato, oppure che ogni quadrato dispari è la differenza di due triangolari, o che esistono molti numeri quadrati che sono anche numeri triangolari. Gauss, a 19 anni, aveva scoperto che qualsiasi numero intero può essere espresso al massimo da tre numeri triangolari e lo aveva annotato un Eureka! Tutto ciò non ha a che fare con la soluzione del problema bovino. Era una diceria che il grande matematico tedesco avesse risolto il problema.

Il problema bovino porta a un’equazione indeterminata di secondo grado, detta di Pell dal nome di un matematico scozzese del ‘600, in questo caso della forma: X al quadrato – DY al quadrato = 1 .

La difficoltà nel risolvere un’equazione indeterminata di Pell uguagliata all’unità, sta nel fattore D (intero positivo necessariamente non quadrato se si vogliono soluzioni intere).

Quanto più il coefficiente D è grande, tanto più aumentano le difficoltà di calcolo. La condizione imposta dal secondo gradino che la somma dei tori bianchi con i tori neri deve dare luogo a un numero quadrato, comportava necessariamente il conseguimento di tale prodotto, ma a partire già da numeri milionari. La condizione triangolare della somma dei tori fulvi più quelli di colore screziato deve portare a un numero triangolare, sempre a partire da numeri milionari (quelli ottenuti dalle soluzioni minime del primo gradino).

Per impostare l’equazione indeterminata di secondo grado derivante dal primo e dal secondo gradino del problema bovino, occorre utilizzare la relazione che 8 numeri triangolari identici più l’unità formano un quadrato.

In tal modo si giunge a determinare il valore del coefficiente numerico D, circa la sottrazione tra la prima incognita al quadrato e la seconda incognita sempre al quadrato, ragguagliata all’unità (equazione di Pell della forma sopra riportata).

Trovato il valore D (che può essere ridotto fino a 4.729.494) occorre risolvere l’equazione, che fornisce una soluzione minima rappresentata dall’incredibile cifra di 7766, seguita da altre 206541 cifre, per un numero mostruoso con un totale di 206.545 cifre!

Se Archimede avesse conosciuto il valore numerico del coefficiente D ridotto, la cui fattorizzazione è 3*11*29*4657, tuttavia pure lui non poteva calcolare le vertiginose soluzioni. Eppure questo problema l’ha inventato, sicuramente per uno scopo. Il matematico indiano Brahmagupta, attivo intorno al 628 d.C., aveva proposto la seguente equazione diofantea: x al quadrato – 92 y al quadrato =1. Il coefficiente di questa equazione indeterminata di secondo grado a due incognite è un’inezia: 92. Di questa equazione Brahmagupta aveva affermato che una persona che possa risolverla in un anno è un matematico. Al confronto, l’equazione indeterminata di Archimede è un mostro smisurato.

ULISSE E IL CANTO DELLE SIRENE

1* Il problema bovino, come capirono per primi i due Struve, padre e figlio, s’ ispira ad un passo dell’Odissea (XII, vv. 128-133). Ecco quanto scrive Omero:

E all’isola di Trinacria tu verrai: qui in un numero grande

van pascolando gli armenti del Sole e le floride greggi,

sette mandrie di armenti, e tante greggi di belle pecore,

cinquanta capi ciascuna; parto fra queste non c’è,

né mai muoiono: due dee ne sono guardiane,

due ninfe dai riccioli belli, Faètusa e Lampetìe,

che partorì Iperione la lucente Neèra.

Ulisse con i suoi marinai – come gli predice la maga Circe – dovrà affrontare il canto delle Sirene e poi i mostri di Scilla e di Cariddi: Scilla la “divorante”, e Cariddi la “risucchiante”. E’ a causa della loro empietà che i suoi compagni non rientreranno in patria, perendo durante il viaggio in quanto sebbene ammoniti a non farlo, si sono tuttavia nutriti delle carni prelibate delle 7 greggi del Sole Iperione, che pascolavano un tempo sulle belle spiagge di Taormina (Tauromenia).

Ulisse eviterà l’incantesimo mortale delle Sirene, pur udendone il canto; e saprà cavarsela anche con i 2 terribili mostri marini. Dopo tante altre peripezie potrà ritornare finalmente a Itaca. La sua forza saprà ancora imbracciare e tendere maestosamente l’arco, e la freccia – scoccata diritta – trapasserà gli anelli di 12 scuri in fila. Tale è la potenza dell’uomo giusto, che s’impossessa della verità con rettitudine: e che ha fatto ritorno al regno della giustizia e della rettitudine, dopo le inevitabili peripezie della vita e gli immani sforzi della ragione davanti all’enormità del mistero. Nemesi era la dea greca della “Giustizia”. Ananke è la potenza della “Necessità” in Platone.

La Sicilia era chiamata Trinacria o Trinachia già in epoca omerica per via della sua forma “a tre punte”. Qui in Sicilia, sulle stesse spiagge non lontano da Siracusa, pascolavano otto greggi di armenti del Sole, tori e vacche dai 4 diversi colori. Otto dunque le incognite o soluzioni richieste dal problema: sia nel primo, che nel secondo gradino (che però le aggrava enormemente).

Risolto il primo gradino si deve passare al secondo. La doppia condizione pitagorica del secondo gradino, cioè la figura equilatera formata dai buoi bianchi e neri radunati in un branco e la figura triangolare formata dai tori fulvi screziati, determina il passaggio a un’equazione indeterminata di secondo grado.

Nell’antichità c’erano dei matematici che formulavano e risolvevano complicati problemi di analisi indeterminata: ad esempio Brahmagupta (VII secolo) e Bhaskara (XII sec. d.C.). Ed è vero, altresì, che l’autore dell’antica cronaca inglese della battaglia di Hastings (14 ottobre 1066) ha introdotto nella sua narrazione un numero di schiere di soldati (61), che formando un quadrato, quando vi entrò re Aroldo, danno luogo a una equazione di secondo grado di Pell, la cui soluzione è di migliaia di miliardi di soldati.

Le soluzioni primitive del problema bovino sono enormemente più grandi. E’ poi vero che l’analisi indeterminata di Diofanto è un ramo della matematica moderna che costituisce strumento utile per lo studio dei numeri primi.

E’ pure vero che il denominatore comune delle 4 equazioni frazionarie relative alla ripartizione delle vacche del primo gradino è un numero primo (4657), il cui andamento in cifre sembra possedere una certa regolarità, come il numero 7766, che seguito da altre 206.541 cifre, fornisce la soluzione più piccola.

Stranezze o combinazioni casuali che sembrano affacciarsi anche rispetto al numero di Platone 5040, perché sottraendo a esso il denominatore frazionario già indicato: 4657 che è un numero primo, si ottiene per differenza un altro numero primo (383). Il problema bovino voleva alludere al canto delle sirene che faceva impazzire i marinai? Soltanto Archimede-Ulisse, adottate analoghe precauzioni, poteva averlo udito?

Le combinazioni di cui abbiamo fornito esempio, insieme con altre singolarità, forse potrebbero essere indicative, nel senso che il problema potrebbe nascondere un trucco risolutorio non ancora individuato dai matematici moderni? Rimane fermo che i due gradini del problema dei buoi de Sole portano inevitabilmente a un’equazione indeterminata di Pell di secondo grado che soltanto un computer è in grado di risolvere, dopo aver ben impostato il procedimento matematico da seguire. Il fatto che il numero primo 4657 sia il denominatore delle 4 equazioni relative alla ripartizione delle vacche(mentre 891 è il denominatoredelle tre equazioni afferenti ai tori), non è un caso.9

Il numero sterminato dei Buoi del Sole non riempiva la Sicilia a tre punte, ma l’intero Universo. Un numero a 200 mila cifre è una mostruosa potenza di 10. La decade pitagorica elevata a 199 mila. Il bello è che con numeri ridotti ilproblema non è risolvibile. Sarebbe inutile pensare di poter dividere, cioè ridurre il risultato, per miliardi di miliardi di zeri. Non esiste una soluzione più piccola. Come faceva Archimede a saperlo? Rispondiamo che Archimede non conosceva l’enormità delle soluzioni [non le aveva calcolate, né avrebbe potuto farlo], ma sapeva comunque che erano numeri enormi. [E’ vano appellarsi al testo, che fa riferimento alla grandezza della Sicilia, per sostenere che i valori del problema sono stati casualmente adulterati dai copisti per errore di trascrizione: questa ipotesi generale non ha alcun senso, nonostante la dimostrazione dell’esistenza di soluzioni di valore contenuto e pertanto calcolabili, giacché il testo greco è genuino anche sul piano metrico].

L’autore dell’epigramma di sfida – indirizzato a Eratostene di Cirene che era un geografo e un grande filologo omerico e al suo gruppo di matematici ad Alessandria – ideò il problema a tavolino, seguendo un procedimento logico ad anello chiuso, che gli assicurava in partenza la certezza del risultato, che doveva essere molto grande, grandissimo, ma da lui non calcolato. Il tentativo di ridurre il problema alterandone il testo (nemmeno ponendosi e risolvendo la questione letterale e metrica del testo originale che sarebbe stato poi casualmente alterato dai copisti), non solo è chiaramente maldestro, ma è anche infondato. Col pretesto razionale di ridurlo, in realtà lo è eliminato, cancellandolo in bellezza e grandezza. Non rendendosi neppure conto della raffinatezza e sottigliezza dei richiami letterari che l’epigramma coinvolgeva ad ampio ventaglio.

3* Archimede conosceva i rudimenti del calcolo combinatorio. Lo provano i più recenti studi sullo Stomachion. Plutarco aveva riportato, in un passo di una sua opera, che l’astronomo Ipparco (II sec. a.C.) aveva corretto un calcolo errato, dovuto al filosofo stoico Crisippo, che in base alla logica stoica aveva sostenuto che 10 asserzioni potevano essere combinate in un milione di modi diversi. Ipparco aveva invece giustamente osservato che il numero esatto era di 103.049 combinazioni, oppure di 310.954, a seconda di come si definisse il problema. Studi recenti sullo Stomachion, un gioco simile al tangram, ma composto da 14 pezzi anziché da 7, hanno dimostrato che esistono 17.152 modi diversi, non ripetitivi, per ricomporre i 14 pezzi all’interno del quadrato che li contiene (appunto, come i 7 pezzi del tangram).10

Si potrebbe ipotizzare che le 7 ripartizioni frazionarie del primo gradino, così come sono state ordinate rispetto alla sequenza dei 4 colori, tre ripartizioni per i tori e 4 ripartizioni per le vacche rispetto ai tori del medesimo colore (utilizzando implicitamente il numero 5040 di Platone), risponda in effetti ad un anello chiuso, di tipo combinatorio, a forma di “zeta”, con la stanghetta diagonale della “zeta” dapprima posta in un verso, e poi nell’altro.

In questo modo il sistema delle ripartizioni frazionarie è perfettamente coerente, seguendo un proprio schema che difatti giustifica l’uso formale delle frazioni egiziane con i denominatori in serie,11 saltando per le vacche il fattore 1/2 per iniziare la serie di ripartizioni frazionarie, crescenti al denominatore per coppie ripetute, a partire da 1/ 3.

Tale supposizione sembra suffragata dallo schema del primo gradino che ha dato luogo a un doppio anello chiuso su se stesso, in due gradi successivi, ma secondo la medesima logica inclusiva, ripetuta una seconda volta per le vacche a cominciare dalla ‘coppia frazionaria’ 1/3 + 1/4 e via di seguito, ripetendo il primo termine fino alla coppia finale 1/6 + 1/7.

Il numero 7, che nel numero 5040 di Platone (collegato alle tetraktys pitagorica) apre e chiude la serie dei prodotti ( 7! = 5040 = 7*8*9*10 = 5040; mentre il numero 5038 è divisibile per 11), rappresenterebbe il primo dei ‘trucchi’ utilizzati da Archimede nell’epigramma bovino.

7 ripartizioni nel primo gradino, come le 7 greggi omeriche nel passo dell’Odissea, ma 8 incognite dovute ai 4 colori del pellame e ai 2 sessi del bestiame.

Il numero 7 viene definito dal neopitagorico romano Cicerone (SomniumScipionis 5,18) come rerum omnium fere nodus.

Anche il numero 8 che per i pitagorici rappresentava la “giustizia”(Macrobio, Commentario al sogno di Scipione I, 5, 16 ss.) è considerato plenus in quanto, nello spazio, rappresentava il cubo.

In sogno Scipione apprende che all’età di 56 anni (56 = 7 per 8), cioè quando il sole della sua vita avrà compiuto per 8 volte 7 giri di andata e ritorno, diverrà il sostegno per la salvezza della sua patria.

E’ singolare che il problema bovino di Archimede sia attestato da Cicerone e da uno scolio al Carmide di Platone riferibile a Gemino di Rodi. Posidonio di Apamea, che lavorava a Rodi e che fu il maestro di Cicerone per un certo periodo, sarebbe stato la fonte di trasmissione delle notizie sul problema bovino per l’eclettico oratore romano, Marco Tullio Cicerone, di educazione neopitagorica,12 arguendosi da ciò un collegamento con la questione della misurazione della Terra da parte di Eratostene cui il testo epigrammatico era indirizzato.13

Il numero 7 ( cioè 3 + 4) è presente anche nel secondo gradino del problema, con i 2 diversi accoppiamenti di colore per i tori. Il primo accoppiamento dà luogo a un “quadrato”, il secondo a un “triangolo”. Il numero 7 si ripete in tali figure (4 + 3 = 7). L’analogia tra il primo e il secondo gradino non sembra casuale. Dovrebbe avere un profondo significato logico – strutturale inerente a come il problema fu ideato e costruito. Anche in questo caso dovrebbe aver operato il pensiero trasformativo di Archimede, secondo la concezione espressa dal matematico e studioso d’intelligenza artificiale David Perkins, docente al MIT e a Harward.

E’ umanamente impossibile che Archimede, autore di quel terribile problema in versi, ne conoscesse le mostruose soluzioni numeriche. Queste soluzioni sfuggirono per secoli alle possibilità di qualsiasi matematico dell’antichità per due semplici motivi: 1) non esisteva un sistema di calcolo adeguato; 2) non aveva alcun senso pratico risolvere un problema logistico che avrebbe finito per assorbire inutilmente il tempo di un’intera vita, ammesso e non concesso che ciò fosse bastato, senza alcun costrutto o qualsiasi utilità o convenienza.

Il problema dei buoi non era però una sfida vana e inutile, rappresentando una beffa con tanto di lezione morale. Dimostreremo che si trattava della terribile vendetta di Archimede contro Eratostene e il suo gruppo, a metà tra lo scherzo e l’inganno, ma con uno sfondo di virtù e modestia. Per udire il canto delle sirene Ulisse si fece legare all’albero maestro della nave dopo aver tappato con la cera le orecchie dei suoi compagni. La domestica Musa di Archimede rappresentava comunque il canto delle Sirene omeriche nello stretto, tra i mostri di Scilla e Cariddi. Eratostene era cieco e sordo, inorgoglito dalla superbia. Ma conservò l’epigramma, forse avendo afferrato la lezione.

ALTRI RIFERIMENTI LETTERARI

1* Per cogliere lo scopo dell’epigramma bovino dobbiamo scorgere che nei versi precedenti del medesimo canto dell’Odissea (vv. 69-70) Omero accenna alla nave Argo e a Giasone, la cui epopea preomerica fu ripresa in età alessandrina dal poema in 4 libri di Apollonio Rodio, Le Argonautiche, che si apriva con una invocazione ad Apollo solare.

Scrive Omero: Sola riuscì a passarvi una nave marina, / quella nave Argo che tutti cantano, tornando dal regno d’Eèta. La nave Argo riuscì a superare indenne Scilla e Cariddi nel viaggio di ritorno del periplo geografico, avventuroso e mitico, che la condusse alla conquista del vello d’oro nella lontana Colchide, una generazione prima della guerra di Troia.14 Il periplo della nave di Giasone suggerisce lo stesso perimetro geografico di Ulisse nelle terre conosciute che si affacciavano sul Mediterraneo, la prima volta sul Mar Nero.

Nell’epigramma bovino c’è un riferimento implicito alla geografia. Omero era considerato il primo autore che ne avesse trattato. Eratostene, a differenza di quanto riteneva Polibio, negò ogni dignità scientifica alle narrazioni omeriche dell’Odissea, ponendo le lunghe peregrinazioni di Ulisse e dei suoi compagni come un girovagare sull’Oceano [Pitea aveva condotto una spedizione fuori dal Mediterraneo costeggiando l’Africa verso sud e navigando anche a Nord, oltre l’Inghilterra]. 15

C’è nell’epigramma bovino un riferimento o un’allusione sghemba all’attività geografica di Eratostene che tra l’altro aveva scritto il Platonico, opera completamente perduta, che doveva essere dedicata ai “numeri” e alla “musica delle sfere” secondo Platone. Il canto delle Sirene oppure i mostri di Scilla e Cariddi (tremendi ostacoli per i naviganti), furono superati dagli Argonauti nell’impresa del vello d’oro durante il viaggio di ritorno fino alla Libia dopo aver costeggiato Cirene.16

Gli Argonauti erano passati per il pericoloso canale di Messina, compiendo un tragitto identico a quello di Ulisse e dei suoi compagni, come narrato nell’Odissea. Apollonio Rodio, bibliotecario prima che lo diventasse Eratostene, s’ispirò alla tradizione preomerica, componendo un poema in 4 libri per 5833 versi in tutto (I: 1362; II: 1285; III: 1405; IV, 1781). Questi numeri non sono lontani da quelli dei numeratori delle frazioni per i tori nel primo gradino (2226/891; 1602/891; 1580/ 891).

Nelle Argonautiche, poema allegorico sottile, ispirato all’Odissea ma tendente al contrario a esaltare uno statuto antieroico, così leggiamo nel quarto libro: Presto costeggiarono i prati di Trinacria / dove sono allevate le vacche del Sole (vv. 964-965)… Le videro pascolare / presso le acque del fiume, nei prati e nella piana / paludosa. Nessuna era di pelo nero: / tutte candide come latte…(974-977).

Archimede, mente finissima, si è ispirato a Omero per il numero 7 delle mandrie dei buoi del Sole, custodite da 2 dèe dai bei riccioli; dallo stesso testo omerico ha raccolto il tacito collegamento con le nave Argo e con l’impresa di Giasone, riportandosi così all’ambiente alessandrino, a quell’epoca dominato da Callimaco e da Eratostene, nati a Cirene.

Callimaco aveva parlato di Conone nella Chioma di Berenice, mentre Eratostene aveva smentito le valutazioni di Archimede contenute nell’Arenario. Dalle Argonautiche di Apollonio Rodio Archimede ha ripreso i 2 colori tipici delle mandrie bovine, il bianco e il nero, aggiungendo però gli altri 2 possibili colori naturali, fulvo e pezzato. E vi ha costruito sopra il suo enorme problema, che in Omero era accennato in modo elementare, attraverso il numero dei 50 capi di bestiame.

I 4 colori dei bovini rimandano ai colori stessi delle eclissi di sole (bianco e nero) e delle eclissi di luna (fulvo e pezzato). Nelle eclissi di luna si ammirano variazioni cromatiche che vanno dal rosso cupo a un misto di cromie ombreggiate. Implicite e intermedie, come vedremo, sono poi certe allusioni dell’epigramma ai dialoghi di Platone (Timeo, Carmide,Leggi, il mito di Er che conclude la Repubblica).I riferimenti estremi dell’epigramma restano Omero e Apollonio Rodio.

Quest’ultimo da Alessandria si era ritirato a Rodi, probabilmente a causa di un dissidio con Callimaco, per rientrare trionfalmente ad Alessandria sotto Tolomeo II, qui ricoprendo il prestigioso incarico di Bibliotecario prima di Eratostene, che gli subentrò non appena si insediò sul trono Tolomeo III, che aveva sposato Berenice di Cirene (246 a.C.).

Callimaco, che non ricevette quest’onore, pur avendo lavorato assiduamente per anni nella grande Biblioteca universale di Alessandria, ce l’aveva con certi Telchini, aspri avversari, tra i quali non è difficile scorgere Apollonio Rodio. La polemica riguardava la letteratura e gli stili. Le Argonautiche erano un poema ciclico, il cui genere Callimaco rifiutava. Eppure la leggenda di Giasone e del vello d’oro non solo precedeva Omero, ma riguardava il mito delle prime colonie greche sul mar Nero e in terre favolose.

A Eratostene, il Signor Beta com’era veniva ironicamente definito [ma grande filologo, studioso di Omero e di Platone, autore di opere di geografia e sui catasterismi celesti, matematico non trascurabile e erudito multiforme, colui che verso il 230 aveva misurato la circonferenza della Terra trovandola di 252 mila stadi], non potevano sfuggire certe allusioni di Archimede, compresa quella relativa al numero 5040 delle Leggi, quelle riguardanti il dialogo del Carmide e il mito di Er nella Repubblica.

I riferimenti impliciti di Archimede ad Apollonio Rodio e a Platone erano raffinati e pungenti: contenevano, a propria volta, altri riferimenti, in una nascosta concatenazione di scopo. L’epigramma bovino era una specie bando di sfida che veniva brandito come un pugnale. Eratostene s’era inimicato Archimede, e il Siracusano adesso si stava facendo giustizia. Non soltanto per sé, ma anche per conto del povero Conone, che ad Alessandria doveva aver subito altrettanti torti, dopo la successione al trono di Tolomeo III Evergete a suo padre Tolomeo II Filadelfo.

Nicotele di Cirene aveva detto male di Conone sminuendo e ridicolizzando la sua grande figura di studioso integerrimo. Tali ingiuste accuse e denigrazioni dovettero essere viva causa di dolore per il migliore amico di Archimede destinato a morire in età ancor giovane. Callimaco lo aveva apparentemente elogiato col mito o aition della Chioma di Berenice, in realtà ne aveva sminuito o travisato il valore scientifico. La nuova costellazione era un nulla di fronte alla Corona di Arianna, e quel debolissimo asterismo che Conone avrebbe scoperto tra i Cani da Caccia e la Vergine, era stato tirato in ballo soprattutto allo scopo – piuttosto ironico – che i riccioli della regina avrebbero preferito rimanere nel tempio ove erano stati dedicati in voto, anziché trasferirsi in cielo. L’ironia di Callimaco non risparmiava nulla e nessuno. Prima aveva congiurato contro Apollonio, poi aveva detto male pure di Conone, che agiva appartato, al di fuori del rissoso e pettegolo ambiente di corte, tra brighe e rivalità di dotti nel Museo elle scienze e nella grande Biblioteca di tutto il sapere.

Ateneo ha riportato certi versi di Timone di Fliunte, probabilmente in forma epigrammatica, che la dicono lunga sulle continue rivalità e tensioni tra i dotti alessandrini: cinti da palizzate di libri, litigando all’infinito nella gabbia delle Muse. La pungente disputa con i misterioso Telchini che riguardò Callimaco molto probabilmente concerneva Apollonio Rodio come principale figura avversaria [il pesante poema contro le brevi ed eleganti composizioni].

Apollonio, osteggiato e disgustato, si era ritirato a Rodi. Era poi rientrato ad Alessandria pubblicando il poema sotto la protezione del Filadelfo che lo volle nominare Bibliotecario [come avviene oggi, nomine avevano carattere politico ed esprimevano la linea culturale del regime].

Eratostene, allievo di Callimaco, fu il successore diretto di Apollonio come Bibliotecario all’inizio del regno dell’Evergete. Apollonio era stato allontanato e Callimaco trionfava. Da questo momento si accrebbe la fortuna di Eratostene nella fase centrale e più dinamica della sua esistenza fino all’impresa della misurazione delle dimensioni della Terra verso il 230 a.C., che tuttavia non era originale e innovativa, e così precisa come si ritiene.17

A nostro avviso Eratostene doveva aver scoperto – anche grazie a Callimaco che aveva curato gli elenchi o cataloghi per ‘materia’ e ‘autore’ degli oltre 700 mila manoscritti della Biblioteca – che gli antichi Egizi avevano già effettuato o tentato di eseguire in passato la stessa misurazione, in quanto si sapeva da tempo che Syene era posta all’incirca sul tropico e che si trovava quasi sullo stesso meridiano di Alessandria.

La metodica generale seguita da Eratostene e dal suo gruppo di matematici e astronomi per la misurazione del grado di meridiano, in seguito criticata da Ipparco, aveva qualcosa di “egiziano”. I misuratori di passi, che valutarono l’elemento fondamentale della distanza terrestre tra Alessandria e Syene, erano mensores regii, come li chiama Marziano Capella. Tale istituzione sembra riflettere le necessità dell’antico catasto anziché il nuovo catasto dei Tolomei che ne era la continuazione. A queste operazioni avrebbe partecipato Archimede da giovane, quando si era recato ad Alessandria per motivi di studio. Gli antichi egiziani che avevano costruito le piramidi 22 secoli prima. Perché non avrebbero potuto sapere che la Terra era rotonda e averne misurato il valore della circonferenza con metodi astronomici? Anzi, queste conoscenze sono direttamente testimoniate dalle Piramidi, senza scadere nella numerologia. Le Piramidi sono un gigantesco ponte sacro fra Cielo e Terra.

2* Il valore approssimato di “pigreco” [che rappresenta è l’invariante del cerchio] poteva essere ricavato empiricamente con sufficiente precisione, senza bisogno delle dimostrazioni geometriche di Archimede. Gli antichi egiziani dovevano soltanto misurare la distanza tra l’isola di Faro [dove poi sorse Alessandria] e Syene (Assuan) dove si trovava l’antichissimo pozzo che ai solstizi s’illuminava fino in fondo, sempre che avessero saputo che l’isola di Faro e Syene fossero pressappoco allineate lungo il medesimo meridiano.18

Eratostene avrebbe ripetuto in linea di principio le stesse procedure, di cui era stata fatta menzione in un papiro, rendendole più efficienti e precise. L’ipotesi non è peregrina. Diodoro Siculo, che fa menzione di Stonehenge, dice anche che la civiltà egiziana era vecchia di 15 mila anni.

A Eratostene va il merito di aver organizzato un’impresa scientifica di grande rilievo che abbisognò di lunga preparazione e di una grande organizzazione.

Salito al trono, l’Evegete si occupò anche della riforma del calendario. Gli antichi egiziani conoscevano il calendario solare di 360 giorni, con 5 giorni aggiunti a intercalazione L’anno iniziava il 19 luglio, al sorgere eliaco di Sirio e con le grandi inondazioni del Nilo, per terminare con la stagione della siccità in cui si iniziava il raccolto. Ogni 120 anni il calendario egiziano si trovava però sfalsato di circa un mese. Con l’editto di Canopo Tolomeo III stabilì di procedere alla necessaria riforma del calendario adottando il suggerimento di Eratostene di aggiungere un giorno a intercalare ogni 4 anni (anno bisestile).

La riforma, promossa dal nuovo regnante, considerò come data di inizio del computo l’anno 311, corrispondente alla morte di Alessandro IV Egeo, figlio di Rossane. Questa La riforma fece poi da modello alla riforma cesariana del 46 a.C.

L’editto reale, scritto in greco, in geroglifico e in demotico, stabiliva che in tutto il paese si celebrasse ogni anno un’assemblea religiosa pubblica in onore del re Tolomeo e della regina Berenice, dèi benefattori, il giorno in cui sorge la stella di Iside, e che secondo i sacri testi è il primo del nuovo anno. L’editto menzionava anche il culto di Api, il toro sacro adorato a Eliopoli [C. Finocchi, I Tolomei, Genova, 2002, p.214], menzionato anche da Cicerone (De natura deorum, I, 82).

Il dio bovino era collegato al culto di Iside e Osiride di cui parla Plutarco nell’omonima operetta.

Nell’iconografia romana un carro tirato dai buoi rappresentava gli astri e la Luna. L’Orsa Maggiore raffigura un carro celeste (7 buoi = septem triones). Nel mito di Iside e Osiride sono ricomprese le eclissi di sole e di luna.

Conone di Samo aveva scartabellato le antiche relazioni egiziane sulle eclissi. Probabilmente Archimede e Conone avevano lavorato insieme anche in Italia per cercare di stabilire la determinazione delle longitudini attraverso i tempi diversi delle eclissi di luna viste da due luoghi allineati sul meridiano.

Eratostene doveva essere entrato in urto col Conone, matematico e astronomo valentissimo, amico intimo di Archimede, da lui molto apprezzato e stimato. L’astronomo reale Conone lavorava a Canopo, scrutando il cielo, estraneo alle solite beghe di corte. Il nuovo bibliotecario poteva essere Conone anziché Eratostene. La menzione di Callimaco nella Chioma di Berenice lo poneva in risalto; ma di lì a poco Conone morì. Possiamo immaginare anche irritato dalle beghe con arrampicatori e nuovi aspiranti alla grazie della casa regnante.

Ipparco, criticando un secolo dopo il metodo usato da Eratostene per la misurazione della circonferenza terrestre, raccomandava il metodo delle eclissi lunari per la determinazione della longitudine [un problema geografico che sarà risolto soltanto nel XVIII secolo col trasporto meccanico dell’ora dopo l’invenzione del cronometro]. Le critiche di Ipparco sono decisive. Gli astronomi non erano d’accordo con Eratostene, che poi aveva perfezionato una antica procedura, già individuata dai sacerdoti-scienziati egiziani.

Archimede, nell’Arenario (circa 240 a.C.), aveva notevolmente sovrastimato le dimensioni della Terra, e sembra che credesse alla stima dieci volte minore, di 300 mila stadi, che doveva risalire a Dicearco.19

Posidonio di Apamea, il maestro di Cicerone che operava a Rodi, dove aveva lavorato per molti anni Ipparco, aveva stimato la circonferenza terrestre in 180 mila stadi. Questa stima minore fu accolta da Tolomeo e il valore si stabilizzò fino all’epoca di Cristoforo Colombo. La misurazione ottenuta da Eratostene era stata accantonata. Ciò avvenne perché l’antico metodo egiziano, recuperato dal Bibliotecario, lasciava a desiderare sul piano del metodo scientifico [oggi molti ritengono che la stima di Eratostene, molto vicina alla realtà, sia stata invece il frutto di una serie di errori ch si sarebbero compensati casualmente]. Dipendeva anche dal valore metrico dello stadio greco. Che unità di misura aveva impiegato Eratostene?

Lo stadio greco misurava 122 passi ovvero 185 metri. Sembra che Eratostene avesse usato uno stadio tutto suo di 157,50 metri. Secondo Marziano Capella (V sec. d.C.), Archimede avrebbe poi stimato la circonferenza della terra a 408 mila stadi, riducendo perciò la stima dell’Arenario, che era invece di 3 milioni di stadi. In ogni caso il numero 2520 (che è la metà del numero di Platone 5040!), è quello usato da Eratostene per comodità di calcolo, il che giustifica l’adozione del nuovo stadio che gli riferisce Plinio.

Ecco delineati, in un quadro logico-indiziario serrato e coerente, i motivi occulti o non immediatamente apparenti che starebbero dietro al problema bovino di Archimede, che non sarebbe fine a se stesso, rappresentando invece una sfida oppure una vendetta nei riguardi di Eratostene e il suo gruppo.

Se ciò è vero, allora il problema dei buoi del Sole acquista veramente un’altra dimensione, nonostante la sua complessità computazionale, che lo renderebbe mostruosamente inutile. La vendetta morale di un genio ci spalancherebbe le porte a mille altre considerazioni, di grande importanza per la storia della scienza. Queste pagine di appunti rappresenterebbero perciò una sorgente concettuale.

3* Il riferimento a Omero conteneva persino l’evocazione del ricciolo della Chioma di Berenice (secondo quell’aìtion di Callimaco), a proposito delle 2 dèe guardiane del gregge bovino del Sole. Gregge di vacche sacre anche nelle Argonautiche di Apollonio Rodio, quando i metodi di Archimede e di Conone per la misurazione della circonferenza terrestre potevano far leva sulla distanza marittima tra Rodi e Alessandria, anziché su quella terrestre [misurata in passi] tra Alessandria e Syene, impiegata da Eratostene.

Se qualcuno ad Alessandria aveva deriso Archimede e Conone per le stime errate dell’Arenario e la notizia si era sparsa, ecco che il Siracusano che già dubitava assai dei matematici alessandrini che non gli erano amici, pensa ora a vendicarsi inviando un allusivo, velenoso epigramma di sfida, che risentiva anche della cara memoria dell’amico Conone, che era stato oscurato e messo da parte dai presuntuosi. L’ipotesi è ben configurata, e ha senso anche dal punto di vista temporale per quanto riguarda la collocazione delle singole tessere nel puzzle.

Nell’Arenario Archimede aveva misurato le dimensioni del Cosmo intero, ricorrendo al sistema vertiginoso delle ottadi, cominciando da un miniscolo granello di sabbia, dal piccolissimo seme di un papavero.

Esistevano gli estremi per una polemica con Eratostene, aggravata dalla prematura scomparsa di Conone, che poteva aver patito angherie quando il governo della Biblioteca e del Museo era stato affidato a Eratostene.

L’invio del manoscritto del Metodo a Eratostene aveva già il sapore di una sottile presa in giro, sia per il contenuto un po’ ironico della lettera di accompagno, sia perché Archimede spiegava il suo modo di procedere, ma in realtà non rivelava nulla sulle sue scoperte che erano puntualmente dimostrate, in maniera formalmente ineccepibile. Perché egli aveva inviato ad Alessandria dei falsi enunciati, come già era avvenuto? E’ questo il sintomo di un attrito o di un disagio relazionale. Il problema bovino segnerebbe infine la rottura dei rapporti tra Archimede ed Eratostene dopo la misurazione della circonferenza terrestre.20 Ad Alessandria c’erano comunque dei matematici pretenziosi e superbi, già invisi al Siracusano. Tutto lascerebbe credere alla seguente cronologia o successione temporale: Conone è morto da anni, Archimede ha continuato a inviare i suoi manoscritti a Dositeo, matematico e astronomo, successore di Conone a Canopo. L’Arenario risale al 240. Eratostene aveva già ricevuto il Metodo. Eratostene e il suo gruppo, verso il 230, hanno misurato [però con un metodo che lasciava a desiderare] la circonferenza terrestre e il mirabolante risultato di 252 mila stadi che peraltro era la ripetizione di misurazioni molto più antiche risalenti all’epoca dei Faraoni, ha fatto il giro delle corti mediterranee. La stima dieci volte superiore di Archimede era motivo d’ironia, ad Alessandria e altrove. Archimede se ne risente, anche perché con Conone e Dositeo, lavorando con essi in Sicilia, si era già interessato agli stessi problemi. Conone fatto una ricerca storica negli antichi archivi alessandrini. Lo sappiamo da Seneca. Eratostene, con una misurazione in passi, si era rifatto a esperienze antiche, non originali. Punto nel vivo dalle ironie, Archimede invia ad Alessandria, a Eratostene e ai suoi matematici un epigramma di sfida, la cui struttura formale evidenziava, già sul piano letterario, una mole di allusioni esplicite e implicite.

Il mostruoso problema bovino travestito di panni innocenti adatti all’inganno è stato inviato maliziosamente, in forma epigrammatica e con una lettera di accompagno, affinché sia registrato negli archivi reali. Il problema bovino, così ufficializzato, ammetteva soluzione a priori, però incalcolabile. Le apparenze ingannavano. Ad Alessandria tentarono invano di risolverlo. Non ci riuscirono, dovettero arrendersi. Stiano zitti quelli di Alessandria. Gli insipienti sono loro. Non il grande Archimede che rimane il Signor Alfa. Così anche per quanto riguardava il povero Conone, matematico e astronomo di grandissimo valore. La sua memoria è vendicata contro i detrattori. Soltanto Conone sarebbe stato capace di risolvere il problema posto da Archimede.

E se il testo del problema bovino è potuto giungere fino a noi, conservato in un codice greco finito in una biblioteca tedesca, ciò è dovuto alla fama che gli ruotò intorno con quella memorabile lezione di temperanza e di sapienza che Archimede aveva impartito a dei matematici orgogliosi e insolenti.

L’epigramma fu registrato, il testo fu ricopiato e passò di mano in mano, senza che nessuno fosse capace di fornire una soluzione. Quei numeri impossibili erano più folli del canto delle Sirene che facevano impazzire. Il testo del problema con la lettera d’indirizzo fu conservato insieme agli altri scritti di Archimede. La trasmissione ai posteri era stata assicurata dalle istituzioni alessandrine. Averlo indirizzato in modo onnicomprensivo ai matematici che operavano ad Alessandria fu una garanzia. Di quel gruppo facevano parte Dositeo e gli altri allievi del povero Conone. Eratostene era stato smentito. Non possedeva la somma scienza, rimaneva l’eterno secondo.

4* Il problema dei buoi del Sole (tale era stata una delle “sette fatiche” di Ercole) ha quasi uno sfondo astronomico. I 4 colori del bestiame sembrano richiamare quelli delle eclissi di sole e di luna. Archimede imponeva 7 ripartizioni o ventilazioni, una addosso all’altra per le equazioni dei tori (3 equazioni) e poi per quelle delle vacche (4 equazioni, anche relativamente ai tori).

Il meccanismo combinatorio è serrato. Non lascia alcun margine d’incertezza. Le ripartizioni sono perfettamente costruite una addosso sull’altra. Non c’è alcuno spazio logico che sia rimasto vuoto. Per forza di cose l’andamento del primo gradino [prima per i tori e poi per le vacche sui tori] dà luogo a un procedimento esaustivo, compatto e chiuso su se stesso. Se ci fermassimo qui, registreremmo una serie di rapporti reciproci, che per i tori [tre rapporti] sono v = 2226 / 891 di y, x = 1602 / 891 di y, z = 1580 / 891 y [avendo indicato con v, x, y, z i numeri di tori che entrano nelle 4 mandrie di colore]. Il denominatore comune 891 unifica i rapporti relativi. Quest’anello si ripete per le vacche, il cui schema esaustivo è stato concepito ad arte. I valori devono essere interi e y sarà un multiplo di 891. Avremo la condizione per riportare le incognite delle vacche [4 rapporti] ai seguenti valori frazionari, o rapporti reciproci unificati: 7206360 / 4657 = m; *4893246 / 4657 = m; *5439213 / 4567 = m ; * 3515820 / 4567 = m.

Le equazioni per i tori sono 3, mentre sono 4 per le vacche sui tori. Si può notare che la compattezza esiste anche nell’ambito di queste cifre. I numeratori per i tori sono a 4 cifre, e il denominatore comune 891 è a 3 cifre. I numeratori per le vacche cono a 7 cifre, mentre il denominatore comune 4657 è a 4 cifre. *4657 è un numero primo che è stato generato dai rapporti reciproci o ventilazioni frazionarie una addosso all’altra. Archimede ha costruito e calcolato tali rapporti e qui si è arrestato. Il denominatore comune 4657 è la riprova che l’anello logico era perfettamente compatto, senza alcun vuoto logico. Per dilatare e ingigantire il problema occorreva introdurre una condizione successiva. I rapporti frazionari sono indeterminati in y che è stato poi riportato a m per la ripartizione stretta delle vacche di colore sui tori [secondo anello costruito sul primo]. Ciò compone il primo gradino del problema.

Al primo gradino ne seguiva un secondo che chiudendo il sistema lo riportava a una equazione finale mostruosa. Le 8 incognite (4 per i tori e 4 per le vacche) sono state definite all’interno di 9 condizioni. Lo stesso Archimede, che aveva genialmente costruito il suo trucco a tavolino e che non conosceva le immani soluzioni mentre però sapeva che non potevano non esistere, aveva sottostimato la grandezza smisurata delle soluzioni dell’equazione di Pell o analisi indeterminata di secondo grado che aveva costruito in astratto: x alquadrato – Dy al quadrato = 1 [il coefficiente D di questa equazione di Pell deriva dalle soluzioni numeriche del primo gradino, una volta ridotta ai minimi termini fattoriali: 3 per 11 per 29 per 4657, ovviamente tutti numeri primi). A questo punto, poiché 8 numeri triangolari pitagorici fanno un numero quadrato più l’unità, avremo che x al quadrato – 4.456.749 y alquadrato = 1 [*4.456.749 = D = 3 per 11 per 29 per 4657]. Se l’analoga equazione di Brahamagupta con un coefficiente D = 92 avrebbe impegnato un matematico per un anno, con un coefficiente D = 4.456.749 quanti millenni sarebbero occorsi? L’equazione indeterminata di Archimede richiedeva di scoprire una soluzione per y che fosse un multiplo di 4657. La minima di tali soluzioni corrisponde a un numero di buoi del Sole (il gregge dei tori di riferimento per il colore base delle ventilazioni) corrisponde a un numero espresso da 7766, seguito da 206541 zeri. Archimede non aveva calcolato questo valore. Il numero degli animali sacri al Sole Iperione avrebbe riempito l’Universo e non solo le belle pianure della Trinacria (indicazione testuale).

Tutto lascia credere che: 1) il problema perfettamente sia genuino nella sua formulazione epigrammatica; 2) che sia stato concepito a tavolino da Archimede per impartire una lezione morale a Eratostene e ai presuntuosi matematici alessandrini del suo gruppo.

5* Dell’esistenza del problema bovino danno conto uno scolio al Carmide di Platone, attribuibile a Gemino di Rodi che fu allievo di Posidonio e due passi di Cicerone. Cicerone lo definisce un esempio di problema insolubile. Lo scolio al Carmide lo chiama “problema logistico” riconoscendone la paternità di Archimede e ponendolo all’estremo opposto dei problemi meliti e fialiti che si davano ai bambini come esempi scolastici per le frazioni a proposito di mele e di greggi come appunto ricorda Platone in un altro dialogo.

All’inizio del Carmide, dialogo inconcluso sulla temperanza, cioè la virtù della moderazione, che si vuole immaginare avvenuto nel 432, poco dopo la battaglia di Potidea, Socrate che vi aveva preso parte entra nella palestra di Taurea, che era posta di fronte all’antico tempio di Basile, dove subito gli vengono chieste notizie su quello scontro militare. Compare anche il giovane Carmide, che accusa un forte mal di testa. Socrate finge di possedere un rimedio. Poi comincia a parlare della virtù della temperanza. Verso la conclusione del dialogo compare un gioco, il tavoliere (simile al filetto, o alla dama, o agli scacchi: cfr. Leggi, V 739 A). Qui si accenna – incidentalmente e di sorvolo – alla tecnica del calcolo.

Lo scolio anonimo al Carmide attribuibile a Gemino indica implicitamente che il problema dei buoi era considerato irrisolvibile, sebbene se ne comprendesse la struttura frazionaria del primo gradino e la raffigurazione pitagorica del secondo gradino. Infine, se il terribile problema – che dà appunto il mal di testa – è stato concepito letterariamente sotto forma di epigramma, la cosa si spiega da sola nella nostra prospettiva. Archimede volle ricordare al platonico Eratostene la virtù della temperanza.

Autori famosi di epigrammi erano a quell’epoca Leonida di Taranto, Teocrito di Siracusa, e sopratutto Callimaco di Cirene. Il genere epigrammatico era sorto, in origine, come concisa composizione di tipo dedicatorio o funerario, ma sia era poi evoluto, fino ad acquisire persino il sapore di un bando sfida o di una frecciata ironica. Non c’è dunque nulla di strano nel fatto che per i suoi scopi Archimede vi avesse fatto ricorso.

La forma letteraria dell’epigramma è genuina, originariamente il problema si presentava nella stessa veste in cui ci è pervenuto, non importa se attraverso la tarda raccolta dell’Antologia greca attribuita a Metrodoro e se magari in un greco che non era più quello dorico. Il testo è rimasto intatto, nessun copista ne sconvolse casualmente i rapporti frazionari che abbiamo difatti dimostrato corrispondere a uno schema logico compatto ed esaustivo, ripartito in due fasi reciproche, secondo un chiaro disegno intenzionale.

I 44 versi dell’epigramma corrispondono a una struttura definita, divisa in 4 parti. Col verso 28 inizia il secondo gradino che complica enormemente le soluzioni che pertanto sono impossibili a calcolarsi [i matematici moderni devono fare impiego di un computer debitamente programmato].

Il problema, che nessuno a quell’epoca avrebbe potuto umanamente risolvere sebbene si potessero comprendere le ripartizioni del primo gradino, si rifà a direttamente a Pitagora e oltre al Carmide e al numero 5040 delle Leggi, chiama in causa anche il “mito di Er”, col quale termina la Repubblica di Platone a proposito dell’immortalità dell’anima e della felicità che spetta ai giusti e ai virtuosi.

L’epigramma implica una lezione morale. La vera sapienza o conoscenza non sta nel trovare numeri immani, bensì consiste nella temperanza ovvero nella moderazione anche in considerazione dell’immensità dell’Universo e dei misteri del Demiurgo. Ogni abilità non può non trovare la sua tappa finale nella virtù. La vera saggezza sta nel motto socratico del “sapere di nonsapere”e nel “conoscere se stessi”. L’onestà scientifica esige modestia e misura.

6* Eratostene, che per i suoi molteplici interessi era chiamato Pentalo (ma egli rimaneva sempre il Signor Beta), aveva composto il Platonico, un’opera che si occupava di questioni musicali e matematiche, nonché un Ermes, ove veniva trattata l’armonia dei moti planetari. Ecco che la nostra ipotesi comincia a essere ancor più interessante. Tra l’altro, le opere di Platone contengono alcuni numeri abbastanza misteriosi, che attengono ad allegorie piegate al loro scopo politico e filosofico. Archimede volle sfidare Eratostene sul suo stesso terreno filologico e questo spiega le cifre letterarie inglobate nel testo epigrammatico attraverso una catena progressiva di allusioni.

Platone, nella Repubblica (VIII, 546B-C), fa rifermento a un misterioso numero nuziale, valido per la generazione, ma rimasto oscuro, mentre nelle Leggi (V,737- 38E) stabilisce il numero ideale dei proprietari e dei lotti di terra assegnati, cioè il numero 5040. Tale numero corrisponde a 7! [un prodotto fattoriale inerente alla moltiplicazione tra loro dei primi 7 numeri, ma anche al prodotto di 7 per 8 per 9 e per 10, con evidente richiamo della decade pitagorica].

Se togliamo 2 a 5040 abbiamo 5038 che è divisibile per 11 [11 è il numero primo che fa parte della struttura formale del numero di versi del problema bovino, mentre Eratostene è il Signor numero 2, il secondo in tutto]. Il numero 5040 ha 59 divisori ed è il doppio del numero 2520 che corrisponde, in unità di centinaia di stadi, al valore trovato da Eratostene per la conferenza terrestre. La Repubblica (X, 617B-C) termina col mito di Er per indicare che il potere della filosofia va oltre la morte. E’ questa la vera saggezza in quanto consiste in una sapienza cosmica che si spinge oltre il tempo.

La poesia per Platone è antagonista della filosofia, della ragione e della legge. Il radicalismo di Platone si spinge a censurare tutto ciò che distoglie il pensiero dalla sua meta della conoscenza. La felicità del virtuoso si colloca nella dimensione dell’eterno.

I libri IX-XII dell’Odissea erano chiamati “discorso di Alcinoo” per via della discesa di Ulisse nell’Ade. Il mito finale nella Repubblica è invece il racconto che fa dell’aldilà Er, figlio di Armenio di Panfilia, creduto morto in battaglia, ma risvegliatosi dopo 10 giorni da una morte apparente. Er narra ciò che ha visto in cielo. Ha potuto assistere al dipartirsi delle anime appena giudicate da due delle voragini del cielo e della terra. Ogni colpevole doveva subire una decupla delle proprie colpe. Er vede i colpevoli che tentano di risalire dalla voragine, ma ne sono impediti. La bocca della voragine muggisce e costoro vengono ricacciati indietro. Invece, per i giusti, la bocca della voragine tace, così che dopo la permanenza per 7 giorni in un prato, l’ottavo giorno ciascuna anima poteva doveva mettersi in cammino per 4 giorni onde raggiungere una località da cui si poteva vedere una colonna di luce simile all’arcobaleno.

La luce è la forza che tiene unita la volta celeste. Fra le estremità di questo arcobaleno era teso il fuso di Ananke – la Necessità – col suo fusaiolo.

Il fusaiolo era fatto ad incastri, e i fusaioli che si inserivano l’uno dentro l’altro, erano in tutto 8. Il primo fusaiolo contando dell’esterno aveva l’orlo del cerchio più largo di tutti; l’orlo del sesto veniva per secondo in ordine di grandezza; quello per quarto per terzo, quarto quello dell’ottavo. Per quinto veniva l’orlo del settimo, per sesto quello del quinto, settimo era il bordo del terzo e ottavo quello del secondo. Inoltre, il cerchio del fusaiolo più grande era di svariati colori, quello del settimo eradi gran lunga il più splendente. Questo stesso cerchio illuminava l’ottavo e gli conferiva il suo colore, il secondo e il quinto avevano tinte analoghe ed erano più gialli degli altri; il terzo aveva un colore bianco candido,il quarto dava sul rosso, il sesto era bianco, ma, quanto a candore, occupava il sesto posto. Il fuso nel suo insieme girava su se stesso animato da un moto uniforme, in questo moto complessivo i sette cerchi interni, lentamente ruotavano in senso opposto al tutto. Di essi il più celere era l’ottavo; al secondo posto si ponevano il settimo , il sesto e il quinto cerchio, animati tutti dallo stesso moto; al terzo posto, a quanto le anime potevano giudicare, si collocava il moto di rivoluzione del quarto. Seguivano poi i moti del terzo e dl secondo, rispettivamente al quarto e al quinto posto per velocità. Il fuso girava sulle ginocchia della Necessità.

In alto, su ognuno dei suoi cerchi, si muoveva una Sirena, anch’essa trascinata dal moto circolare. Ciascuna emetteva una sola voce, di un solo tono, cosicché da tutte otto quant’erano risultava un’unica armonia.

Dunque 8 sfere celesti ruotano tramite un fuso, tenuto sulle ginocchia da Ananke (la Necessità), aiutata dalle 3 Parche. 8 Sirene, in corrispondenza delle 8 sfere celesti e del loro movimento, producono 8 diverse note musicali. Platone si è ispirato ai testi pitagorici della scuola italica, come fa anche nel Timeo.

Alla struttura a incastro dei “fusaioli” sembra corrispondere la struttura del problema bovino. Ci torneremo sopra.

Le anime che sono sfuggite alla voragine del male si presentano a Lachesi, figlia di Ananke. Le anime si reincarnano a sorte. Il primo estratto sceglierà per primo la vita alla quale sarà tenuto di necessità.Fra i possibili modelli di vita si trovavano anche vite di uomini famosi, vuoi per l’aspetto, la bellezza, la prestanza fisica in ogni campo e in particolare quello agonistico, vuoi per la nobiltà d’origine e per le virtù degli antenati.

In questo continuo ciclo, dal quale sono però esclusi coloro che la bocca della voragine ha trattenuto con i suoi muggiti, occorre saper scegliere una vita ordinata e intermedia, senza eccessi in un senso o nell’altro. Anche colui che la sorte porrà a scegliere per ultimo.

L’esperienza delle vite precedenti finirà per determinare la scelta dei nuovi modelli di vita. Ed ecco che compare anche Ulisse: L’anima di Odisseo, a cui la sorte aveva riservato proprio l’ultimo posto di tutti, si avviò alla scelta lasciando da parte ogni desiderio di gloria, memore delle sofferenze della vita precedente; si aggirò pertanto a lungo, alla ricerca della vita di un uomo qualunque senza preoccupazioni, e la trovò a fatica, relegata in un angolo, trascurata dagli altri… (X, 620 C – “Platone, tutti gli scritti”, a cura di Giovanni Reale, Bompiani, 2000).

Er, che è stato vittima di morte apparente, da cui si è risvegliato, è in grado di raccontare l’aldilà. Ha narrato di come le anime dal cielo scendano in terra e come vi possano risalire. Ciò avviene in un ciclo di reincarnazioni, come nelle dottrine pitagoriche, ma gli empi e gli scellerati devono comunque pagare il fio delle loro colpe.

Ulisse, cui è toccato dalla sorte di scegliere dopo tutti gli altri (dunque poco rimane), ma che è assai furbo, sceglie per sé la condizione dell’uomo appartato, che non soffre di preoccupazioni di sorta. Insomma: ama nesciri.

Ma siccome l’anima è immortale, se sarà virtuosa, godrà sempre di un’eterna felicità. Dopo che ogni anima ebbe scelto la propria vita, si presentava a Lachesi nello stesso ordine in cui era stata sorteggiata, e questa le dava il dèmone che si era eletto, come compagno e custode della sua vita e altresì come garante della piena realizzazione delle scelte fatte.

Sotto un gran caldo, le anime giungevano a fiume dell’oblio, il Lete, e bevendo acqua per la grande sete, cominciavano a dimenticare tutto quanto. A Er fu impedito di bere, e per questo ha potuto ricordare quanto aveva visto.

Così si conclude il mito di Er, sigillando la Repubblica: Ecco, caro Glaucone, in quale modo si è salvato questo mito e non è andato perduto. Ed esso, invero, può a sua volta salvare noi, se gli presteremo fede; così potremo attraversare il fiume Lete indenni e non contaminare l’anima. Se dunque daremo retta a quanto ho detto, convincendoci che l’anima è immortale ed è potenzialmente capace di assumere su di sé ogni genere di bene e di male, terremo sempre la via che sale verso l’alto, comportandoci in ogni circostanza secondo giustizia unita a saggezza. Così potremo essere in pace con noi stessi e con gli dèi, sia nel nostro soggiorno su questa terra, sia in seguito, quando avremo riscosso i premi della giustizia come fanno i vincitori allorchè raccolgono i trofei neitrionfo.Ci toccherà, insomma, felicità quaggiù sulla terra e nel viaggio millenario che abbiamo illustrato.

Il problema bovino si concludeva così: Quando avrai trovato le soluzioni, o straniero, va’ e rallegrati della vittoria, e sappi che sei stato giudicato al sommo grado della saggezza(sophie).

7* Cicerone riprenderà alcuni spunti del mito di Er nel Sogno di Scipione inserito nella sua Repubblica riapparsa per frammenti in un fondo della Biblioteca Vaticana scoperto da Angelo Mai.

In questo excerptum della Repubblica di Cicerone viene spiegato a Scipione, dal personaggio che gli compare in sogno e che gli predice il futuro, il suono arcano dell’armonia delle sfere, che l’orecchio umano non è in grado di avvertire. Questo suono melodioso, il suono in assoluto, è il canto di 8 sirene, le 8 incognite del problema bovino di Archimede modulato sulla falsariga del mito platonico di Er. Ed è questa la struttura letteraria – evocativa e allegorica – dell’epigramma di sfida dei buoi del Sole nell’isola a tre punte di Sicilia, la patria del grande Siracusano, il grande maestro platonico-pitagorico della geometria.

Nessuno può udire il suono meraviglioso delle 8 sfere celesti che ruotano incessantemente; eppure questa somma melodia esiste. Ne è testimone Ulisse, fattosi legare all’albero della nave. Ugualmente, nessuno può trovare i numeri immensi dei “buoi del Sole” che pascolavano un tempo nell’isola di Sicilia.

I compagni di Ulisse, che malgrado l’avvertimento a non farlo, si nutrirono di quelle carni sacre, non rientrarono in patria, perendo alcuni divorati da Scilla e altri risucchiati da Cariddi. Ma le soluzioni del problema bovino esistono veramente e sono peraltro ciclicamente infinite nel mistero del numero che abita l’Universo.

I tori e le vacche intoccabili del Sole Iperione sono dello stesso colore delle eclissi di sole e di luna. L’autore dell’Arenario ha dato sfogo al suo ingegno portentoso. Il numero 2520, correlabile ai 252 mila stadi di Eratostene, è la metà del numero 5040 di Platone, da cui Archimede ha tratto ispirazione per le ripartizioni frazionarie dei tori e delle vacche, dopo aver tratto spunto dell’Odissea.

Il numero 5040 di Platone, correlabile alla stima della circonferenza terrestre, contiene la matrice ideativa sulla quale lavorò la mente di Archimede. Tale numero, che Platone aveva ripreso dai pitagorici, coinvolge i denominatori delle frazioni, disposte in serie nel primo gradino, secondo impostazione apparentemente elementare. Archimede vi ha costruito sopra un doppio anello logico, di tipo ‘rotatorio’, perfettamente chiuso in se stesso, analogo ai fusaioli del mito di Er. Di conseguenza il numero totale dei capi di bestiame è anch’esso analogicamente correlabile e rappresentabile con riferimento al numero 7. Sono 7 le condizioni frazionarie: 3 per i tori, e 4 per le vacche ( 3 + 4 = 7). Così che il numero 7 è determinato soltanto dalla somma di 3 e 4, e ciò vale indifferentemente, in base al sesso di partenza. Se si fosse partiti dalle vacche di Apollonio, anziché dai tori di Omero, nulla sarebbe cambiato.

I sessi sono 2, come le 2 guardiane delle greggi omeriche, le 2 dee con le chiome dai bei riccioli.

Nel secondo gradino del problema è asserito anticipatamente che la somma dei tori bianchi e neri è un numero equilatero, cioè un quadrato, mentre la somma dei tori di colore marrone e di quelli pezzati è un numero triangolare pitagorico (cioè, ha la forma di un triangolo).

Come faceva Archimede a esserne così sicuro, se le soluzioni primitive del sistema lineare a 8 incognite del primo gradino, non forniscono alcun numero quadrato o triangolare per i tori presi in considerazione dal secondo gradino? La condizione aggiuntiva del secondo gradino deve essere verificata con il calcolo, ma il computo è talmente smisurato, da essere impossibile eseguirlo con carta e penna e col sistema di conto utilizzato a quell’epoca.

Ecco perciò l’enigma singolare di una specie di serpente che si morde la coda.

Archimede, che sta convogliando il problema dal primo gradino verso un’equazione di analisi indeterminata di Pell per il secondo grado, conosceva certamente la struttura, ma non aveva eseguito alcun calcolo. Calcoli, infatti, potuti fare soltanto dal 1889, da tre ingegneri che vi si dedicarono per anni. Gauss aveva rinunziato altrimenti avrebbe smesso di produrre.

Archimede sapeva in anticipo che la condizione imposta dal secondo gradino non solo era coerente rispetto al primo gradino, ma portava a un’equazione indeterminata di secondo grado, ragguagliabile all’unità. Sapeva anche che il coefficiente D di questa equazione di secondo grado era grande. Il numero primo 4657 (denominatore comune del secondo anello del primo gradino) era stato generato dai rapporti relativi di ripartizione per le mandrie delle vacche di ‘colore’, rispetto ai tori, senza lasciare alcun vuoto logico. Il ‘sistema’ derivava da se stesso.

Quando avrai determinato esattamente quanti erano i buoi del Sole avrai distinto quanti erano i tori, e avrai trovato quanti erano di ciascun colore non ti si chiamerà ignorante o inabile ai numeri, però non ti annovererà ancora tra i saggi.

Subentra la doppia condizione del secondo gradino. I tori bianchi mescolati ai neri formano un numero quadrato, i tori bruni con gli screziati formano un numero triangolare. Il dato di partenza era stato assunto sui tori neri. L’anello logico era stato costruito su questa incognita, prima per i tori, e poi per le vacche. Gli andamenti frazionari seguivano uno sviluppo ad hoc, ripartendo da 1/3 + 1/4 per le vacche. L’escamotage non lasciava alcun vuoto, con la certezza di rimanere perfettamente contenuto: nulla i più e nulla di meno; ma tutto il necessario. Per questa ragione Archimede poteva anticipare a priori la legittimità della doppia condizione pitagorica, equilatera e triangolare, con un processo mentale creativo, di tipo artistico, ove l’immaginazione e il ragionamento si fondono insieme, nascondendo e allo stesso tempo realizzandosi al momento stesso in l’idea sorgeva.

Nel primo gradino Archimede ha fornito le ripartizioni reciproche, prima per i tori di colore, e poi per le vacche di colore, ma sempre con riguardo ai tori di uno stesso colore, utilizzando un metodo combinatorio che non lasciava vuoti.

Nel secondo gradino poneva insieme le due condizioni pitagoriche, che devono verificarsi per forza, altrimenti il problema non avrebbe senso. In astratto la doppia condizione del secondo gradino è altrettanto valida: ma non è conseguenza del primo gradino, rimanendo a se stante.

La relazione pitagorica che un numero ‘quadrato’ dispari è pari a 8 numeri triangolari più l’unità, rappresentava il ponte tra numeri triangolari e numeri quadrati.21 Il segreto è semplicissimo: due numeri non sono uguali se differiscono per l’unità. La condizione del secondo gradino è artificiale ed era artificiosa. La somma dei tori bianchi più i tori neri era un numero quadrato. Il dato di partenza dei tori neri assicurava che fossero più di tutti gli altri. Le vaste pianure della Trinacria erano allora tutte piene di buoi. Archimede sapeva che il loro numero quadrato colmava l’estensione della Sicilia, contraddicendo l’ipotesi di partenza delle 8 mandrie, vacche e tori di colore. Non stava ingannando nessuno, pur ‘bluffando’.22 Non aveva mai calcolato il numero: aveva soltanto costruito a tavolino un problema che ammetteva soluzione certe a priori, però di fatto incomputabili. La doppia condizione pitagorica del secondo gradino era un trucco bellissimo, che dava finalmente senso pieno a un problema ideato unitariamente con un abilissimo trucco.23

LO SCOPO PERSEGUITO DA ARCHIMEDE

1* A quell’epoca il problema bovino era materialmente incalcolabile. Abbiamo spiegato come fece Archimede a ideare a tavolino il suo terribile problema, al quale conferì una veste poetica sotto forma di epigramma. Il problema possedeva delle soluzioni enormi, fosse pure che l’ideatore le avesse sotto stimate in grandezza. E’ evidente che scoperto il trucco, emerga pure lo scopo perseguito.

Il primo gradino, che potrebbe indifferentemente partire dalle vacche o dai tori, segue rigidamente un ordine di colore. Il suo schema di 3 e poi di 4 relazioni frazionarie è costruito ad anello, o meglio ha uno schema logico a forma di doppia zeta.

Tramite l’impiego delle frazioni egiziane (con numeratore 1) è stato possibile concepire una ripartizione i cui denominatori sono perfettamente correlati all’interno di un doppio circuito. Il modello generico è dato dal numero 5040 di Platone che peraltro allude alla misura standardizzata del risultato di Eratostene per il valore in stadi della circonferenza terrestre (252 mila stadi, in luogo di 250 mila, come riferito dalle fonti).

I denominatori frazionari per i tori seguono lo schema ordinato *1/ 2 + 1/3, *1 /4 + 1/5, *1/6 + 1/7 [in 3 ripartizioni a giro, oltre al numero costante dei tori marroni], mentre le ripartizioni delle vacche [che ripercorrono il circuito, questa volta necessariamente in 4 relazioni, anche con riguardo al numero dei tori del medesimo colore, aggiunti accanto alle vacche prese in riferimento], seguono un andamento frazionario altrettanto serrato [espresso sempre in frazioni egiziane], che procede a partire da * 1/3 + 1/4, fino a *1/4 + 1/5, * 1/5 + 1/ 6, e * 1/6 + 1/7. L’anello logico di completamento del giro ha senso ed è consistente se, e soltanto se, per le vacche si proceda, saltandola, la relazione *1/2 + 1/3. Il primo gradino del problema è sempre collegato al numero 7. Le sue 3 prime relazioni, chiuse su se stesse, formano una “zeta”.

Le altre 4 relazioni per le vacche sui tori completano un percorso logico a doppia “zeta”. Lo schema risultante è quello di una “zeta” girata su se stessa, che mette in luce che il circuito logico è perfettamente chiuso e coerente, cioè che è esaustivo.

Un simile schema è auto-consistente di per se stesso. Il numero 7 lo esprime come somma univoca di 3 + 4. Ecco allora che le 7 mandrie omeriche ne hanno costituito l’idea di partenza, ripercorsa anche nella disposizione frazionaria sulla stessa base del numero 7 che alimenta il numero 5040 di Platone.

L’anello delle ripartizioni di colore, prima per i tori sui tori e poi per le vacche sulle vacche e sui tori di colore, è altrettanto configurato e coerente. Ed è un anello chiuso. Dunque non può non esistere una soluzione minima, in numeri interi, che non è poi difficile da ottenere (il denominatore frazionario, minimo comune multiplo per i tori, è 891, cioè 9 volte 99 oppure 3 volte 297, con 297 ‘fattorizzabile’ in 3 alla terza per 11, mentre il denominatore comune per le ripartizioni delle vacche, considerati i tori, è il numero primo 4657, la cui primalità dipende dalle condizioni stesse delle ripartizioni frazionarie: è possibile che qui vi possa rientrare qualche ‘magia numerica’ connessa ai numeri ciclici; ma la differenza tra 5040 e 4657 è il numero primo 383, che a nostro avviso è la prova ulteriore delle chiusura perfetta di un anello logico, in cui si è fatto singolare utilizzo del numero pitagorico 7.

2* A questo punto, data la struttura logica del primo gradino, messa già in evidenza, si può stabilire una “analogia” fondante tra il numero totale dei capi di bestiame, che chiamiamo N, e lo stesso numero di 7 ripartizioni che lo esprime in un’ altra maniera [in modo strutturale, e non numerico, quando però il valore numerico dipende chiaramente dall’elemento strutturale].

Anche il secondo gradino (quello che trasforma i numeri milionari a 6 o 7 cifre delle soluzioni intere primitive del primo gradino, in numeri impossibili a 200 mila cifre), ha la medesima struttura del numero 7, riferito al numero dei tori in due distinti raggruppamenti, seguendo strettamente l’ordine di colore, vale a dire la medesima sequenza.

L’invertibilità perfetta delle ripartizioni del bestiame secondo i sessi (3 e 4 o viceversa 4 e 3), comporta che se il numero totale dei capi di bestiame, chiamato N nel primo gradino, è ‘analogo’ al numero 7. Tale ‘analogia’ è destinata a ripetersi nel secondo gradino per i tori raggruppati nella sequenza ordinata di colore (tori il cui ammontare complessivo era stato espresso da 3 ripartizioni o primo anello logico). L’invertibilità dei sessi, e perciò della struttura logica ad anello chiuso delle ripartizioni complessive, è adesso la garanzia che seguendo l’ordine dei colori, in due distinti ma susseguenti raggruppamenti di tori, al primo gruppo di tori va assegnato il numero 4 [relativo alle ripartizioni delle vacche], mentre al secondo raggruppamento di tori va assegnato il numero 3 [relativo alle ripartizioni dei tori].

Ecco perché il numero 7 funziona anche per il secondo gradino. Testualmente l’epigramma afferma che i tori bianchi più i tori neri formano una figura equilatera, mentre i tori marroni più quelli pezzati formano una figura triangolare.

Il quadrato o numero quadrato è rappresentato dal numero 4 (cioè 4 puntini), mentre il triangolo (o numero triangolare) è rappresentato dal numero 3 (cioè da 3 puntini). A tale condizione, imposta dal secondo gradino, corrisponde l’equazione indeterminata di Pell di secondo grado, uguagliata all’unità, la cui 8 soluzioni primitive intere [determinabili al computer secondo certe procedure] formano numeri immani di 200 mila cifre, che Archimede non aveva minimamente calcolato e che anzi aveva testualmente sottostimato in quanto un tale numero di capi di bestiame avrebbe riempito l’Universo e non le belle pianure della Trinacria, l’isola di Sicilia “a tre punte”.

Il numero totale N dei capi di bestiame deriva dalle 7 ripartizioni del primo gradino, che come detto, danno luogo a un circuito logico perfettamente chiuso in se stesso. La duplice condizione aggravante posta dal secondo gradino, poiché le soluzioni milionarie per i tori derivanti dal primo gradino non la soddisfano immediatamente, comporterebbe un azzardo se non fosse stato che produceva ex se un’equazione indeterminata di Pell di secondo grado che può essere ragguagliata all’unità, ma che difficilissima da risolvere.

Abbiamo già visto sopra che le condizioni coerenti e possibili del secondo gradino sono state artificialmente e artificiosamente imposte dall’esterno.

Dovendo accogliere l’ipotesi che Archimede determinò a tavolino lo schema bipartito del terribile problema partendo da un passo dell’Odissea, l’aspetto risolutivo passa in secondo piano. Dovevamo rintracciare un percorso che giustifichi la struttura del problema che sembrava voler alludere a una cifra letteraria e morale. Questa via non può esser altro che quella della logica astratta, che adesso rivela la struttura ideativa e generativa del problema.

3* Le 3 ripartizioni per i tori nel primo gradino sono correlabili a 3! – cioè al prodotto di fattoriale 1*2*3. Le permutazioni sono 6 in tutto. Dividendo per l’accoppiamento dei colori prevista da ogni singola ripartizione (i colori che si alternano in sequenza sono sempre 2), otteniamo la consistenza necessaria per chiudere l’anello logico: bastano 3 ripartizioni.

La stessa cosa avviene per le ripartizioni delle vacche, nelle quali i colori che si alternano sono sempre 2. Le permutazioni sono 4!, cioè 24, costruite però su quelle di tori, che sono 3! Dividendo 24 per 6, ritroviamo la consistenza necessaria per chiudere anche il secondo anello: bastano 4 ripartizioni.

Possiamo dire, in conclusione, che 7 ripartizioni, costruite in quella maniera, corrispondono analogicamente al numero N complessivo di tutto il bestiame (come abbiamo già affacciato).

Se correliamo lo schema a “zeta” delle 3 ripartizioni dei tori con la seconda “zeta” (con la stanghetta diagonale ripetuta sia a destra che a sinistra: una perfetta chiusura del percorso o anello logico), per le ripartizioni delle vacche sui tori dello stesso colore, possiamo visualizzare la reciproca saldatura di tutte le ripartizioni. Possiamo perciò giustificare la corrispondenza analogica N = 7.

Poiché il numero 7 è scomponibile all’intermo di questo schema logico in due soli fattori di somma: 3 e 4, data l’invertibilità dello schema stesso in base alla non rilevanza dei sessi di partenza, ma non in base alla rilevanza diretta della sequenza prescelta dei colori [ove per i tori il gregge fulvo o marrone funge da riferimento generale], l’analogia N = 7 [che vale per tutto il bestiame complessivo], diventa riferibile ai soli tori, sempre che si segua l’ordine di colore [bianco, nero, marrone, pezzato].

Con la conseguenza che dall’inversione dei fattori di somma di 7 = N [indifferentemente 3 e 4 oppure 4 e 3 ], l’ordine iniziale a questo punto si inverte, divenendo 4 per tori bianchi più i neri e 3 per i tori marroni più i pezzati.

Le 3 equazioni per i tori diventano 4 se iniziamo l’anello frazionario dalle vacche con 3 equazioni. Tale invertibilità consente di trattare le somme di coppie ordinate in colore per i tori in modo del tutto analogo alle somme ordinate in colore per somma di coppie di vacche.

Invertendo l’analogia (soltanto di “analogia” qui si tratta), lo schema astratto non subisce alcuna alterazione. Ciò che conta è il rispetto dell’ordine di colore nelle due somme. Di conseguenza si può affermare che nel secondo gradino, N = 7. Se nel primo gradino l’ordine dei fattori che portavano a N = 7 è 3 + 4, nel secondo gradino, ove campeggia ugualmente il numero 7, l’ordine è 4 + 3 = N. Si può affermare, senza effettuare calcoli, a prescindere dalla forma dell’equazione di Pell finale, che la somma dei tori bianchi aggiunti ai neri è una figura quadrata, mentre la somma dei tori marroni aggiunti a quelli pezzati è una figura triangolare.

Se il problema fosse partito dalle vacche, sarebbe stata la stessa cosa, ma avremmo dovuto fare riferimento nel secondo gradino alle vacche. Ecco spiegato perché nel secondo gradino si parla di tori, invertendo l’ordine di 3 e 4 delle ripartizioni delle mandrie del primo gradino, ma non l’ordine strettamente necessario dei colori, data la partenza dal bianco.

4* Archimede potrebbe in generale aver fatto uso dei “numeri catalani”, così detti dal nome del matematico E. C. Catalan (1814-1894). Sono, infatti, numeri catalani il numero 14 e il numero 42, che abbiamo già impiegato per mettere in evidenza l’intuizione geometrica di Archimede.

Sono chiamati catalani geometrici i tagli successivi, cioè non ripetuti, di un poligono regolare, che viene sezionato in spicchi. Il catalano del triangolo equilatero è il numero 1. Il numero 2 è il catalano del quadrato. Il numero catalano del pentagono è 5, mentre 14 è il catalano dell’esagono, e 42 è il catalano dell’ettagono. Tali numeri soddisfano al problema di quanti modi un poligono regolare di n lati può essere suddiviso in n-2 triangoli, contando separatamente i triangoli orientati in modo differente.

A prescindere dai numeri catalani, che non contemplano il numero 7, è però evidente che il numero 7 di derivazione omerica e platonico-pitagorica riflette nel problema bovino le 7 equazioni del primo gradino: 3 per i tori e 4 per le vacche. Basta, come abbiamo posto in evidenza, per esaurire l’anello logico delle ripartizioni frazionarie disposte una sull’altra, evitando vuoti. Ispirandosi al numero 5040 delle Leggi Archimede ha operato nella stessa maniera. Utilizzando sempre il numero 7 – che in Omero ha una valenza cosmica – è stato ideato anche il secondo gradino che è il perfezionamento logico della struttura del primo..

Ci serviamo ora di un’altra analogia [termine già impiegato da Archimede nei suoi trattati], che chiarirà meglio come Archimede poteva essere certo a priori che l’architettura del suo problema era assolutamente corretta e che perciò esistevano senz’altro le 8 soluzioni richieste.

L’analogia è questa: il quadrato ha 4 lati e il triangolo ne ha 3. Siamo all’identico numero 7. Il numero n dei lati (3 e 4) corrisponde ai numeri catalani 1 e 2, rispettivamente propri del triangolo e del quadrato del secondo gradino.

La sottrazione catalana del ‘quadrato’ col ‘triangolo’ è uguale a 1. E’ la stessa cosa se si sottraggono alle 4 ripartizioni delle vacche le 3 ripartizioni per i tori.

In ambedue i gradini del problema è contenuta una relazione: 4 – 3 = 1.

Questa relazione è analoga all’equazione indeterminata di Pell di secondo grado cui si giunge risolvendo il primo gradino.

Sembra ridicolo, ma è così: < 2 al quadrato meno 3 per 1 al quadrato è uguale a 1 >. Il coefficiente D = 3 è necessariamente dispari, come appunto si richiede per la possibilità di poter risolvere con numeri interi equazioni indeterminate di questo tipo.24

Archimede che non poteva aver calcolato le soluzioni aveva inventato quel terribile problema che nessuno avrebbe saputo calcolare alla sua epoca e per tanti secoli a venire, se anche Gauss desistette. Dunque, a che scopo?

E’ inutile appellarsi all’argomento che il problema sarebbe stato taroccato dal caso o che il testo non è e non può essere archimedeo, oppure che in origine il problema era ristretto al primo gradino, ecc.

La verità è questa: il problema è di Archimede; esso costituisce un esemplare unico; fu originariamente proposto in forma epigrammatica; il problema doveva avere uno scopo che trascendeva l’occasione, che anzi ne utilizzava l’impossibilità materiale a risolverlo.

Fu indirizzato a Eratostene e ai matematici alessandrini: Il problema divenne famoso e fu conservato nelle antologie come esemplare sommo se per caso qualcuno avesse voluto provare a risolverlo.

E’ assolutamente certo che nessuno prima del 1889 ci abbia provato fino in fondo. Era un’inutile mostruosità: uno scherzo o una raffinata vendetta. Lo rivelava la sua ispirazione nascosta, che avrà senz’altro bruciato sulla pelle dei suoi primi destinatari. Inviato collettivamente ai matematici di Alessandria, serviva a denunziare Eratostene per qualche grave fatto che possiamo ricavare presuntivamente, desumendolo dal contesto in cui si inseriscono le allusioni che suggerisce attraverso un riferimento all’Odissea e alle Argonautiche di Apollonio Rodio. Il problema bovino è temporalmente posteriore all’Arenario e al Metodo, in ogni caso è successivo alla morte di Conone.

L’ambito temporale in cui sembra riferirsi è immediatamente successivo alla misurazione della circonferenza della Terra da parte di Eratostene.

La nostra ricostruzione è attendibile ed è ben argomentata. Non ci siamo inventati nulla. Anzi, potrebbero esserci sfuggite altre circostanze salienti.

Archimede aveva finto – appunto come fa Socrate nel Carmide - di possedere un suo rimedio al forte mal di testa accusato da quel giovane. Il dialogo si era svolto nella palestra di Taurea, senza giungere a conclusione circa la virtù della temperanza. E’ tutto rimandato:

- Quale scienza può rendere felice? Forse il giocodel tavoliere? Conosce,il tavoliere, la tecnica del calcolo? – Ma no!

*[La temperanza potrebbe dare la felicità, se conoscesse la scienza del bene e del male: questa la conclusione provvisoria del discorso di Socrate, con l’impegno di riprenderlo in futuro].

CONCLUSIONI LETTERARIE

1* Era la terribile e raffinata “vendetta di Archimede”, ormai su con gli anni: per se stesso e per conto dell’amico Conone, scomparso da tempo. Ne è prova la stessa Chioma di Berenice, l’aition di Callimaco nel quale si menziona Conone come astronomo. Alcuni sottili riferimenti, impliciti all’epigramma bovino, sembrano dirigersi anche a Callimaco, sebbene potesse già essere morto (Callimaco era nato nel 305), contestualizzati con riguardo a Eratostene. Eratostene era un dotto polivalente, piuttosto che un matematico e un astronomo. Ed era un ottimo geografo. Polibio, lo storico delle guerre puniche, sosteneva la competenza geografica di Omero e l’ancoraggio mediterraneo delle navigazioni di Ulisse, mentre Eratostene le aveva relegate sull’Oceano e nella pura finzione letteraria. L’anziano Callimaco, e l’emergente figura di Eratostene, avevano rappresentato la nouvelle vague del rinnovato regime dell’Evergete che portò al disastro di Tolomeo IV salito al trono nel 221. Se Eratostene si vantava, quasi come un dio, d’aver misurato le dimensioni della Terra [e la sua fama era corsa ovunque]. Da Siracusa Archimede lo richiamò a terra, all’umiltà necessaria di fronte all’immensità del Cosmo, e alla virtù della temperanza rispetto alla potenza immane del numero che esaltava l’immensa dei cieli.

Archimede, primo nell’intelletto, intelletto divino: ma humilis homunculus, nudum opus. Proprio con quella stessa umiltà con cui agì Ulisse, secondo il mito di Er, nello scegliere per sé, estratto a sorte per ultimo, un’esistenza quieta e moderata: onde evitare che l’inesperienza dei mali esponga al rischio di una cattiva scelta della vita, occorre lasciare da parte ogni desiderio di gloria.

Nella pianura delLete, sfilando nella grande calura sotto il trono della Necessità, le anime bevono l’acqua dell’oblio. Dobbiamo tenere la via che sale verso l’alto, comportandoci sempre secondo giustizia, unita a saggezza. Allora, e soltanto allora, raccoglieremo il premio dei vincitori, in pace con gli altri e con noi stessi.

Il problema dei buoi del Sole Iperione insegnava la modestia e l’accortezza. Le stesse virtù della temperanza.

2* Gotthold Ephraim Lessing aveva rintracciato il testo in versi del problema dei buoi del Sole Inella Biblioteca di Wolbuettel, in Germania, ma sembra che tra i manoscritti greci della Biblioteca Reale di Parigi (cfr.P. Midolo, op. cit., pag. 148), fosse conservato un identico testo, col titolo Archimedis suppositia ad Eratosthenem epistola sive problemata Alexadirnis versibus scriptum de bobis solis sacris. La lettera di accompagnamento del testo epigrammatico non è stata conservata.

Il trattato sulla sfera e sul cilindro era stato inviato a Dositeo quando Conone era già morto. Archimede avrebbe preferito pubblicare le sue scoperte quando Conone era ancora vivo, perché egli era capacissimo di prenderne conoscenza e darne esatto giudizio.

A proposito della spirale, Archimede si dichiara certo che Conone avrebbe saputo comprenderne gli enunciati. Ognunoconosce – così dice Archimede – quanto in lui fosse eminente la dottrina e la sagacia nelle matematiche. Trascorsi molti anni dalla morte di Conone, nessuno che io conosca, prese a risolvere alcuno di quei problemi, quindi mi sono deciso ad esporli in questo libro.

Archimedeinviò invece a Dositeo il trattato sulla parabola non appena seppe della morte di Conone, così dicendo: l’unico dei miei amici chemi restava ancora. Archimede era rimasto solo. Se inviò a Eratostene il Metodo meccanico fu certamente in conseguenza del fatto che gli aveva già inviato senza alcuna dimostrazione gli enunciati dell’unghia cilindrica e del cilindro a croce. Archimede si fidava abbastanza di Eratostene, ma non loconsiderava un vero matematico, a differenza di Conone.

A quell’epoca Eratostene era il gran Bibliotecario e si può comprendere l’invio formale di un metodo con valore euristico, ma non dimostrativo. Ciò rientra nell’ambito di una collaborazione scientifica, in cui però è Archimede a dare, senza ricevere.

L’invio del Metodo dovrebbe risalire a epoca successiva all’invio del trattato sulla spirale a Dositeo. Potremmo già essere in costanza dei preparativi per la misurazione della circonferenza della Terra, avvenuta dopo l’Arenario.

Così terminava il problema dei buoi del Sole, inviato a Eratostene: << O amico, rallegrati della vittoria, e sappi che sei arrivato al sommo grado della scienza >>. Sempreché fosse giunto a determinare le soluzioni richieste, con numeri di oltre 200 mila cifre! Non ci sembra un atteggiamento amicale, ma una sfida all’impossibile. Tale scienza o sapienzasophie – è l’ultima parola dell’epigramma. E non sarebbe riferita a numeri incalcolabili, bensì alla conoscenza della Giustizia, chiamata Nemesi dai Greci, rappresentata dai pitagorici col numero 7. Cioè, la terribile scienza del bene e del male!

Il secondo gradino del problema determinava un terribile aggravamento. La condizione che quando i tori bianchi insieme a quelli neri avrebbero formato un gruppo quadrato [una figura equilatera sebbene i buoi abbiano una forma piuttosto rettangolare], allora quelli marroni più quelli pezzati avrebbero formato un numero triangolare [una figura a forma di triangolo], imponeva alle relazioni proporzionali del primo gradino una seconda relazione tra i tori, assommati in due gruppi secondo il loro ordine di colore. L’Autore del problema sapeva già con assoluta certezza che tale condizione doveva verificarsi, che era del tutto coerente rispetto all’impostazione del primo gradino, le cui soluzioni milionarie minime potevano essere determinate dai matematici del tempo.

Ciò significava, tramite la scomposizione in fattori [operazione non facile a eseguirsi], che se B + N = k (4* 3* 11* 29* 4657), la somma dei tori bianchi con i tori neri sarebbe stata un quadrato numerico, se e solo k = 3*11*29* 4657* Y al quadrato [vedi su Internet il Blog Matematico del Prof. Umberto Cerruti dell’Università di Torino].

Poiché un numero “triangolare” pitagorico è dato dalla somma successiva di tutte le cifre (1+2+3+4+5+6+7 ecc.), si deve avere allo stesso tempo che 8 (M + P) + 1 = Q (cioè un numero quadrato).

Se si prende un quadrato di 9 puntini di lato, con area in 8 punti, si vede immediatamente che esso è composto da 8 triangoli di 10 puntini ciascuno, più il puntino centrale (il che equivale, in generale, al fatto che 8t + 1 = Q dispari).

Si giunge per questa via a determinare l’equazione finale di Pell da risolvere numericamente. Ecco l’equazione da risolvere: X al quadrato – 4.456.729*Y al quadrato = 1. Il coefficiente D = 4.456.729 è mostruoso.

Essendo indeterminata, l’equazione ha infiniti cicli di risoluzione, quando già al primo ciclo le soluzioni sono date da numeri spropositati di oltre 200 mil cifre. Il problema a bovino è chiaramente inutile, sebbene concepito in modo geniale. Esso rappresenta un caso di analisi diofantea ovvero di analisi indeterminata di secondo grado che rientra nel più vasto campo specialistico della c.d. “morfologia” matematica, molto importante per lo studio dei numeri primi.

Non si può dubitare che le conoscenze matematiche di Archimede giungessero alle equazioni indeterminate di secondo grado cinque secoli prima di Diofanto, in specie se connesse ai numeri figurati pitagorici. Ma si è costretti a negare dubitare che avesse fatto i calcoli. Il problema era stato costruito ad arte.

Abbiamo cercato di snidare quest’ultimo “segreto” di Archimede. Lo abbiamo fatto in modo indiziario, su basi razionali, anche a prescindere dalla validità e precisione analitica delle considerazioni svolte.

Come nel primo gradino, anche nel secondo gradino il numero 7, che fa parte della struttura del problema, ha un ruolo allegorico e simbolico, che corrisponde al valore di “giustizia” assegnato dai pitagorici al numero 7 *[sul numero 7 si vedano, ad es., P. G. Odifreddi, Sette volte sette, su Le scienze, 2007; A. Hodges, Il curioso dei numeri, Mondadori, 2007, pp. 194 ss.].

Tale singolarità non era mai stata mai notata, anche perché i matematici che si sono occupati del problema bovino, l’hanno fatto secondo il loro mestiere, con la consueta bravura, senza cercar altro.

L’epigramma bovino ha finito per indicare, accanto alle 7 greggi omeriche del Sole Iperione nell’isola di Sicilia “a tre punte”, l’attualità delle Argonautiche di Apollonio Rodio (che era stato il gran Bibliotecario prima di Eratostene ed era entrato in precedenza in urto con Callimaco), facendo ponte sul medesimo canto XII dell’Odissea. Il numero 5040 delle Leggi di Platone richiamava il Platonico di Eratostene (opera perduta). Le equazioni riportano al “mito di Er”, che conduce al “discorso di Alcinoo” (Odissea, libro XI). Con evocazioni del Timeo e del lCarmide [la più antica menzione del problema bovino è contenuta in uno scolio anonimo al Carmide di Platone, attribuibile a Gemino di Rodi, e ciò giustifica la conoscenza che ha Cicerone dell’esistenza del problema di Archimede].

Infine il numero 7, che i pitagorici associavano a Nemesi, la dea della Giustizia, ci riporta alla Chioma diBerenice di Callimaco, ove si partiva da Conone che era stato il più grande amico di Archimede.

Attraverso l’aition di Callimaco sui “riccioli” votivi della regina e l’Agamennone di Eschilo si ritorna ai “buoi”.

Quanto sono casuali tali associazioni, se alla luce dell’Arenario di Archimede, si può aggiungere che il metodo usato da Eratostene per misurare la Terra fu severamente criticato da Ipparco, che avendo lavorato per molti anni a Rodi, indubbiamente lasciò la propria impronta su Posidonio di Apamea, il maestro di Cicerone?

La trama gialla del problema dei buoi del Sole non è inventata. Possiamo dire che si tratta dell’ultimo “segreto” di Archimede.

***

Conone di Samo era un grande astronomo. Archimede lo rimpiange come amico carissimo. Bisognerebbe poter sapere di più su Conone: ciò che sappiamo è quanto riferito ironicamente da Callimaco. Ma sappiamo che Conone fu ingiustamente denigrato da Nicotele di Cirene. Quanto basta per creare un forte sospetto. Come concepiva Conone l’astronomia? Se era stato intimo amico di Archimede tutto dedito alla contemplazione dell’Essere come appunto lo descrive Plutarco [per di più costantemente in preda alla sua domestica Sirena], a Conone come astronomo provetto può attagliarsi molto bene il seguente brano della Repubbica di Platone:

<< E ora, Socrate, quella astronomia che prima mi accusavi di apprezzare per motivi prosaici, la posso lodare per le ragioni che tu stesso adduci dal momento che nessuno può dubitare che essa costringa l’anima a guardare verso l’alto e ivi conduca, strappandola dalle cose quaggiù >>.

<< Sarà forse chiaro a tutti – obbiettai – , ma a me no: da parte mia non direi che le cose stiano in questi termini >>.

<< Ma come? >>, disse lui.

<< Per come oggi la usano quelli che aspirano alla filosofia, direi che essa, piuttosto che verso l’alto, fa guadare verso il basso >>.

<< Cosa intendi dire ? >>, domandò.

Ed io: << Mi sembra che tu ti sia costruito un’immagine della scienza dei mondi celesti un poco idealizzata. C’è rischio che tu faccia come chi, alzando la testa a rimirare le decorazioni del soffitto, per il solo fatto di scorgervi qualcosa, già si illuda di aver visto con l’intelletto, mentre ha veduto con gli occhi. Ma forse tu sei l’intelligente e io l’ingenuo. In ogni caso, non riesco a pensare che ci sia un’altra scienza in grado di rivolgere l’anima verso l’alto, se non quella che tratta dell’essere e della realtà invisibile…>> [ VII, 528 D-529 C ].

***

Conone e Archimede non concepivano la scienza [astronomia compresa] come decorazioni di un soffitto, ma come contemplazione dell’Essere con lo sguardo dell’intelletto. Erano degli scienziati puri, per loro le applicazioni pratiche passavano in secondo piano. Forse Conone aveva scopeto i filamenti di una supernova, come appunto sostiene il Prof. Giorgio Dragoni; forse aveva scoperto un “qualcosa” molto più importante di un’insignificante costellazione di 7 deboli stesse di seconda o di terza grandezza, ma anche qui torna di nuovo il numero 7. E si può essere quasi certi che il raffinato ma sempre corrosivo Callimaco snaturò le scoperte astronomiche di Conone che molto probabilmente non comprendeva, per costruirci sopra il mito dei “riccioli” della giovanissima regina, misteriosamente scomparsi da un tempio, a Canopo, ove erano stati dedicati a tutti gli dèi come voto per il ritorno del re dalla guerra. Gli stessi “riccioli” delle chiome delle due dèe guardiane delle 7 greggi omeriche, sacre al Sole Iperione, cui indubbiamente s’ispira il problema bovino, caso unico – nella storia della matematica antica – di un terribile problema aritmetico formulato con un epigramma di 44 versi che si conclude – come per una sfida – con la parola “saggezza” ovvero “sapienza”, chiara allusione alla vera conoscenza più che alla semplice perizia, quanto all’appellativo di “amico” oppure di “straniero” (potremmo dire: “amico del sole”).

***

Il “mito di Er” è contrapposto al “discorso di Alcinoo” dell’Odissea. Il re dei Feaci ha accolto Ulisse nell’isola di Scheria e l’ ha colmato di doni. Anche gli Argonauti approdarono a Scheria, e qui Alcinoo li protesse dai Colchi che li inseguivano (a Scheria avvenne il matrimonio di Giasone con Medea).

Platone dice espressamente di “staccarsi” dalla discesa nell’Ade di Ulisse e da ciò che si narra nel discorso di Alcinoo. Ulisse racconta anche l’incontro nell’Ade con Agamennone, da cui prese poi materia la tragedia di Eschilo.

L’ombra di Agamennone fa il racconto di una terribile morte a tradimento: Egisto, dopo aver preparato la morte e il destino / con la mia sposa funesta mi uccise, invitandomi a casa / a mangiare, come un bue alla greppia si uccide (Odissea XI, 409-411).

Parla adesso un soldato, che fa la guardia nella città di Argo aprendo la scena di una grande tragedia di Eschilo: << Dei! Vi chiedo di liberarmi da questotormento, / da questa guardia che dura da un annoBasta, per il resto ora taccio. Un peso enorme come / un bue è piombato sulla mia lingua; questa stessa casa, / se potesse parlare, potrebbe dire tutto, chiarissimamente / E io parlo volentieri a chi sa: con chi non sa, tutto dimentico >>. (Agamennone, 36 ss.).

***

Non sappiamo come si svolsero i fatti e cosa passò per la testa di un genio creativo come Archimede. Possiamo soltanto provare a “immaginare”, come dice Georges Duby. Quando mancano riscontri certi si può far ricorso agli indizi disponibili. Appunto 7 stelle, ovvero il numero 7. Questi indizi ci riportano all’aition di Callimaco sulla Chioma di Berenice, precisamente ai versi (frammentari) 70 e 71: << Non adirarti vergine di Ramnunte *[Nemesi, la dea della Giustizia], / nessun buebloccherà la mia parola…>> (Omero ed Eschilo). Non conosciamo la verità, ma crediamo d’averla intuita. Il problema dei buoi del Sole era rivolto a un determinato scopo e i calcoli per forza dovevano essere impossibili per Eratostene e per tutti gli altri, Archimede compreso.

Nel terribile problema si nascondevano una lezione morale con invito alla modestia. Tutto nel nome della Giustizia, appunto la vergine di Ramnunte.

Forse, per un grave torto subìto? – Diciamo pure di sì.

E’ il numero 7 a indicarcelo, campeggiando nella struttura logica del problema bovino. Lo stesso numero 7 al quale i pitagorici avevano assegnato il significato di Nemesi, giustizia o corretta proporzione, dea della scienza del bene del male nello stesso significato che affiora nel mito di Er ove compare di nuovo Ulisse, allorché estratto a sorte per ultimo, con la sua solita astuzia sceglie per sé la migliore reincarnazione possibile, quella di un uomo tranquillo, che sappia guardare all’immensità dell’Universo con lamassima modestia.

Nella nostra piccola veste di astrofili dilettanti, abbiamo voluto ricordare due geni come Archimede e Galileo Galilei, l’uno accanto all’altro, per la gloria del Demiurgo, ma con spirito d’assoluta umiltà davanti al mistero all’Essere.

Ci accontenteremo – come fece Ulisse – d’essere estratti a sorte per ultimi, per un’esistenza quieta ma rispettosa della vita altrui, memori delle sofferenze della vita.

(avv. Arcangelo Papi, marzo 2014)

*Dedicato al Gruppo Astrofili del Monte Subasio, a Paolo Fagotti scopritore di una supernova, e all’Avv. Mario Rampini Presidente Onorario del Gruppo.

 

1 D. Guedj, La chioma di Berenice, Longanesi 2003. Guedj, professore di Storia della scienza a Parigi, è autore altresì del Teorema del pappagallo (2000) e de Il metro del mondo (2004), sempre pubblicati in Italia da Longanesi. L’ultimo libro è un saggio storico sulle misure del meridiano terrestre.

2 La logistica per i Greci era l’arte del calcolo numerico.

3 Una soluzione, con discussione di altre possibilità, nell’ipotesi che il testo greco del problema possa esserci giunto corrotto, cioè involontariamente alterato dal copista nelle frazioni e pertanto reso complicatissimo, è presente sul web, a cura del Prof. Umberto Bartocci dell’Università di Perugia. L’ipotesi era stata già formulata da K. G. Calkins, ma la respingiamo per le ragioni che indicheremo. Esemplare è la soluzione offerta dal Prof. Umberto Cerruti in due puntate sul Blog.

4 Il problemino posto da Omero riguardava 7 mandrie di vacche e 7 greggi di pecore, con cinquanta bestie ciascuna.

5 Si fronteggiano due ipotesi: 1) che il terribile problema bovino sia stato una beffa o una vendetta; 2) che il testo orginale del problema fosse molto più semplice, ma in questo caso il problema perderebbe pressoché ogni significato, fermo restando che non sono state dimostrate le alterazioni del testo in greco, ma soltanto asserite come ipotesi banale.

6 Vedi per es. U. Bartocci, Variazioni sul problema di buoi.

7 Preferiamo l’accezione di straniero, possibile in greco, rispetto a quella comunemente accolta di amico. Il vocativo, ripetuto, scandisce il testo.

8 Si potrebbe pensare ai c.d. numeri ciclici, ma non c’è riscontro.

9 Ogni numero è primo oppure è un prodotto di numeri primi. I numeri primi sono necessariamente dispari. Esistono numeri primi gemelli, separati da una sola unità. 4657 è un numero primo. 891 è il prodotto di 3*27*11: ovvero, 27 per 44 . 27 è il cubo di 3, 44 sono i versi dell’epigramma bovino. La somma delle cifre che compongono il numero 4657, prese due a due, è 11. La somma delle cifre estreme di 891 è 9, corrispondente alla cifra di mezzo.

10 Sul tangram si veda quanto già detto in “Archimede parte seconda”. Segnaliamo, per i cultori, due articoli di Martin Gardner, pubblicati su Scientific American, ediz. italiana Le Scienze, n. 76 del dicembre 1974 e n. 77 del gennaio 1975.

11 Sulle frazioni egiziane vedi M. Gardner, Le Scienze n. 126 febbraio 1979; G. Gheverghese, C’era una volta un numero, il Saggiatore 2000.

12 Cicerone, che era stato allievo del neopitagorico rimano Nigidio Figulo, era nato ad Arpino, una località degli antichi Ernici, con Alatri, Anagni, Ferentino, Atina e a Frosinone. Sono queste le “terre di Saturno” (Saturnia tellus), la cui distribuzione geografica nell’antico Lazio sarebbe strettamente collegata alla costellazione dei Gemelli (stimolante vicenda di ‘archeoastronomia’, tutt’altro che trascurabile).

13 Sappiamo da fonti classiche autorevoli (Cleomede e Strabone) che a Rodi, Posidonio e Gemino rifecero i calcoli di Eratostene sulle dimensioni della Terra. La freccia indiziaria che converge su Cicerone, allievo di Posidonio, indica che il problema dei buoi, attribuito ad Archimede, non era mai stato risolto. Ciò esclude, ovviamente, le pretese infondate di quanti ritengono arbitrariamente corrotto il testo dell’epigramma.

14 Si veda il bel saggio di P. Faure, Nelle colonie greche, B.u.r. 1998.

15 Queste esplorazioni geografiche risalivano al IV secolo a.C.

16 Cirene era la patria di Callimaco e di Eratostene, oltre che della regina Berenice.

17 Il Prof. Giorgio Dragoni, docente di Storia della scienza All’Università di Bologna, nel 1979 ha pubblicato un bel saggio dedicato a Eratostene e all’apogeo della scienza greca, che si lascia particolarmente apprezzare e che meriterebbe una ristampa. Ritengo, tuttavia, che l’impresa portata a termine da Eratostene e dai matematici alessandrini non fosse originale, cioè frutto esclusivo e innovatore della geografia scientifica. Gli antichi egiziani sono stati i primi a ideare il sistema.

18 Il fatto che Omero citi l’isola di Faro depone a favore di un’antica e illustre tradizione molti secoli prima della fondazione di Alessandria e non il viceversa.

19 Vedi “Archimede parte terza”.

20 Non è difficile collocare il problema dei buoi ad anni successivi all’invio del trattato del Metodo, già da anni morto Conone. Dovremmo essere intorno al 230 a.C., poco dopo la misura della Terra. Non ci sono controindicazioni preclusive.

21 Il teorema, attribuito a Diofanto, che venne 5 secoli dopo Archimede, in realtà risaliva alle conoscenze pitagoriche. In algebra moderna il teorema è facilmente dimostrabile in base alla formula generativa dei numeri triangolari: 8t + 1 = nq = n per n. Per es., 81 = 9 per 9 = 8 per 10 + 1, con il 10 che è un numero triangolare della forma n (n + 1) / 2.

22 Il bluff spiega dunque lo scopo perseguito: che era una lezione morale a matematici presuntuosi e sconsiderati, da ricondurre a modestia e a temperanza.

23 Si rassegni chi ha presupposto un’alterazione casuale del testo epigrammatico sul problema dei buoi del Sole. Non è così. La pretesa razionalista è infondata in tutti i sensi. Tra l’altro rivela scarsa domestichezza col genio archimedeo e incomprensione della struttura del problema, oltre che del testo greco.

24 Abbiamo già visto che nell’equazione indeterminata di Pell implicata dal problema dei buoi il coefficiente numerico D è uguale a 3 per 11 per 29 per 4567 = 4.456.749 che è un numero dispari.

Una Risposta

  1. Il palinsesto di Archimede | viaariosto

    [...] Il problema dei Buoi del Sole http://misteridiassisi.it/archimede-e-il-problema-dei-buoi/ [...]

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